Eclisse della ragione

E

“Il pensiero vive: i custodi della sua sacra fiamma si nascondevano nelle fessure più remote e buie, ma la fiamma non si è spenta. Essa vive”.

Nadezda Mandel’stam(1)

 

 

La “critica della ragione strumentale” svolta da Max Horkheimer (1895-1973) nel suo celebre Eclisse della ragione(2) , nonostante gli anni trascorsi dalla sua prima pubblicazione (1947) e i limiti di un sociologismo ormai datato, si dimostra, per altri aspetti, ancor oggi attuale, pertinente e meritevole di considerazione.
Ci è parso quindi utile estrapolarne dei passi, facendoli seguire, alla luce della scienza dello spirito di Rudolf Steiner, da alcune brevi riflessioni.

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Dice Horkheimer: “La crisi della ragione trova espressione nella crisi dell’individuo, come strumento del quale la ragione aveva conosciuto i suoi trionfi (…) Un tempo l’individuo vedeva nella ragione solo uno strumento dell’io; ora si trova davanti al rovesciamento di questa deificazione dell’io. La macchina ha gettato a terra il conducente, e corre cieca nello spazio. Al culmine del processo di razionalizzazione, la ragione è diventata irrazionale e stupida”(3) .

Dal nono secolo, tuttavia, e ancor più radicalmente dal 1413 (anno d’inizio della fase evolutiva dell’anima cosciente), la ragione è stata “strumento”, non tanto di una “deificazione dell’io”, quanto piuttosto di una sua “umanizzazione”.
Come Dio si è fatto uomo perché l’uomo potesse farsi Dio, così il pensiero divino si è fatto umano perché il pensiero umano potesse farsi divino. Un simile processo comporta però il rischio che l’io, una volta emancipatosi dal cogente pensiero divino, anziché ascendere consapevolmente lungo la via che riconduce alla originaria realtà soprasensibile, discenda inconsapevolmente lungo quella che sfocia nella realtà subsensibile. “Al culmine del processo di razionalizzazione”, il pensiero non è pertanto diventato “irrazionale e stupido”, bensì vieppiù “razionale” e “intelligente” per un verso, e vieppiù “in-umano” o “dis-umano” per l’altro.
E’ vero, infatti, che la macchina ha “gettato a terra il conducente”, ma non è vero che la stessa corra “cieca nello spazio”, poiché alla sua guida è occultamente subentrato proprio il demone della macchina e dello spazio (della morte): ovvero, un’entità spirituale che tenta, mediante l’intelletto umano, di realizzare i propri “in-umani” o “dis-umani” fini (4).

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Dice Horkheimer: per l’antica e “oggettiva” concezione della ragione, questa, “in quanto immanente alla realtà, esiste non solo nella mente dell’individuo ma anche nel mondo oggettivo. Tale concezione non nega l’esistenza della ragione soggettiva, ma la considera solo un’espressione limitata e parziale di un’universale razionalità. Poiché suo scopo supremo è quello di riconciliare l’ordine oggettivo del “ragionevole” con l’esistenza umana, i fini, per essa, contano più dei mezzi”(5) . Alla moderna e “soggettiva” concezione della ragione, invece, interessa soprattutto “il rapporto fra mezzi e fini, l’idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi che in genere si dànno per scontati e che si suppone si spieghino da sé”(6) .
Se la prima concepiva quindi il pensiero come “un’entità”, o “una forza spirituale presente in ogni uomo”, capace non solo di riflettere “la vera natura delle cose”, ma anche “di comprendere i fini”, se non addirittura di “stabilirli” (p.16), la seconda si dice invece convinta che “il pensiero non può essere di nessuna utilità per stabilire se un fine è desiderabile in sé”(7) .
“La crisi odierna della ragione – perciò conclude – consiste fondamentalmente nel fatto che a un certo punto il pensiero è diventato incapace di concepire una tale oggettività, o ha cominciato a negarla affermando che si tratta di un’illusione. Il processo si è allargato gradualmente fino ad investire il contenuto oggettivo di tutti i concetti razionali; alla fine nessuna realtà particolare può essere considerata ragionevole in sé; tutti i concetti fondamentali, svuotati del loro contenuto, hanno finito per essere solo involucri formali. Soggettivizzandosi, la ragione si è anche formalizzata” (p.14).
Tuttavia, se alla moderna ragione “soggettiva” si oppone – come fa Horkheimer – la sola e antica ragione “oggettiva”, viene completamente a sfuggire l’aspetto più attuale e preoccupante della questione.
Per meglio chiarire questo aspetto, cominciamo dunque con l’osservare il seguente schema:
1) all’alba della vita animica umana, veicolo del pensiero è un apparato neuro-sensoriale vivente. Per questo, il pensiero viene considerato – come dice Horkheimer – “un’entità, una forza spirituale presente in ogni uomo (…) l’arbitro supremo anzi (…) una forza creativa” che sta “dietro le idee e le cose cui gli uomini” devono “consacrare la loro esistenza”(8) . All’origine della vita dell’anima, il soggetto del pensiero è dunque un Dio, e non un io (un ego);
2) in un secondo tempo, la vita dell’apparato neuro-sensoriale comincia a spegnersi (soprattutto nella corteccia) e a differenziarsi così, sempre più, dalla natura vivente (da quella ritmica e, in specie, da quella metabolica). Nel corso di questa fase, il pensiero viene perciò sperimentato in modo sempre meno vivo. All’inizio, infatti, si dà ancora come la manifestazione di un Dio (il daimonion socratico), mentre, alla fine, si dà come la manifestazione di un io o di un ego (cartesiano);
3) infine, l’apparato neuro-sensoriale “muore” (soprattutto nella neocorteccia) e diviene per ciò stesso veicolo indiretto del pensiero. Questo comincia infatti a osservare se stesso (a riflettersi) in virtù di quella parte dell’apparato neuro-sensoriale che, in quanto “morta”, gli fa appunto da specchio.
L’essere vivente originario (sintesi “a priori” di pensare, sentire e volere) si scinde così, nell’uomo (in virtù di una sorta di “gastrulazione” spirituale) nel pensare, grazie al quale diviene cosciente di sé come spirito o io (come res cogitans), e nel volere, a causa del quale resta invece incosciente di sé come natura o non-io (come res extensa). Per conseguenza, il sentire viene chiamato a mediare, quale terzo e in modo “sognante”, tra il polo superiore della “veglia” e quello inferiore del “sonno”. Al riguardo vanno quindi notate soprattutto due cose: 1) che la natura o il non-io si presenta in due opposte forme: a) in quella del sangue o della natura calda e viva (metabolica); b) in quella del nervo o della natura fredda e morta (corticale); 2) che è quest’ultima a fare da ordinario e concreto supporto al pensare, alla coscienza e all’autocoscienza.
E’ vero, dunque, che la ragione “soggettiva” (dell’anima) ha dovuto lottare, per affermarsi, contro la ragione “oggettiva metafisica” (dell’Essere), ma è altrettanto vero che la stessa si vede oggi minacciata dalla massiccia offensiva di una ragione “oggettiva fisica” (ovvero, di una materialistica e inconscia riedizione dell’antica “metafisica”)(9) .
Va perciò rilevato che Horkheimer, sulla scia di quelle della “ragion pura” e della “ragion pratica” di Kant, ci presenta una “critica della ragione strumentale” che ha il torto di non distinguere con sufficiente chiarezza la “soggettiva” ragione formale (moderna) dalla “oggettiva” ragione strumentale (contemporanea).
Detto questo, cerchiamo adesso di seguire, con un certo ordine, lo svolgimento delle sue argomentazioni.
Prima, però, ricordiamo ancora che l’uomo, finché ha goduto di una vivente esperienza della ragione, si è trovato alle prese con un pensiero ancora unito interiormente alla volontà. Tale viva esperienza, durante la fase di sviluppo dell’anima senziente (3564 – 747 a.C.), si è data in forma “mitologica” o “immaginativa”, mentre, durante quella dell’anima razionale e affettiva (747 a.C. – 1413 d.C.), si è data in forma “filosofica” o “concettuale” (“realistica”). Nel corso di questo lungo periodo di sviluppo, si è perciò avuta, della ragione, un’esperienza oggettiva, ma non libera. Esaminando il passaggio alla concezione “soggettiva”, si dovrebbe quindi rivolgere maggiore attenzione al modo in cui si è correlativamente trasformata la relazione del soggetto (dell’ego) col pensiero. Se l’antica ragione “sostanziale” si dava infatti in modo oggettivo e trascendente, la moderna ragione “formale” si dà invece in modo soggettivo e immanente.
Dal momento, tuttavia, che si usa definire “psicologistico” qualsiasi indirizzo filosofico “ponga al centro di ogni riflessione i dati della coscienza empirica individuale”(10) , si deve riconoscere che il reale fondamento dell’individualismo moderno è psicologistico e per ciò stesso nominalistico.
In proposito, Dario Antiseri dice infatti (citando Ludwig von Mises): “Il contrasto tra realismo e nominalismo (…) si manifesta anche in filosofia sociale. La differenza tra l’atteggiamento del collettivismo e quello dell’individualismo riguardo al problema delle istituzioni sociali non è diversa dalla differenza di atteggiamento dell’universalismo e del nominalismo sul problema del concetto di specie”(11) .
Allorché Horkheimer afferma “che tutti i concetti fondamentali, svuotati del loro contenuto, hanno finito per essere solo involucri formali”, è d’obbligo tornare a considerare il momento in cui la coscienza del concetto è passata dal “realismo” al “nominalismo”.
Qual era, per l’antica concezione “oggettiva”, il contenuto dei concetti? Lo stesso di quell’Essere – possiamo subito rispondere – che, grazie alla forza del suo volere (e del suo sentire), rendeva vive e animate le forme del pensare (le idee – ricordiamolo per inciso – sono appunto, per Steiner, dei “recipienti d’amore”, e l’amore è, per Scaligero, “l’essere dello spirito”). Svuotare – come dice Horkheimer – tutti i “concetti fondamentali” del loro contenuto, significa dunque svuotarli della forza dell’Essere, tanto da ridurli a dei piatti e inconsistenti “involucri formali”.
Va anche considerato, però, che, nello stesso momento in cui si spegne, nell’uomo, il volere dell’Essere universale (quella “forza” che si era data, fino allora, insieme alla “forma”), si spegne, sì, la forza “oggettiva” del pensiero, ma si accende quella “soggettiva” (o “personale”) della volontà: ovvero, quella forza “reale” dell’ego che fa da ordinario sostegno alla forma “ideale” dell’autocoscienza (l’egoismo).
Quest’ultima è dunque espressione dell’Essere vivente che si riconosce, per la prima volta, come io o spirito. Questa iniziale autocoscienza non è però che una coscienza indiretta, poiché mediata, nell’anima, dal pensiero “riflesso”. Lo “psicologismo” è infatti espressione della coscienza animica dell’Io, non della sua coscienza spirituale.
E’ qui doverosa, tuttavia, una considerazione che Horkheimer manca di fare. Se è vero che è dalla frattura dell’Essere originario che discendono tanto il soggetto o l’io quanto l’oggetto o il non-io, è vero allora che l’io viene posto quale “logico” soggetto animico (quale “soggetto-soggetto”) dai razionalisti, mentre il non-io viene posto quale “illogico” soggetto fisico dai materialisti e quale “illogico” soggetto metafisico dagli spiritualisti (e da entrambi, quindi, quale “oggetto-soggetto”).
A quelli che Pierre Bayle chiama i “razionali” (immanentisti) si vengono così a contrapporre due opposti tipi di quelli che – sempre Bayle – chiama i “religionari” (trascendentisti): i primi pongono il fondamento dell’essere umano nel mondo trascendente della materia (magari nel cervello); i secondi lo pongono invece in quello trascendente dell’Essere (magari nell’inconscio)(12) .
Ciò vuol dire quindi che la coscienza “soggettiva” (moderna e “psicologistica”) della ragione cui si riferisce Horkheimer, non occupa che una posizione intermedia, tra quella “oggettiva” d’impronta “metafisica” (antica) e quella “oggettiva” d’impronta “fisica” (contemporanea). La prima, dunque, per mantenere fede all’immanenza, non sa far di meglio che confinare l’io nella sfera psicologica, mentre le altre due, per mantenere fede al non-io, non sanno far di meglio, rispettivamente, che conservare e resuscitare la trascendenza.
Abbiamo detto, in precedenza, che l’oggettività (o l’universalità) si fa astratta nel pensiero nello stesso momento in cui la soggettività (o l’individualità) si fa concreta nella volontà. Sarà perciò opportuno precisare che tale volontà non è, inizialmente, che quella calda del corpo vivente o metabolico (ossia, del sangue, della physis o – come direbbe Freud – dell’eros). E’ importante sottolinearlo, poiché si tratta di una forza che, nel corso della prima fase di sviluppo dell’anima cosciente, tende (quale brama), non tanto a “riempire” le forme del pensiero, quanto piuttosto, a “svuotarle” del loro originario e “sostanziale” contenuto per deontologizzarle o formalizzarle. Il più eloquente esempio di questo iniziale non-essere, o di questa iniziale “neutralità”, della ragione, lo fornisce la matematica. Tutte le scienze, del resto, si sviluppano inizialmente – secondo quanto osserva Antonio Banfi – “da ricerche e problemi particolari” e rimangono di massima “indipendenti da qualsiasi generale sintesi metafisica”(13) .
E’ doveroso quindi distinguere la scienza della materia dal materialismo, la scienza dallo scientismo e le scienze “naturali” da quelle cosiddette “umane”. Se la matematica, infatti, è l’espressione più pura del non-essere del pensiero, e se le scienze della natura la eleggono a loro modello, ciò significa che queste eleggono a loro modello il non-essere. Una cosa, ad esempio, è la “meccanica”, altra il “meccanicismo”: la prima, in virtù del non-essere del pensiero, è infatti capace di afferrare le leggi che governano il mondo fisico; il secondo, a causa del non-essere del pensiero, da queste stesse leggi è viceversa afferrato. Si tratta dunque di distinguere, con grande accortezza, il caso in cui la volontà umana, mediante il non-essere del pensiero, afferra e domina l’attività (o la volontà) dell’essere della “morte” (della materia), da quello in cui la stessa, sempre mediante il non-essere del pensiero, viene al contrario afferrata e dominata dall’attività (o dalla volontà) di tale entità (si rammenti qui che la morte è un principio attivo, e non una semplice assenza di vita).
Allo studioso della scienza dello spirito (e non quindi dello spiritualismo astratto), una distinzione del genere dovrebbe risultare particolarmente utile poiché potrebbe permettergli di capire anche il perché Steiner, nei suoi scritti e nelle sue conferenze, abbia fatto sovente appello, per una prima comprensione del suo insegnamento, a un intelletto “scevro di pregiudizi”.
In tutti i modi, alla luce di quanto siamo venuti dicendo, dovrebbe essere chiaro che il problema è costituito, in primo luogo, dal diverso modo in cui il volere attiva il pensare e dalla sua diversa e intrinseca qualità. Mentre il volere naturale (al pari della libido freudiana) “investe” infatti il pensiero dall'”esterno”, quello spirituale lo muove dall'”interno” (permettendoci così di parlare di un “volere nel pensare”). Se quest’ultimo è però caldo (flamma non urens) e personale-impersonale (“transpersonale” o “sovrapersonale”) poiché scaturisce dall’Io, il primo presenta invece due opposti aspetti: caldo (flamma urens) e personale, allorché scaturisce dalla fonte (luciferica) dell’eros; freddo e impersonale, allorché scaturisce dalla fonte (arimanica) del thanatos.
L’intelletto “scevro – come dice Steiner – di pregiudizi” non è dunque che quel puro non-essere del pensiero nel cui vuoto può tornare coscientemente e volontariamente a riversarsi, come in una coppa, la volontà o la forza d’amore dello spirito. “Nel freddo e astratto mondo del pensiero” – scrive appunto Steiner – può tornare a vivere “la realtà spirituale satura di essere” (14).
La cosiddetta “ragione strumentale”, dunque, nasce allorché si rende attiva, nella coscienza umana, la fredda volontà del corpo morto o corticale (ossia, del nervo, del sòma, o del thanatos)(15) . È solo da questo momento, infatti, che la ragione, in quanto sottratta (da subtrahere: “togliere di sotto”) alla propria “neutralità” e al proprio “formalismo”, inizia a farsi succube della realtà sensibile. “La creazione di rappresentazioni, il pensiero, lo scambio spirituale tra gli uomini – afferma ad esempio Marx – appaiono diretta emanazione del loro comportamento materiale (…) Non già la coscienza determina la vita, ma la vita determina la coscienza” (16). E un suo seguace italiano, Giulio Trevisani, così puntualizza: “Il “materialismo” afferma contro la concezione idealistica: 1) è la materia che produce lo spirito; 2) la materia esiste indipendentemente dallo spirito; 3) la scienza ci permette di conoscere le cose per mezzo dell’esperienza”(17) .

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Dice Horkheimer: la lotta contro la ragione “oggettiva” (rappresentata dal cattolicesimo e dal razionalismo europeo) è stata soprattutto condotta dal calvinismo, dall’illuminismo e dall’empirismo.
“Gli illuministi – spiega infatti – attaccarono la religione in nome della ragione; ma in definitiva uccisero non la chiesa bensì la metafisica e il concetto obiettivo della ragione, da cui le loro stesse idee traevano forza” (18).
E’ vero, ma ciò non dovrebbe far dimenticare che la lotta contro l’antica ragione “oggettiva” è stata soprattutto condotta e vinta dal “nominalismo”. È proprio questo, infatti, ad aver svuotato i concetti del loro originario contenuto ontologico e ad averli così ridotti a nomina o sermones: ad averli trasformati, cioè, da “esseri” in “non-esseri”. Scrive, a questo proposito, Pavel Florenskij: ” La nostra vista è sotto il profilo sensibile penosamente incatenata all’individuale; ancor più vincolata ad esso è la nostra percezione, la nostra comprensione della vita. L’individualismo, che è anche nominalismo, è la malattia del nostro tempo”(19) .

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Dice Horkheimer: l’idea borghese di tolleranza è ambivalente: “da una parte infatti tolleranza significa libertà dal dominio dell’autorità dogmatica; dall’altra essa favorisce un atteggiamento di neutralità nei confronti d’ogni contenuto spirituale, e quindi un generale relativismo” (20).
Proprio “l’idea borghese di tolleranza” può però aiutarci a chiarire la differenza tra il volere “personale” che, condizionando il pensiero in qualità di eros, dà la stura alla sagra delle “opinioni” (o, in senso psicoanalitico, delle “razionalizzazioni”) e quello “impersonale” che, condizionando il pensiero in qualità di thanatos, dà luogo al “dogmatismo” e alla “intolleranza”. La tolleranza borghese, infatti, in tanto implica “un atteggiamento di neutralità nei confronti d’ogni contenuto spirituale”, in quanto è in virtù appunto della “neutralità” o del non-essere del pensiero che l’ego è riuscito – come abbiamo visto – a sprigionare la propria volontà (o brama). E’ sintomatico il fatto che, un tempo, la verità della concezione “oggettiva”, in quanto verità universale dotata di forza propria, imponeva la propria forma al soggetto individuale, mentre oggi, la cosiddetta “verità” delle concezioni “oggettive” deve ricorrere, per imporsi, alla forza esteriore di una qualche autorità o istituzione. Essendo astratta (o psicologica), e posta, nella sua forma, dalla forza del soggetto individuale, tale “verità” non è più infatti assoluta e trascendente, bensì relativa e immanente (non più quindi alétheia, bensì doxa). La coscienza borghese non sa dunque concepire l’oggettività se non in modo trascendente, e non sa concepire l’immanenza se non in modo soggettivo (ovvero, non sa concepire lo spirito o l’Io in modo “trans-soggettivo” e “trans-oggettivo”). Al fine di affermare la libertà, è perciò costretta a negare la verità: a fare l’inverso, cioè, di quanto fa la ragione “oggettiva” che, al fine di affermare la verità, è costretta a negare la libertà.

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Dice Horkheimer: “Avendo rinunciato alla sua autonomia, la ragione è diventata uno strumento. Nell’aspetto formalistico della ragione soggettiva, sottolineato dal positivismo, è messa in rilievo la sua indipendenza dal contenuto oggettivo; nell’aspetto strumentale sottolineato dal pragmatismo, è messo in rilievo il suo piegarsi a contenuti eteronomi. La ragione è ormai completamente aggiogata al processo sociale; unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzione di mezzo per dominare gli uomini e la natura. I concetti sono stati ridotti a “sommari” delle caratteristiche che parecchi specimen hanno in comune; essi risparmiano la noia di dover enumerare tutte le qualità di un essere o di un oggetto, e servono ad organizzare meglio il materiale della conoscenza. Sono considerati semplici abbreviazioni di ciò a cui si riferiscono, espedienti per risparmiare lavoro, strumenti di lavoro estremamente funzionali e razionalizzati: ogni uso che trascenda questo è stato eliminato come ultima traccia di superstizione”(21) .
In realtà, il positivismo e il pragmatismo, essendo “nominalistici” (ed essendo il “nominalismo” l’imprescindibile presupposto del materialismo), altro non sono che “varianti” del materialismo. Il primo, dunque, nonostante tenda – a detta di Horkheimer – a sottolineare il carattere “formale” del pensiero e la sua “indipendenza dal contenuto oggettivo”, non si presta (in specie ove si consideri il carattere “scientistico” da esso assunto nella seconda metà del secolo XIX) a essere inserito nell’ambito della ragione “soggettiva”; mentre il secondo, tendendo – come dice sempre Horkheimer – a subordinare la ragione a dei “contenuti eteronomi”, ben rappresenta quella nuova ragione “oggettiva” che “strumentalizza” il non-essere del pensiero in nome della realtà sensibile. Più che di “razionalità”, l’uomo ideale del pragmatismo dev’essere dotato infatti d’ingegno.

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Dice Horkheimer: “L’ingegnere è forse il “simbolo del nostro tempo”. A costui – spiega appunto – “non interessa capire le cose per amore di esse o per amore di una profonda visione del mondo, bensì solo per poterle inserire in uno schema, non importa quanto estraneo alla loro intima struttura; e questo vale tanto per gli esseri viventi quanto per le cose inanimate. Nella mente dell’ingegnere trova espressione lo spirito dell’industrialismo nella sua forma più funzionale. Sotto la sua guida, diretta sempre a uno scopo ben preciso, gli uomini sarebbero ridotti alla condizione di un agglomerato di strumenti senza uno scopo loro proprio”(22) .
Non va dimenticato, però, che lo “spirito dell’industrialismo” – evocato da Horkheimer – è frutto del connubio tra lo spirito dell’economia e quello della tecnica.
Scrive al riguardo Steiner: “La massima parte di ciò che opera nella civiltà attraverso la tecnica, e in cui l’uomo con la sua vita è irretito in sommo grado, non è natura, ma subnatura. È un mondo che si emancipa dalla natura, verso il basso” (23).
La scienza (epistéme) è infatti espressione conoscitiva del “volere nel pensare”, mentre la tecnica (téchne) è espressione utilitaristica del “pensare nel volere”.
Proprio per questo, gli antichi (in primo luogo i greci) hanno sempre considerato la seconda, in quanto realtà “pratica”, culturalmente inferiore alla prima. Per poter godere di migliore considerazione, la tecnica ha dovuto attendere il Rinascimento e, soprattutto, il Seicento: ov
vero, il secolo della rivoluzione scientifica.
Nel corso dell’Ottocento, poi, allorché la tecnica ha preso ad allentare il suo tradizionale e monogamico vincolo con la scienza e a instaurare una sorta di ménage a trois con l’economia, si è avuta la “rivoluzione industriale”, ma si è avuto anche l’inizio di quel processo che sottrae il non-essere del pensiero alla calda volontà dell’uomo per farne il veicolo della fredda volontà di quella entità spirituale che “inabita” il mondo inorganico. E’ stata la “macchina” – sostiene appunto Panfilo Gentile – a produrre la “rivoluzione industriale”(24) . La macchina, tuttavia, in tanto ha potuto sostituire l’uomo nel lavoro, in quanto ha sfruttato l’energia della natura inanimata: dei “cadaveri” vegetali, ad esempio, nel caso del carbone e dei “cadaveri” animali in quello del petrolio.
I capitalisti si sono dunque illusi, come capita a ogni “apprendista stregone”, di poter dominare con la propria volontà la forza della “subnatura” agente attraverso la macchina. “Il capitale – osserva appunto Emanuele Severino – tende a servirsi della tecnica per incrementare il profitto; la tecnica tende invece sempre più a servirsi del capitale per incrementare la quantità di potenza a disposizione dell’uomo” (25).
Ma tale potenza è davvero “a disposizione dell’uomo”? O non è piuttosto l’uomo, oggidì, a essere “a disposizione” di tale potenza? Lo stesso Severino ammette infatti che “la tecnica sta portandosi al centro e alla guida della nostra civiltà perché le grandi forze di pensiero e di vita della tradizione occidentale vanno ritirandosi ai margini” (26). In ogni caso, non si tratta di essere a “favore” o a “sfavore” della tecnica (o del “modernismo”), bensì di impegnarsi a restituire al pensiero quella vita e quella forza che la “tradizione occidentale” ha ormai perso. Da questo punto di vista, quella della “tecnocrazia” è una vera e propria sfida al pensiero (ossia, la sfida di una natura inanimata ma ricca di “energia” a un pensiero inanimato e povero di “energia”). Sul piano storico e culturale, la “tecnocrazia”, per il suo carattere estensivo e intensivo, rappresenta un fenomeno del tutto nuovo: e proprio perché tale, non si presta a essere compreso e dominato da alcuna forza proveniente dal passato. Se le “grandi forze di pensiero e di vita della tradizione occidentale” – come dice Severino – vanno perciò “ritirandosi ai margini” è perché le stesse (senza rendersene conto) sono da tempo già morte. Ogni speranza, dunque, non può essere riposta che in un pensiero del tutto nuovo: in un pensiero, ossia, che si dimostri capace di attingere alla “sovranatura” la forza che gli necessita per comprendere e dominare quella della “subnatura”, e porre così davvero la tecnica “a disposizione dell’uomo”.
Comunque sia, per capire il perché Steiner parli delle forze che operano “attraverso” la tec
nica come di forze che appartengono alla “subnatura” (cioè, a un mondo che – come dice – “si emancipa dalla natura verso il basso” e che – aggiungiamo noi – corrisponde a quello di cui si occupa la fisica subatomica o subnucleare), è necessario non solo distinguere – come abbiamo fatto – le forze operanti nella natura vivente da quelle operanti nella natura inanimata, ma occorre pure distinguere, nell’ambito di quest’ultima, i processi che producono un “irrigidimento” o una “sclerosi” delle forme da quelli, ancor più profondi, che producono una loro “disgregazione” o “decomposizione” (non a caso, la fisica parla appunto di un decadimento radioattivo).
Orbene, quale tipo di rapporto vi sia tra questi processi (tra quelli, cioè, che cagionano, dopo la morte, la “decomposizione” della forma corporea) e il pensiero tecnico, ce lo fa intravedere ancora Severino. Dopo aver caratterizzato la nostra come l'”età della tecnica”, egli precisa infatti che lo spazio della tecnica “non è una totalità organica dove tutte le parti sono legate tra loro dalla comune radice divina, e dove dunque ci si muove a fatica (come “a fatica” si muovono, nei corpi viventi, i processi di decomposizione – nda), ma una totalità dove le parti sono separate le une dalle altre: reciprocamente isolate e reciprocamente indipendenti perché la loro comune radice – il loro Principio divino – o è stata messa tra parentesi o è stata esplicitamente negata. La scienza è specializzazione, e la tecnica è ingegneria “gradualistica” (…) proprio perché scienza e tecnica assumono metodicamente come oggetto d’indagine e di manipolazione parti isolate della realtà. Il mondo a cui si rivolge la scienza e la tecnica è una giustapposizione di parti isolate. E più cresce l’isolamento delle parti e la specializzazione che le riguarda, più cresce la potenza dell’agire scientifico-tecnologico” (27).

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Dice Horkheimer: “La massima kantiana: “Una sola strada è ancora aperta, quella della critica” – che fu formulata avendo in mente il conflitto tra la ragione oggettiva del dogmatismo razionalistico e la ragione soggettiva dell’empirismo inglese – si applica in modo ancor più pertinente alla situazione odierna”(28) .
Proprio Kant, tuttavia, è stato, grazie alla Critica della ragion pura, il massimo artefice della “formalizzazione” del pensiero e quindi uno dei più importanti rappresentanti dell’individualismo o del soggettivismo moderno (29).

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Dice Horkheimer: “Gli ideali e concetti fondamentali della metafisica razionalistica avevano radice nel concetto di umanità; formalizzandosi, essi hanno perso questo contenuto umano” (30). E aggiunge: “Mentre l’uomo è diventato abilissimo nei suoi calcoli finché è in gioco la scelta dei mezzi, la sua scelta dei fini – un tempo in rapporto con la fede in una verità oggettiva – è diventata priva d’intelligenza (31).
In verità, finché il volere è stato attivo nel pensare, non vi è stata alcuna netta separazione tra “mezzi” e “fini”: ancora in Socrate, ad esempio, la “scienza” del pensiero e la “virtù” della volontà coincidevano. Un’idea vivente si dà infatti quale “verità” al pensare, quale “bellezza” al sentire e quale “bene” al volere. Non appena il volere si è diviso dal pensare, l’uomo, godendo ormai della sola coscienza riflessa dell’idea, ha cominciato però ad avvertire la “forza etica” del primo come una realtà estranea alla “forma noetica” del secondo e si è perciò convinto che il pensiero possa unicamente servirgli a ricercare i fondamenti della morale nella natura, nella legge o nella imperscrutabile volontà di una entità trascendente. È così, dunque, che l’idea come “mezzo” (o come fatto “logico”) si è separata dall’idea come “fine” (o come fatto “assiologico”).
C’è inoltre da osservare che le idee, in tanto hanno perso – come dice Horkheimer – il proprio “contenuto umano”, in quanto questo è stato perso, innanzitutto, dall’idea stessa dell’uomo. L’ego, infatti, quale soggetto della sola coscienza “spaziale” dell’Io, si è a tal punto identificato con l’uomo “fisico” (corporeo), da non essere quasi più in grado, ormai, di riconoscersi e porsi quale “mezzo” di realizzazione dell’uomo “metafisico” (ossia, del suo stesso e vero essere).
Dice Goethe: “L’occhio deve la sua esistenza alla luce. Da organi animali sussidiari indifferenti, la luce chiama in vita un organo che le diventi affine; l’occhio si forma alla luce per la luce, affinché la luce interna muova incontro all’esterna” (32). Ebbene, si tratta allora di capire che come l’occhio si forma alla luce per la luce, così l’ego si forma all’Io per l’Io. Si tratta di capire, insomma, che l’ego è il mezzo (dell’Io) e l’Io è il fine (dell’ego), così come in natura, ad esempio, il girino è il mezzo (della rana) e la rana è il fine (del girino). Il fine (l’Io) non deve perciò “giustificare” – come si dice – il mezzo (l’ego), bensì deve “essere” già nel mezzo, così come la rana è già nel girino o la farfalla è già nel bruco.
L’idea, quale “mezzo” noetico (quale realtà sperimentata dal pensare), non è dunque che la prima manifestazione dell’idea quale “fine” etico (quale realtà sperimentata dal volere).
“La verità – recita infatti il Vangelo – vi farà liberi”: ciò vuol dire quindi (con buona pace dei “noncognitivisti”) che solo la verità del pensiero può farsi libera e buona volontà o che solo l’ego (il soggetto “pensato”) può farsi Io (il soggetto “pensante”).
Non vi è speranza, dunque, di poter saldare l’attuale e inquietante frattura tra il progresso scientifico e quello morale se non si comincia a liberare il non-essere del pensiero dall’attuale ipoteca cerebrale. Solo se libero, infatti, il pensiero può venire restituito all’essere: ovvero, allo spirito o all’Io .
In effetti, nello stesso momento in cui il concetto “universale” viene individualizzato dalla volontà, il soggetto “individuale” viene universalizzato dal pensiero o dall’intuizione concettuale (e reso per ciò stesso morale).

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Dice Horkheimer: il celebre storico Arnold Toynbee ha scritto: “Nel mondo dell’azione, sappiamo che trattare animali ed esseri umani come se fossero cose inanimate ha conseguenze disastrose. Perché supporre che trattare nello stesso modo le idee sia meno sbagliato?” (33).
Solo delle idee, però, possono trattare “in modo sbagliato” le idee. Basterebbe questa semplice considerazione per realizzare che il vero problema è costituito appunto dall’idea che ci facciamo delle idee: ovvero, dal livello della nostra autocoscienza (quale idea ho infatti, io, dell’Io?).

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Dice Horkheimer: “Quanto più le idee diventano automatiche e strumentali, tanto meno esse sono viste come pensieri con un significato proprio; sono considerate cose (…) Il significato è soppiantato dalla funzione, dall’effetto sul mondo delle cose e dei fatti (…) Una meccanizzazione del genere è certamente essenziale all’espansione dell’industria; ma se investe tutti i processi intellettuali, se la ragione stessa è ridotta alla funzione di uno strumento, essa assume una sorta di materialità e di cecità, diventa un feticcio, un’entità magica che si accetta, più che sperimentarla intellettualmente (…) Secondo l’intellettuale medio del tempo nostro esiste solo un’autorità, cioè la scienza, intesa come classificazione dei fatti e calcolo delle probabilità. L’affermazione che la giustizia e la libertà sono di per sé migliori dell’ingiustizia e dell’oppressione è scientificamente indimostrabile e inutile; e all’orecchio nostro suona ormai tanto priva di significato quanto potrebbe esserlo l’affermazione che il rosso è più bello dell’azzurro o le uova migliori del latte” (34).
Gli Dei o le entità spirituali delle origini sono effettivamente divenuti, agli occhi dell’uomo, prima delle idee “reali” (delle essenze o delle entelechie che si danno, in Platone, soprattutto ante res e, in Aristotele, soprattutto in rebus); poi delle idee “astratte” (dei concetti, dei nomi o delle parole che si danno, nell’uomo, post res); e infine delle “cose” (delle “sostanze” per il realismo cosiddetto “ingenuo” e delle “energie” per il realismo cosiddetto “metafisico”).
E’ comunque il passaggio dalla concezione delle idee quali “nomi” a quella delle idee quali “cose” a realizzare il trapasso dall’esperienza del pensiero come “nonessere” (formale) a quella del pensiero come “essere” materiale (come sostanza o funzione cerebrale).
Ad esempio, in un testo dal significativo titolo Le basi fisiche del pensiero, viene appunto ricordato che, a detta del fisiologo Tindall, “come la bile è una secrezione del fegato, così la mente è una secrezione del cervello” (35). Dello stesso avviso, è anche Flores d’Arcais che, in un suo recente lavoro, così scrive: “Di questo cervello che è il nostro ogni giorno impariamo particolari sulla mappa delle sensazioni e dei pensieri, sugli enzimi delle passioni e sulla chimica della volontà, e sappiamo che un giorno sempre più prossimo sapremo cosa materialmente voglia dire “coscienza”, appercezione trascendentale, consapevolezza di essere “io”” (36). A costoro potremmo aggiungere, volendo, Alfredo Civita che, illustrando la figura e l’opera del celebre psichiatra tedesco Emil Kraepelin (1856-1926) e discutendo appunto di oggettività biologica e di soggettività psicologica, così ricorda: “Il presupposto fondazionale della sua clinica (di Kraepelin –
nda) è che la malattia psichica non ha nulla a che vedere con la soggettività, con l’interiorità, con la persona stessa del malato. Il malato di mente ha una mente che, per qualche sconosciuto difetto organico, si è guastata e ha cominciato a funzionare in modo bizzarro” (37).
Questi pochi esempi (di quello che viene detto “cefalocentrismo”) dovrebbero essere sufficienti a realizzare che l’odierna e oggettiva ragione “fisica” non è che una inconscia e materialistica “reincarnazione” dell’antica “metafisica” .
Dunque, tornando a noi, la coscienza riflessa dell’idea (dell’idea come non-essere) si colloca in posizione “neutrale” tra la superiore e viva coscienza dell’idea quale realtà spirituale e l’inferiore e morta coscienza dell’idea quale realtà materiale. Soltanto tenendo conto della forza “magnetica” o di “gravità” che attira in basso e corrompe la pura coscienza riflessa, si può quindi spiegare il perché le idee siano diventate a un certo punto “automatiche” e “strumentali”, e il perché la ragione stessa – come dice Horkheimer – si sia “meccanizzata” o abbia assunto “una sorta di materialità e di cecità”, finendo così per trasformarsi in una specie di “feticcio” o di “entità magica”.
Il puro pensiero riflesso – scrive in proposito Scaligero – l’uomo può ancora “volerlo o pensarlo. Sulla linea di una determinazione volitiva, il pensiero che pensa il pensiero riflesso non è riflesso, perché non ha bisogno di essere riflesso per darsi obiettivamente: tuttavia attua, grazie alla dimensione del riflesso, la sua originaria impersonalità, la sua apsichicità. È il potere interno del pensiero astratto, che sarebbe dovuto essere realizzato dal fisico-matematico occidentale, se questi avesse avuto consapevolezza di ciò che si svolgeva nella scena della sua coscienza come controparte interiore della sua indagine: ben più importante dell’indagine stessa. Oggi non lo scoprirebbe più, perché gli sono venuti meno i mezzi intuitivi per capirlo: del resto, nel generale pensare umano qualcosa si è sclerotizzato. Quell’elemento disindividuale è trapassato nell’automatismo dialettico, nella medianica impersonalità dello scienziato-tecnologo” (39).
D’altra parte, se l’intellettuale “medio” non fosse vittima dell'”abuso della credulità popolare” perpetrato dallo scientismo e non avesse pertanto, nei confronti delle “conclusioni” cui si usa dire sia giunta l’odierna ricerca “scientifica”, un atteggiamento ingenuamente “fideistico”, presto si accorgerebbe che la ragione in tanto ha assunto “una sorta di materialità e di cecità” e si è trasformata in un “feticcio” o in “un’entità magica”, in quanto è ormai dominata dalle forze che vivono nella realtà inorganica (40).
Va comunque sottolineato che tale atteggiamento “fideistico” viene purtroppo incoraggiato dalla stessa comunità “scientifica”.
Se i cosiddetti “competenti” – osserva infatti Di Trocchio (insegnante di “Storia della scienza” all’Università di Lecce) – dimostrano spesso di non essere abbastanza competenti, la competenza stessa, in qualche caso, si dimostra “addirittura un handicap. Molte scoperte richiedono infatti più spregiudicatezza, creatività e apertura mentale che non competenza e intelligenza in senso stretto”. Appunto per questo, la comunità “scientifica” o l'”Accademia” è spesso – a suo dire – “ottusamente conformista: non solo non riesce a pensare in modo diverso, ma disapprova ed espelle chi tenta di farlo” (41).
“L’aspetto più impressionante – egli pertanto conclude – rimane però l’analogia tra l’atteggiamento acritico e poco democratico della comunità scientifica nei confronti dei dissidenti e quello adottato a suo tempo dai teologi contro gli eretici (…) Oggi l’intolleranza della scienza si è sostituita a quella della religione” (42).

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Dice Horkheimer: “È vero che, benché il progresso della ragione soggettiva abbia distrutto le basi filosofiche delle idee mitologiche religiose e razionalistiche, la società civile ha vissuto fino ad oggi dei residui di quelle idee; ma è vero anche che esse tendono, più decisamente che mai, a diventare solo dei residui, e quindi vanno perdendo gradualmente ogni forza di convinzione”(43) (…)”A queste vecchie forme di vita che resistono sotto la superficie della civiltà moderna si deve, in molti casi, il calore insito in ogni piacere, nell’amore di una cosa amata per se stessa e non in quanto mezzo per ottenerne un’altra (…) È sempre minore il numero delle cose che si fanno senza un secondo fine. Una gita fuori città, fino alle rive di un fiume o alla cima di un monte, sarebbe irrazionale e stupida, giudicata da un punto di vista utilitario: un passatempo sciocco e dispersivo. Per la ragione formalizzata, un’attività è ragionevole solo quando serve a un altro fine, per esempio a quello della salute o del riposo, e quindi a migliorare l’efficienza e la capacità di lavoro di colui che vi si dedica: In altre parole, l’attività è solo uno strumento, in quanto trae il proprio significato dal rapporto con altri fini” (44).
Avendo detto, in precedenza, ch’è impossibile dimostrare scientificamente che la giustizia e la libertà siano di per sé migliori dell’ingiustizia e dell’oppressione, Horkheimer ha già detto, in sostanza, che la scienza attuale non è in grado di costituirsi quale fondamento della morale. D’altro canto, allorché le idee vengono private della loro anima e del loro spirito e ridotte a mere “forme”, non ci si può invero meravigliare che non siano più in grado di veicolare la luce della bellezza e il calore del bene. Allorché, poi, tali residue verità “formali” vengono ulteriormente ridotte a verità “strumentali”, il vuoto non-essere delle prime viene colmato dell’essere di un soggetto “non-umano” e, di conseguenza, da una serie di contenuti che, dal punto di vista di tale entità, appaiono “veri”, “belli” e “buoni”, ma che, dal punto di vista dell’uomo, appaiono viceversa “falsi”, “brutti” e “cattivi” (45).

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Dice Horkheimer: “La società civile ha vissuto fino ad oggi dei residui” delle antiche idee” (ossia, di quelle della ragione “oggettiva”)” (46).
Ciò significa che, mentre traffichiamo, nel pensiero, con il “corpo” (eterico) delle nuove verità “fisiche”, si fa ancora udire, nel sentire e nel volere, la eco dell’anima (dell’astrale) e dello spirito (dell’Io) delle vecchie verità “metafisiche”. Questa eco, tuttavia, – come riconosce Horkheimer – va perdendo gradualmente di forza e si va perciò facendo sempre più flebile. Cosa accadrà allora – c’è da chiedersi – quando si sarà definitivamente spenta e il suo posto verrà preso dall’anima (o non-anima) e dallo spirito (o non-spirito) delle nuove “verità”? Cosa accadrà, ossia, quando ogni cosa non sarà più amata per sé stessa, ma solo in quanto mezzo per ottenerne un’altra? E non sono già forse le idee (e gli uomini che ne sono portatori) amate non per sé stesse, ma per un “secondo fine”?
In verità, solo l’uomo può avere se stesso come “fine”. Ma, per avere se stesso come “fine”, deve imparare a essere proprio “mezzo”: cosciente e volontario “mezzo”, cioè, di sé o del proprio “fine” (ossia, dell’Ecce homo o del Cristo). Ove si ponga invece, inconsciamente, quale “mezzo” di Lucifero o di Arimane, potrà realizzare una delle loro due opposte mete, ma non di certo la propria.

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Dice Horkheimer: “La probabilità o, meglio, la “calcolabilità” prende il posto della verità e il processo storico che tende a fare della verità una frase vuota nella società è per così dire consacrato dal pragmatismo che ne fa un frase vuota in filosofia” (47).
È vero. C’è però da precisare che la verità si trasforma in “una frase vuota” soltanto quando le viene strappata l’anima: quando le viene strappata, cioè, la “qualità”. Ed è appunto il vuoto lasciato dalla “qualità” che ci si sforza di colmare mediante la “quantità”: mediante, ossia, la “probabilità” o la “calcolabilità”.

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Dice Horkheimer: se è vero che tutto ciò è prodotto da un “ingenuo culto della ragione soggettiva”, è altrettanto vero che un non meno “ingenuo ripudio di quella ragione in nome di un concetto di cultura e di individualità storicamente anacronistico e illusorio porta al disprezzo per le masse, al cinismo, al fare affidamento su forze cieche; e tutte queste cose finiscono per favorire la tendenza ripudiata. Oggi la filosofia deve affontare il problema se il pensiero possa o meno rimanere padrone di se stesso” (48).
Il moderno e “ingenuo culto della ragione soggettiva” non è però che un culto “luciferico-arimanico” (individualistico e libertario) cui si contrappone un culto “arimanico-luciferico” (collettivistico e autoritario) di carattere materialistico o spiritualistico (la “scienza dello spirito” sta infatti allo “spiritualismo” così come la “scienza della natura” sta allo “scientismo”).
“Intellettualmente – dice ancora Horkheimer – l’uomo moderno è meno ipocrita dei suoi avi del diciannovesimo secolo, che giustificavano una pratica sociale materialistica attribuendole con pie frasi fini idealistici. Oggi nessuno si lascia ingannare da ipocrisie del genere; ma questo non avviene perché sia stata abolita la contraddizione tra le frasi altisonanti e la realtà dei fatti. La contraddizione è stata soltanto istituzionalizzata; l’ipocrisia è diventata così cinica che neppure si aspetta d’essere creduta” (49).
In effetti, i primi osservanti del culto “luciferico-arimanico” che caratterizza il “liberalismo” sono stati quei borghesi “del diciannovesimo secolo che – come dice Horkheimer – giustificavano una pratica sociale materialistica attribuendole con pie frasi fini idealistici”. L’individualismo – spiega infatti – “è l’essenza stessa della teoria e della pratica del liberalismo borghese, per il quale il progresso della società avviene attraverso l’interazione automatica degli interessi contrastanti su un mercato libero” (50).
Occorrerebbe distinguere, tuttavia, il “liberalismo” politico (d’ispirazione francese e illuministica) dal “liberismo” economico (d’ispirazione inglese e utilitaristica). E’ stato il primo, infatti, a utilizzare il non-essere del pensiero per difendere, sul piano “formale” (o giuridico), i diritti individuali, mentre è stato il secondo a cominciare a subordinarlo agli interessi o alla volontà dell’economia. Quando Horkheimer sostiene che “l’idea di individualità si liberò allora di ogni elemento metafisico per diventare solo una sintesi degli interessi materiali dell’individuo” (51), dovremmo perciò pensare (come voleva Croce) al “liberismo”, e non al “liberalismo”.
Tanto il primo che il secondo, comunque, rappresentano un indubbio culto individualistico: il culto, cioè, di un soggetto (“caldo”) mosso soprattutto dal “sentimento” nel “liberalismo” e dalla “volontà” (o dalla “brama”) nel “liberismo”.
Il culto “arimanico-luciferico” che gli si contrappone, tanto nella sua versione materialistica che in quella spiritualistica, è invece un culto collettivistico: il culto, cioè, di un soggetto (“freddo”) tendente, dogmaticamente e autoritariamente, a soggiogare il pensiero e a orientarlo verso i propri fini.
Il pensiero, dunque, si vede sempre subordinato (di fatto) al sentimento o alla volontà. In specie la volontà, ritenuta da entrambi i culti “estranea” al pensiero, viene attribuita, in un caso, al soggetto immanente o all’ego e, nell’altro, a quello trascendente “fisico” o “metafisico”. Al di là degli apparenti contrasti, entrambi i culti si basano dunque sul dogmatico, implicito o esplicito presupposto che il pensiero non possa essere diverso da quello ordinario e “riflesso”.
In ogni caso, trasformare la “forma-piatta” dell’ordinaria rappresentazione in una “piatta-forma” per il varo di un’esperienza superiore (o più profonda) della coscienza, non è di certo compito che possa essere assolto – come vorrebbe Horkheimer – dalla filosofia. Per poter fare una cosa del genere, infatti, bisognerebbe prima svelare la natura e l’origine del pensiero riflesso e poi educarlo e svilupparlo “praticamente”, tanto da condurlo a sperimentare il suo vero essere: ovvero, l’essere della realtà che si specchia, e non solo il non-essere della sua immagine speculare. La filosofia, con l’avvento dell’anima cosciente, ha del resto passato il “testimone” alla scienza ed è questa, perciò, che deve ormai rispondere alla domanda di Horkheimer (“se il pensiero possa o meno rimanere padrone di se stesso”). Ove si riconoscesse, inoltre, che la forza della scienza attuale è riposta nella “volontà di morte” che agisce inavvertita all’interno del pensiero quantitativo e analitico, ci si renderebbe conto che, per consentire alla scienza di superare i propri limiti, e di farsi così scienza dello spirito, dell’anima e della natura vivente (oltreché, ovviamente, di quella morta), occorrerebbe condurre il pensiero verso quella “volontà di vita” che, alimentando l'”immaginazione”, già consente all’uomo, seppure inavvertitamente, la consueta esperienza delle “rappresentazioni”, delle “immagini percettive” e di quelle “mnemoniche”. Unicamente l’Essere di tale “viva volontà” (quello dell’Arcangelo solare) è infatti in grado, agendo in perfetta armonia con il Logos, di liberare il non-essere del pensiero dalla presa della “morta volontà” che, attanagliandolo e irrigidendolo, lo rende “dogmatico” e “intollerante” (nel corpo, lo stesso rigor mortis struttura e caratterizza il sistema osseo e parte di quello neuro-sensoriale). Tale “viva volontà”, però, essendo chiamata a rianimare un pensiero già morto, è “volontà di resurrezione”: ovvero, quella stessa del Logos o del “Cristo in noi”.

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Dice Horkheimer: “Oggi vi è una diffusa tendenza a rimettere in giro vecchie teorie della ragione oggettiva al fine di dare un qualche fondamento filosofico alla gerarchia, in via di rapida disintegrazione, dei valori generalmente accettati. Insieme a sistemi di cura dello spirito pseudo-religiosi o semiscientifici, allo spiritualismo, all’astrologia, a versioni per il popolo di antiche filosofie come lo yoga, il buddhismo e il misticismo, e ad adattamenti popolari di filosofie classiche oggettivistiche, si raccomandano per l’uso moderno anche le ontologie medievali. Ma il passaggio dalla ragione oggettiva alla soggettiva non avvenne per caso, né il processo di sviluppo delle idee si può invertire arbitrariamente quando meglio ci piaccia. Se la ragione soggettiva, sotto forma di illuminismo, ha potuto distruggere le fondamenta filosofiche di convinzioni che erano state parte essenziale della cultura occidentale, ciò significa che quelle fondamenta erano troppo deboli. Il tentativo di ridar loro vita è dunque completamente artificioso e inteso solo allo scopo di riempire una lacuna” (52).
Siamo quasi del tutto d’accordo, qui, con Horkheimer.
Diciamo “quasi” poiché affermare – com’egli fa – che la ragione “soggettiva” è riuscita a distruggere le fondamenta di quella “oggettiva” in quanto queste “erano troppo deboli”, è come dire che, in una pianta, il frutto è riuscito a distruggere il fiore in quanto questo era troppo debole. In realtà, è il processo evolutivo dell’anima umana a far sì che quel che è “forte” in una fase divenga “debole” in quella successiva. Egli elenca infatti, sebbene un po’ alla rinfusa, tutta una serie di realtà culturali che risalgono, per lo più, al periodo di sviluppo dell’anima razionale e affettiva e che, durante tale periodo, hanno effettivamente rappresentato, seppure in vario modo, un “forte” veicolo dello spirito.
Quando questo ha smesso di servirsi della mediazione dell’anima razionale e affettiva per utilizzare quella dell’anima cosciente, tutto ciò che era stato un tempo “forte” è diventato però “debole”.
Nel caso specifico, il processo evolutivo dell’anima umana ha altresì dato vita a un’autentico paradosso. La nascita dell’anima cosciente, infatti, coincidendo con quella del pensiero riflesso o intellettuale, è – come abbiamo visto – la nascita stessa del non-essere del pensiero o del pensiero “debole”. Ciò vuol dire quindi che proprio quello “debole”, in qualità di moderno veicolo dello spirito, è (almeno potenzialmente) il pensiero “forte” (tale paradosso, del resto, non è diverso da quello che, nel Vangelo, ci presenta gli “ultimi” come i “primi” o i “poveri di spirito” come “beati”).
Scrive appunto Scaligero: “Nell’aridità dell’agnostico pensiero matematico, in effetto brilla una fredda luce, segno inavvertito di una invisibile luce di vita, più prossima alle nitide linee della geometria e della logica formale, che non alle tensioni della psiche yoghica o mistica” (53).
In effetti, mentre l’antico pensiero “forte” era il turgido veicolo dell’Essere trascendente, il moderno pensiero “debole” è invece l’asciutto veicolo dell’Io. Un tempo, dunque, il pensiero era “forte” e l’ego era “debole”; oggi, viceversa, il pensiero è “debole” e l’ego è “forte” (in virtù – come abbiamo visto – della volontà personale o della brama) (54).
Horkheimer ha dunque ragione nel sostenere che il trapasso dalla ragione “oggettiva” a quella “soggettiva” non è avvenuto “per caso” e che il processo di sviluppo delle idee non si può “invertire arbitrariamente quando meglio ci piaccia”.
Ma se tale trapasso non è avvenuto “per caso” – ci si dovrebbe pur chiedere – per quale ragione è avvenuto allora? E se il processo evolutivo delle idee non si può arbitrariamente invertire, cosa occorre fare per portarlo avanti? E non è probabile che solo riuscendo a rispondere alla prima di queste due domande, si possa rispondere alla seconda?
Ignoriamo, al riguardo, se Horkheimer abbia conosciuto o meno la scienza dello spirito di Rudolf Steiner. Vogliamo sperare, perciò, che quei “sistemi di cura dello spirito pseudoreligiosi o semiscientifici” ch’egli accomuna alle altre “vecchie vie della ragione oggettiva” non alludano all’antroposofia. Ove non fosse così, si dimostrerebbe infatti che Horkheimer si è lasciato del tutto sfuggire, non solo il carattere squisitamente moderno dell’insegnamento di Steiner, ma anche l’eccezionale opportunità da esso offerta di superare la moderna ragione “soggettiva” senza doversi fissare, per questo, alla ragione “fisica” o regredire a quella “metafisica”.
Qualora si trattasse, invece, del pregiudiziale rifiuto di un insegnamento “strano”, “insolito” e teso a ricercare “la verità oltre i limiti segnati” dal comune livello di coscienza, la cosa risulterebbe invero paradossale poiché è lo stesso Horkheimer a riconoscere che “nella mentalità dell’uomo moderno, manipolata con sistemi perfezionatissimi, è ancora presente un elemento caratteristico dell’uomo delle caverne: l’ostilità per lo straniero, che si esprime nell’odio non solo per coloro che hanno pelli di colore diverso dalla nostra o portano abito d’altra foggia ma anche per il pensiero quando è strano e insolito, anzi per il pensiero stesso quando persegue la verità oltre i limiti segnati dalle esigenze di un dato ordine sociale” (55).

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Dice Horkheimer: “Le più apprezzate qualità personali, come l’indipendenza, l’amore per la libertà, la capacità di simpatia, il senso della giustizia, sono virtù sociali oltre che individuali. L’individuo pienamente sviuppato è il frutto supremo di una società pienamente sviluppata; l’emancipazione dell’individuo non sta nella sua emancipazione dalla società bensì nel superamento di quella “atomizzazione” sociale che può raggiungere il culmine in periodi di collettivizzazione e di cultura di massa” (56).
E’ qui evidente il “pregiudizio” sociologico. E’ infatti l’individuo pienamente sviluppato a essere “frutto” – come dice – di una società pienamente sviluppata, o è invece la società pienamente sviluppata a essere “frutto” di un individuo pienamente sviluppato?
Sia chiaro che, con questo interrogativo, intendiamo, non rinverdire la vecchia storia dell’uovo e della gallina, bensì porre in evidenza il fatto che tanto la società quanto l’individuo “pienamente sviluppati” altro non possono essere che il “frutto” di una cultura e di una coscienza umana “pienamente sviluppate”. La cosiddetta “società capitalisticoborghese” non è infatti che l’espressione sociale di quella coscienza dell’Io (o dell’ego) che, sebbene battezzata alla nascita (quella stessa della “modernità”) dal cogito cartesiano, si è però sempre più legata in seguito al volo, spostando così, gradualmente, il proprio baricentro dalla sfera dell’essere a quella dell’avere. Se tale società non viene quindi avvertita, dal punto di vista umano, “pienamente sviluppata”, è perché la coscienza dell’Io di coloro che la compongono, patendo una stasi del proprio processo evolutivo, è rimasta fissata alla fase neonatale dell’ego. Una “fissazione”, tuttavia (come dimostra l’indagine psicodinamica) è sempre esposta al rischio di una regressione: di quella, ad esempio, che ha spinto l’ego a irrigidirsi e a identificarsi sempre più col cervello (è emblematico che perfino la morte venga oggi ritenuta un fatto “cerebrale”).
Nel corso della sua storia, l’autocoscienza borghese è dunque passata dall’iniziale e astratto cogito, ergo sum all’attuale e concreto habeo, ergo sum. Ciò vuol dire (ove si riconosca, hegelianamente, l’avere come il “passato dell’essere”), che il moderno non-essere del pensiero non è stato trasceso nella direzione evolutiva del futuro (post-moderno), bensì in quella involutiva del passato (pre-moderno): ovvero, che il non-essere della ragione “soggettiva” è stato trasceso “regredendo” dall’anima (ideale) al corpo (reale) e non “avanzando” dall’anima (ideale) allo spirito (ideale-reale) (57).
Nel corso del Novecento, – come si sa – il comunismo, il fascismo e il nazismo hanno tentato, nel modo più tragico, di superare sia il tipo umano borghese sia il modello di società che lo esprime e gli corrisponde. Il primo, tuttavia, non ha fatto altro che mobilitare spietatamente, contro la natura vivente che muove l’ordinaria volontà personale (dell’imprenditore o del capitalista), la natura morta che sclerotizza l’ordinario intelletto impersonale (dell’ideologo, del burocrate o del funzionario di partito); il secondo e soprattutto il terzo hanno invece mobilitato, contro lo stesso avversario, e non meno spietatamente, la natura vivente che alimenta la più profonda volontà impersonale (della “nazione” o della “razza”), finendo così col produrre un’inflazione della volontà stessa e un conseguente stato di “vitalistica” o “mistica” esaltazione: ovverosia, uno stato di ebbrezza in grado di ottundere o di annullare la coscienza personale.
Proprio meditando su questi errori ed orrori (di un secolo che è stato definito anche dell'”odio”) (58), potrebbe farsi dunque chiaro che è assolutamente vano lottare, sul piano politico, per realizzare una società a misura d’uomo, se prima non si lotta, su quello culturale, per realizzare una coscienza o un’autocoscienza a misura d’uomo.
Quale “microcosmo” l’uomo porta in sé tutti e tre i regni della natura: il minerale, il vegetale e l’animale. Orbene, ove ci si rendesse conto che, nell’essere umano, l’esorbitare di uno qualsiasi di questi tre regni si traduce immediatamente in uno stato patologico (in una “sclerosi” minerale, in una “proliferazione” vegetale o in una “infiammazione” animale), presto si capirebbe che è del tutto illusorio sperare in uno sviluppo umano della vita sociale finché non si sia in grado di distinguere, in quella individuale, l’elemento specificamente umano (l’Io) da quelli naturali. Non è assurdo, ad esempio, battersi per rendere più “umana” la convivenza sociale e continuare al tempo stesso a parlare dell’uomo come di un mero “animale intelligente”? E se scoprissimo, un giorno, ch’è proprio a causa di questo che gli attuali rapporti tra gli individui e i popoli si vanno facendo sempre più “intelligenti” (o cibernetici), per un verso, e sempre più “bestiali” (o violenti), per l’altro?
Il già citato Schiavone ad esempio, al fine di “elaborare – come dice – una forma dell’uguaglianza in cui possa riflettersi lo sviluppo del mondo” auspica che la stessa venga riunita “alle ragioni, sempre più trasparenti, di un’etica generale della specie, e di una teoria della soggettività e della cittadinanza” (59). Ebbene, se si prescinde dalla forma “darwiniana” in cui è formulato, non s’avverte forse, in questo auspicio, una profonda esigenza di rinnovamento dell’odierna coscienza “antropologica”?
In effetti, mentre nessuno (per dirla in maniera un po’ spiccia), ignorando la vera natura degli animali, si riproporrebbe di allestire uno zoo, molti, pur ignorando la vera natura degli esseri umani, si ripropongono di allestire una società più “umana” (nessuna meraviglia, perciò, se tali allestimenti finiscono poi col risultare “dis-umani”). Gli animali, d’altro canto, edificano, sì, degli ambienti singoli (nidi o tane) oppure collettivi (alveari o formicai), ma non edificano mai degli zoo. Per fare una cosa del genere, ci vuole l’uomo. Orbene, se c’è già bisogno dell’uomo allorché si tratta di organizzare uno zoo, è facile immaginare quanto maggior bisogno ve ne sia allorché si tratta di organizzare una società più umana. Davvero “uomo”, tuttavia, è soltanto colui che conosce e realizza la propria natura spirituale: soltanto colui, vale a dire, che, portandosi oltre i consueti limiti della natura e del “conscio collettivo” (Jung), attua in sé lo spirito libero.
Quello di creare una vita sociale più umana è in realtà un compito morale. Proprio per questo, si tratta quindi di stabilire, non se “qualità personali, come l’indipendenza, l’amore per la libertà, la capacità di simpatia, il senso della giustizia” siano – come dice Horkheimer – delle virtù “individuali” o “sociali”, bensì da dove vadano prese le mosse se si vuole sul serio educarle e svilupparle. Già nel 1919, Steiner ha scritto infatti: “La crisi storica attuale dell’umanità esige che in ogni singolo individuo umano nascano certi sentimenti, e che lo stimolo a questi sentimenti venga dato dall’educazione e dalla scuola allo stesso modo come si insegnano le quattro operazioni aritmetiche” (60).
Per concludere, proviamo allora a domandarci: è forse plausibile perseguire delle mete del genere e affidare poi il compito di realizzarle a una scuola soggetta agli interessi dello Stato, della Chiesa o del mercato? E una simile educazione può forse discendere da una cultura che assegna ai sentimenti, così come a tutte le altre facoltà interiori, un fondamento corporeo o materiale? O da una cultura che afferma invece, a gran voce, la spiritualità della vita interiore, ma si dimostra poi del tutto incapace di umanizzare concretamente la materialità di quella esteriore?


Note:

01) Nadezda Mandel’stam: L’epoca e i lupi – Serra e Riva, Milano 1990, p.413;
02) M.Horkheimer: Eclisse della ragione – Einaudi, torino, 1969;
03) ibid., p.113;
04) quando la stampa annuncia, perciò, che il fisico inglese Stephen Hawking prevede che “nel duemila” ci sarà “una nuova razza umana”, in quanto “l’ingegneria genetica darà vita a esseri di forme impensabili”, non sarebbe male chiedersi se tale “nuova razza” potrà essere ancora definita “umana” – il Giornale, 14 marzo 1999;
05) ibid., p.12;
06) ibid., p.11;
07) ibid., p.14;
08) ibid., p.16;
09) è significativo, al riguardo, che Aldo Schiavone – un professore comunista che, tra gli anni settanta e ottanta, ha avuto (com’egli stesso dice) responsabilità di direzione politica nel campo del “lavoro culturale”
riferendosi alla concezione cosiddetta “scientifica” di Marx, scriva: “Nonostante le apparenze, era solo metafisica, mascherata di materialismo; un’utopia industrialista presentata sotto forma di legge dello sviluppo” – I conti del comunismo – Einaudi, Torino 1999, pp.16 e 38;
10) Dizionario di filosofia – Rizzoli, Milano 1980, p.368;
11) D.Antiseri: prefazione a A.von Hayek: Individualismo: quello vero e quello falso – Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 1997, p.5;
12) cfr. V.Frankl: Dio nell’inconscio – Morcelliana, Brescia 1975;
13) A.Banfi: introduzione a G.Galilei: Antologia – La Nuova Italia, Firenze 1970, p. XXXII;
14) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.61;
15) spiega Steiner: “L’intellettualità emana da Arimane come un cosmico impulso gelido, senz’anima. E gli uomini che vengono presi da quell’impulso sviluppano una logica che sembra parlare di per sé stessa, senza pietà e senza amore” – ibid., p.102;
16) K.Marx: L’ideologia tedesca – Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, pp.47 e 48;
17) G.Trevisani: Piccola enciclopedia del socialismo e del comunismo – Cultura nuova, Milano 1948, p.137;
18) M.Horkheimer: op.cit., p.23;
19) P.Florenskij: Il significato dell’idealismo – Rusconi, Milano 1999, p.21;
20) M.Horkheimer: op.cit., p.23;
21) ibid., p.25;
22) ibid., p.131;
23) R.Steiner: op.cit., p.223;
24) P.Gentile: L’idea liberale – Garzanti, Milano 1955, p.62;
25) E.Severino: Il destino della tecnica – Rizzoli, Milano 1998, pp.56-57;
26) ibid., pp.69-70;
27) ibid., pp.59-60;
28) M.Horkheimer: op.cit., p.150;
29) cfr. A.Laurent: Storia dell’individualismo – Il Mulino, Bologna 1994;
30) M.Horkheimer: op.cit., pp.28-29;
31) ibid., p.87;
32) W.Goethe: La teoria dei colori in Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol.V, p.298;
33) M.Horkheimer: op.cit., p.26;
34) ibid., pp.26-27;
35) AA.VV. – Einaudi, Torino 1953, p.15;
36) P.Flores d’Arcais: L’individuo libertario – Einaudi, Torino 1999, p.6;
37) A.Civita: Psicopatologia – Carocci, Roma 1999, pp.100-101;
38) già alla fine dell’Ottocento, lo psichiatra H.Gruhle, resosi conto del carattere meramente “speculativo” della riduzione della patologia mentale a quella delle strutture e dei processi cerebrali, denunciò il pericolo di lasciarsi andare a una vera e propria “mitologia del cervello” – ibid., p.79;
39) M.Scaligero: Graal – Perseo, Roma 1969, p.19;
40) allorché l’uomo – dice Steiner -, sviluppando la sua libertà, “cade nelle reti di Arimane, egli viene assorbito nell’intellettualità come in un automatismo spirituale nel quale è una parte, e non più sé stesso. Tutto il suo pensare diventa esperienza della testa; ma la testa lo separa dall’esperienza individuale del suo cuore e del suo volere, e annulla la vita individuale” – op.cit., p.104;
41) F.Di Trocchio: Il genio incompreso – Mondadori, Milano 1998, pp.4-5;
42) ibid., p.6;
43) M.Horkheimer: op.cit., p.35;
44) ibid., pp.37-38;
45) Arimane – afferma Steiner – “vorrebbe vedere il mondo attuale interamente trasformato in un cosmo di essenza intellettuale” – op.cit., p.99;
46) vedi nota 43;
47) M.Horkheimer: op.cit., p.44;
48) ibid., p.54;
49) ibid., p.90;
50) ibid., p.121;
51) ibid., p.121;
52) ibid., p.58;
53) M.Scaligero: op.cit., p.17;
54) osserva Steiner: “Persistere nell’essere originario, voler conservare l’originaria e ingenua bontà divina attiva nell’uomo, volersi arrestare tremando davanti al pieno uso della libertà, in un mondo come l’attuale in cui tutto è predisposto per lo sviluppo della libertà umana, finisce per condurre l’uomo a Lucifero, il quale vorrebbe veder rinnegato il mondo attuale” – op.cit., p.99;
55) M.Horkheimer: op.cit., p.78;
56) ibid., p.119;
57) il già ricordato Croce non sarebbe stato sicuramente d’accordo con queste nostre affermazioni, poiché convinto che fosse scorretto parlare del tipo o della classe “borghese” in senso “morale”. Scrive infatti: “Il concetto storico di “borghese” e “borghesia” al quale si riferisce la mia critica e la mia negazione, è quello in cui per “borghese ” e per “borghesia” si suole intendere una personalità spirituale intera, e, correlativamente, un’epoca storica, in cui tale formazione spirituale domini o predomini. Qui non si tratta più né di soggetto giuridico né di soggetto economico, né di un’empirica distinzione sociale, ma di un soggetto morale” (Di un equivoco concetto storico: la “Borghesia” in La mia filosofia – Adelphi, Milano 1993, p.132). Per questo, a Werner Sombart – la cui opera Il borghese reca il sottotitolo: Contributo alla storia spirituale dell’uomo economico moderno – così obietta: “L’homo oeconomicus non può avere una storia spirituale, ma soltanto economica: e perciò quella storia spirituale è bensì dell'”uomo moderno”, ma non dell'”uomo economico”, che, come tale, non può essere a nessun patto “il portatore rappresentativo (der reprasentative trager) dello spirito del tempo nostro, com’è detto nella prefazione” (ibid., p.142). Già, ma se la vita spirituale si articola, nell’anima umana, nelle facoltà del pensare, del sentire e del volere, e se l'”uomo economico” non è altri che l’uomo in cui prevale il volere, non è allora, la “storia economica”, uno dei momenti essenziali della “storia spirituale”? E l'”uomo economico” non è diventato il vero rappresentante del “tempo nostro”, perché l'”uomo moderno” – come abbiamo appena visto – ha di fatto trasferito il proprio baricentro dalla sfera ideale dell’essere a quella reale dell’avere. Una significativa, ma involontaria, conferma di ciò l’ha fornita, di recente Antonio Martino (noto economista di scuola liberista). A un giornalista che gli aveva chiesto di commentare gli “attacchi di Wojtila contro i sistemi che mettono al primo posto il mercato e non l’uomo”, così ha infatti risposto: ” Per come è detta, questa mi sembra una sciocchezza: l’economia è l’uomo (corsivo nostro) e il Papa dovrebbe riflettere su quale sia la situazione dei poveri nei Paesi dove non c’è il liberismo” (il Giornale, 28 gennaio 1999).
58) cfr. G.Moriani: Il secolo dell’odio – Marsilio, Venezia 1999;
59) A.Schiavone: op.cit., p.76.

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Di Francesco Giorgi
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