Mucca pazza e OGM: uno sguardo ai quotidiani

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Nei giorni in cui è esploso il fenomeno della cosiddetta “mucca pazza”, qualche quotidiano italiano ha ricordato, a mero titolo di “curiosità”, che Rudolf Steiner aveva previsto, più di settant’anni fa, quanto sta oggi accadendo.
Nel corso di una conferenza, tenuta a Dornach il 13 gennaio del 1923, disse infatti: “S’immagini che un bovino decida improvvisamente che, essendo troppo faticoso il pascolare e il brucare piante, sia più comodo lasciarlo fare a un altro animale e poi mangiarselo. Il bovino comincerebbe così a mangiar carne, benché sia in grado di produrla da sé. Dispone infatti delle forze necessarie a farlo. Ma cosa accadrebbe se un bovino mangiasse direttamente carne anziché piante? Lascerebbe inutilizzate tutte quelle forze che, in lui, hanno il potere di creare la carne. Immaginate l’enorme quantità di energia che va persa quando, in un’industria finalizzata alla produzione di un qualcosa, le macchine, pur essendo accese, non producono nulla. C’è un tremendo dispendio di energia. Tuttavia, l’energia che rimane inutilizzata nel corpo del bovino non va semplicemente dispersa. Il bovino infatti se ne satura e, in lui, questa energia repressa fa qualcosa di diverso dal creare carne partendo dalla sostanza vegetale. Comincia ad agire diversamente. In effetti, l’energia si conserva; resta presente nell’animale e produce sostanze di scarto. Invece della carne produce sostanze nocive. Perciò se un bovino divenisse d’improvviso carnivoro, si saturerebbe di sostanze nocive quali acidi urici e urati. Orbene, gli urati sortiscono degli effetti che presentano una particolare affinità col sistema nervoso e il cervello. Ove un bovino consumasse direttamente carne, verrebbe dunque secreta una grande quantità di urati che, penetrandogli nel cervello, lo renderebbero pazzo. Se, per esperimento, si alimentasse una mandria di bovini con dei piccioni, si avrebbe una mandria di bovini del tutto pazzi. Questo è quanto accadrebbe. Malgrado l’innocuità dei piccioni, i bovini diverrebbero pazzi” (R.Steiner: Health and Illness – The Anthroposophic Press, Spring Valley, New York 1983, vol.2°, pp.84-85).
Si è dunque ricordata la previsione di Steiner, ma si è mancato di notare quel ch’è più importante: ovvero, il punto di vista fisiodinamico che la giustifica e sottende. Come per lo più accade, ci si è preoccupati infatti del cosa e non del come. Ma tale previsione scaturisce da considerazioni che riguardano attività, processi o forze e, per ciò stesso, da una modalità di pensiero dinamica e non meccanica. E’ importante sottolinearlo poiché, quando si afferma – come si fa oggi – che l’encefalite spongiforme bovina è dovuta alla presenza, nel corpo dell’animale, di “prioni”, altro non si fa che ricondurre tale fenomeno nell’ambito di quella sfera della realtà (inorganica) in cui vige il lineare rapporto di causa-effetto. Si sono messe sotto accusa, ad esempio, le farine animali, ma lo si è fatto perché le si è ritenute dannose, non in quanto animali, bensì in quanto veicolo delle proteine patogene chiamate “prioni”. “Si accusano i cosiddetti prioni, – scrive appunto Manfred Klett – proteine che appaiono nel tessuto cerebrale e distruggono le cellule cambiandone la forma, non la struttura molecolare. In realtà materia non è uguale a materia! La malattia dei ruminanti ha la sua origine nell’alimentazione dei bovini o degli ovini con farine animali, un’alimentazione contro natura per queste specie erbivore. Chiaramente la proteina animale non equivale a quella vegetale. Il “morbo della mucca pazza” compare nel momento in cui il modo di alimentare l’animale ha indebolito a tal punto la sua costituzione corporea che le forze vive del suo organismo non sono più in grado di domare il processo di “decostruzione della materia” nel sistema neuro-sensoriale” (L’uomo è ciò che mangia? In S.M.Francardo: I semi del futuro – Edilibri, Milano 2001, p.151).
Fatto si è che la previsione di Steiner non è una “profezia” (come quelle, ad esempio, di Nostradamus), ma il frutto di una ricerca scientifica guidata da un pensiero capace di penetrare nella realtà dei processi viventi. Lo si tenga ben presente perché coloro che giustamente rivendicano la libertà della ricerca scientifica non si rendono affatto conto di reclamare tale libertà per un solo tipo di ricerca: quella monopolizzata da un pensiero che, educatosi a indagare quantificando il mondo inorganico e forte di questa sua formazione, presume di poter estendere (scientisticamente) a tutta la realtà il suo modo di procedere. E’ proprio questa presunzione, tuttavia, a far sì che le “previsioni” scientifiche riguardanti la vita (per non dire di quelle riguardanti l’anima e lo spirito) risultino assai meno attendibili, in genere, di quelle che riguardano la realtà inorganica (“Quello che è evidente – scrive in proposito Francardo – è che quando la scienza naturale improntata solo al profitto affronta il vivente, la sfera biologica non è in grado di prevedere ma può solo riconoscere i danni ormai in atto” – Op.cit., p.41).
Qualcun altro, oltre Steiner, aveva forse previsto il fenomeno della cosiddetta “mucca pazza”? E cosa hanno detto allora gli scienziati che non muovevano dal suo stesso punto di vista? E cosa dicono oggi?
“A finire sul banco degli imputati, – scrive al riguardo Il Giornale (15 Gennaio 2001, a firma Ma Lu) – adesso sono gli scienziati (…) A lanciare l’allarme è la leader dei Verdi Grazia Francescato che chiede drastica di “cacciare tutti gli pseudoscienziati della malascienza che ci hanno rassicurato, peccando di inettitudine se non addirittura di malafede””. Ma quella che la Francescato chiama qui “malascienza” non è che il parto di un pensiero che, sapendo pensare le “macchine” e trafficare con le stesse, crede di poter fare altrettanto con gli organismi viventi. Si rifletta: qual è l’ideale di un trapiantista? E’ presto detto: quello di operare dei robot e non degli esseri umani che, a causa del “rigetto”, rischiano ogni volta di rovinargli il lavoro. Si è arrivati dunque al punto di considerare il sistema immunitario (o come si diceva una volta la vis medicatrix naturae) non di aiuto, bensì di ostacolo alla terapia. Quel ch’è ancora più inquietante, però, è che il tipo di pensiero che anima queste ricerche, nell’incapacità di venire a capo della realtà biologica, ha preso a manipolare quest’ultima nella speranza, ibridandola, di renderla sempre più simile a quella tecnologica: alla sola, cioè, ch’è in grado di comprendere. “Ciò che fu teologico – afferma addirittura Pierre Lévy – diventa tecnologico” (L’intelligenza collettiva – Feltrinelli, Milano 1999, p.102) .
Queste considerazioni introducono quindi un’altra questione di scottante attualità: quella dell’ingegneria genetica, delle biotecnologie e dei cosiddetti “OGM” (Organismi Geneticamente Modificati). Si tratta di una questione tornata in questi giorni in primo piano, grazie alla cosiddetta “mappatura” (da parte del britannico Francis Collins e dello statunitense Craig Venter) del genoma umano. “Tumori, malattie cardiache e mentali – titola ad esempio Il Giornale (12 febbraio 2001) – potranno essere curate “su misura””. “Tra dieci anni potremo prevenire le malattie”, titola invece il Corriere della Sera (13 febbraio 2001).
Ecco dunque delle nuove previsioni. Sono attendibili? C’è da dubitarne. Già quelle riguardanti il numero e il ruolo dei geni si sono rivelate errate. “La mappa del genoma umano svela i primi segreti – scrive Mariuccia Chiantarietto (Il Giornale, 12 febbraio 2001) – ed è subito sorpresa: il patrimonio genetico è più “sottile” di quanto non si pensasse, contiene cioè trentamila geni invece di centomila”. Ed Ennio Caretto così chiede a Francis Collins (lo scienziato che ha guidato il progetto pubblico di mappatura del genoma umano in competizione con quello privato di Craig Venter): “Il fatto che abbiamo 30-40 mila geni, invece dei previsti 140 mila, 150 mila, facilita o complica le cose?”. Lo stesso Craig Venter dichiara: “Le nostre convinzioni sono mutate. Non è vero che un gene produca una proteina e una malattia. La chiave della salute è più complessa. è l’interazione dei geni, delle proteine e dell’ambiente (…) Il determinismo genetico è superato” (Corriere della Sera, 13 febbraio 2001).
Ma se ciò è vero, che ne è allora di tutte quelle malattie che sono state definite finora “genetiche”? In proposito, Edoardo Boncinelli così scrive (sullo stesso quotidiano): “Sembra che i geni umani siano un po’ meno numerosi del previsto: non 50-100 mila ma 30-40 mila. Non è il caso di stupirsi. Le cose da fare per mettere su un essere umano sono comunque tante. Vuol dire che quei 30 mila geni dovranno lavorare per 100 mila, dovranno cioè, fuor di metafora, produrre sempre quel numero di proteine diverse che sono necessarie per fare un essere umano. Ma non è per il numero dei geni che ci distinguiamo dalle altre specie: ne abbiamo poco più del doppio di quelli di un moscerino e pochi di più di quelli di una semplice piantina. E nemmeno per la loro natura: i geni più importanti sono gli stessi in tutti gli organismi superiori e tra quelli meno importanti solo un misero 2% ci distingue da uno scimpanzé e un 7% dagli invertebrati! Ciò che ci distingue sono i circuiti regolativi, quelli che fanno accendere e spegnere i vari geni al momento giusto. La nostra natura biologica è riposta lì, nei meandri della regolazione dell’azione dei vari geni. Sarà questa quindi l’impresa più affascinante: toccare con mano come con gli stessi mattoni si può fare un essere umano piuttosto che un muflone, o uno squalo”.
Cosa si è scoperto, insomma? Si è scoperto che una qualsiasi “circolare ministeriale” è scritta con le stesse vocali e consonanti con cui è scritta la Divina commedia. Il che vuol dire che un soggetto burocratico e uno poetico possono realizzare, con i medesimi elementi, due cose profondamente diverse. Non si tratta quindi di “circuiti regolativi” (che non si sa da chi vengano manovrati per accendere o spegnere i geni al momento giusto), bensì di quei soggetti collettivi che chiamiamo “specie animali” e di quei soggetti individuali che chiamiamo invece “esseri umani”. In definitiva (e per dirla al modo di Boncinelli), “con gli stessi mattoni” un essere umano si fa essere umano, un muflone si fa muflone e uno squalo si fa squalo. Ma qual è allora quel soggetto che si fa essere umano (corpo umano) e quale quello che si fa invece essere animale (corpo animale)? Questo è il problema. Ma un problema che, con buona pace dei circa 1500 scienziati che sono scesi in piazza per protestare contro le presunte limitazioni imposte alla ricerca dal ministro Pecoraro Scanio, va di gran lunga al di là dei limiti (questi sì reali) dell’attuale pensiero scientifico. In una breve nota dedicata all’argomento (Il Giornale, 13 febbraio 2001), Vittorio Sgarbi paragona i 1500 manifestanti ad altrettanti Galilei e i Verdi (con in testa la Francescato e Pecoraro Scanio) agli inquisitori. “Sembra incredibile, – scrive appunto – ma non è bastato Galileo. A distanza di più di 4 secoli l’inquisizione ha sostituito il volto della Chiesa con quello dei Verdi e pretende dagli scienziati l’abiura”. Altrettanto fa Stefano Zecchi che scrive: “Con un po’ di fantasia si potrebbe ritornare indietro di trecento anni e immaginarsi Isaac Newton che umilmente chiede a un Pecoraro Scanio di quel tempo di accogliere la sua legge di gravitazione universale e che questi, indeciso sul da farsi, stabilisse che solo un’assemblea sindacale unitaria potesse approvare o respingere a maggioranza semplice la legge di Newton” (Il Giornale, 18 febbraio 2001). Da parte di Sgarbi e Zecchi, sarebbe stato tuttavia più prudente lasciar stare Galilei e Newton. A Giovanni Maria Pace che gli chiede: “Professor Veronesi, trova giusto l’atteggiamento dei verdi?”, l’intervistato così risponde: “La bioingegneria è una tecnica (…) Essendo le modificazioni genetiche una tecnica, scagliarsi contro gli ogm è come prendersela con un microscopio.” (La Repubblica, 12 Febbraio 2001). Definendo la bioingegneria una “tecnica” e non una “scienza”, è dunque lo stesso Veronesi a smentire tanto Sgarbi che Zecchi. La sua dichiarazione è altresì interessante, poiché tradisce con chiarezza il fatto che lo spirito (utilitaristico) della tecnica ha ormai preso un netto sopravvento su quello (conoscitivo) della scienza. In effetti, la cosiddetta “comunità degli scienziati” (o – come preferisce chiamarla modestamente la Montalcini – dei “sapienti”), si è ormai quasi del tutto ridotta a una “comunità di tecnici” per lo più preoccupata di osservare i vari “protocolli” e dedita quasi esclusivamente al “calcolo” (del numero dei geni, certo, ma anche dell’entità dei fondi da richiedere o – come nel caso di Craig Venter – del valore delle azioni della Celera – Corriere della Sera, 13 Febbraio 2001): a un insieme d’individui, insomma, sempre più aggiogati ai computer e sempre meno capaci d’immaginazione e di creatività (e sempre meno in grado, perciò, di formulare una sola ipotesi che vada al di là dell’usuale e consunto orizzonte materialistico e meccanicistico). Siamo franchi: la scienza ha cessato di essere “scienza” nel momento stesso in cui ha accettato di farsi tutelare, da una parte, dallo Stato e di farsi impalmare, dall’altra, dall’economia (“Gli scienziati di tutto il mondo – osservano ad esempio Adriana Bazzi e Paolo Vezzoni, nel loro Biotecnologie della vita quotidiana – sono gelosi delle loro ricerche e tendono a non divulgarle per via della possibilità di trasformarle in brevetti redditizi” – Laterza, Roma-Bari 2000, p.50). Per quanto riguarda il primo di questi due aspetti, ad esempio, bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che, come un laureato in filosofia non è detto che sia un “filosofo”, così un laureato in fisica o in biologia non è detto che sia uno “scienziato”. Chi ne dubitasse, farebbe allora bene a riflettere su ciò che scrive Schopenhauer ne La filosofia delle Università (Adelphi, Milano 1992), considerando quanto sostiene nei riguardi della filosofia valevole anche per la scienza. Eccone alcuni esempi: “Sono andato gradualmente convincendomi che l’utilità della filosofia cattedratica è superata dal danno che la filosofia come professione reca alla filosofia come libera indagine della verità o, in altre parole, che la filosofia al servizio del governo reca alla filosofia al servizio della natura e dell’umanità” (pp.17-18); “Si tratta dell’antica lotta tra coloro che vivono per qualcosa e coloro che vivono di qualcosa, o tra coloro che sono qualcosa e coloro che lo rappresentano. Questo qualcosa è per gli uni lo scopo, di fronte a cui la vita è il semplice mezzo, per gli altri invece è il mezzo, anzi la pesante condizione della vita, del benessere, del godimento, della felicità familiare, in cui soltanto consiste la loro vera serietà” (p.35); “Sentir cantare il rauco, o veder danzare lo zoppo è cosa penosa, ma udir filosofare il cervello limitato è insopportabile. Per nascondere la mancanza di veri pensieri, molti mettono assieme un imponente apparato di parole lunghe e composte, di intricati fioretti retorici, di sterminati periodi, di espressioni nuove e inaudite, il che costituisce nel suo complesso un gergo per quanto possibile arduo e dall’apparenza assai erudita (Schopenhauer pensa qui agli hegeliani, ma noi possiamo benissimo pensare ai cibernetici o al “mentalese” di Jerry Fodor – nda). Con tutto ciò tuttavia essi non dicono nulla: da loro non si riceve alcun pensiero, non ci si sente accresciuta la propria visione del mondo, e si deve sospirare: “Odo il suono del mulino, ma non vedo la farina”. O per dir meglio, si vede anche troppo chiaramente quali povere, comuni, piatte e rozze idee siano nascoste dietro tale gonfia ampollosità” (pp.48-49).
Dice ancora Veronesi: “Noi umani siamo tutti transgenici. Se da scimmia siamo diventati uomo è per via di una serie di mutazioni spontanee. Come dice Jacques Monod, siamo un prodotto di natura emerso dall’intreccio di due variabili, il caso e la necessità. Il caso sono mutazioni genetiche non programmate, spontanee, sulle quali agisce la necessità, nel senso che un organismo mutato sopravvive solo se la mutazione lo rende adatto all’ambiente. Le mutazioni genetiche, molla dell’Evoluzione, sono prive di una normativa etica intrinseca, non hanno finalità. Con buona pace di chi vuole vedere nel mondo un disegno divino” (La Repubblica, 12 febbraio 2001). Ebbene, chi ha detto che, per affermare “nel mondo un disegno divino”, sia necessario affermare una “normativa etica intrinseca” alle mutazioni genetiche? O che, per negare la realtà della seconda, si debba necessariamente negare quella del primo? Chi fa questo mostra soltanto d’ignorare, o di non aver compreso, quanto ha scritto in proposito Steiner nell’undicesimo capitolo de La filosofia della libertà e, in particolare, nella relativa aggiunta alla seconda edizione del 1918. E che dire, poi, del tentativo dei laici di assegnare al caso lo stesso ruolo assegnato dai religiosi alla provvidenza o al miracolo? Possibile non ci si renda conto che un siffatto Deus ex machina appartiene più alla “metafisica” che alla “scienza”? Dice sempre Veronesi: “Siamo un paese che ha avuto da sempre un antiscientismo di fondo difficile da scrostare. Oggi, in particolare, siamo contagiati da un riflusso di superstizione pericoloso. Basta guardare all’importanza che hanno oggi gli oroscopi e una certa pseudofilosofia new age” (Corriere della Sera, 12 febbraio 2001). Stia tranquillo Veronesi, siamo “antiscientisti” proprio in quanto amiamo la scienza e non nutriamo alcuna simpatia per gli “oroscopi” e per la “pseudofilosofia new age“. Il che non c’impedisce però di rilevare che tali deprecabili fenomeni non rappresentano che l’altra faccia della “superstizione” scientista e della “pseudofilosofia” materialistica: delle due colonne, ossia, sulle quali poggia – per dirla ancora con Schopenhauer – il “tempio dell’errore” (p.60).
Ma torniamo al problema delle “previsioni”. “Sono in molti – scrive Angelo Maria Petroni – a ritenere che la genetica e più in generale le scienze biologiche rappresentino la vera frontiera della scienza contemporanea. Esse sembrano avere il ruolo che ebbe la fisica agli albori del Novecento” (Il Giornale, 12 febbraio 2001). Ma a scalzare la fisica dal ruolo che ebbe agli albori del Novecento non hanno forse contribuito Hiroshima, Nagasaki (1945) e, più di recente (1986), Chernobyl? Quali altre tragedie dovranno dunque risvegliare l’umanità dalle illusioni in cui la stanno attualmente cullando la genetica e le scienze biologiche?
Se qualcuno pensa che stiamo esagerando, o che ci piace recitare la parte della “Cassandra”, ascolti allora quel che dice, in proposito, nientemeno che Werner Heisenberg: “Nella scienza come nell’arte, il mondo da Goethe in poi ha preso una strada contro la quale egli ci aveva messo in guardia perché la considerava pericolosa. L’arte si è allontanata dalla realtà immediata e si è ritirata all’interno dell’animo umano, e la scienza si è incamminata per la via dell’astrazione, ha prodotto l’immensa espansione della tecnologia moderna, ed è arrivata fino alle strutture primarie della biologia, fino alle forme fondamentali che nella scienza moderna corrispondono ai solidi platonici. Allo stesso tempo i pericoli sono diventati incombenti, come Goethe aveva previsto. Pensiamo per esempio all’alienazione, alla spersonalizzazione del lavoro, all’assurdità degli armamenti moderni, alla fuga verso l’irrazionalità, che ha preso forma di movimento politico. Il diavolo è potente” (W.Heisenberg: Oltre le frontiere della scienza” – Editori Riuniti, Roma 1984, pp.164-165).
Goethe aveva dunque previsto – a detta di Heisenberg – i pericoli cui sarebbe andata incontro l’umanità a causa di una scienza che, insabbiandosi sempre più nell’astrazione (quantificatrice), si è resa sempre meno capace di prevedere le conseguenze materiali, animiche e spirituali del proprio agire. E’ doveroso però ricordare che la prospettiva scientifica di Goethe è proprio quella che, in seguito, è stata ripresa e sviluppata da Steiner (si consultino, al riguardo: R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988; Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974; La concezione goethiana del mondo – Tilopa, Roma 1991).
Ma torniamo a noi. “In questi giorni – ricorda Gianni Mattioli (ministro per le politiche comunitarie) – il polverone è utile a sviare l’attenzione del mondo scientifico dalla vicenda della soia transgenica della Monsanto la cui struttura chimica, riscontrabile nei prodotti commercializzati, risulta diversa da quella per la quale ottenne l’autorizzazione al commercio nel ’96. Sciatteria dei tecnici della Monsanto e dell’ente di controllo inglese che a suo tempo rilasciò l’autorizzazione o imprevista instabilità della struttura chimica? Ho chiesto tramite il ministro della Sanità di svolgere indagini. La struttura geneticamente modificata può essere instabile, è noto” (Corriere della Sera, 12 febbraio 2001).
Ma se “la struttura geneticamente modificata può essere instabile”, quali garanzie può dare? E perché ostentare allora tanta fiducia e alimentare tante speranze, in specie sul piano della cura delle malattie? “L’introduzione di nuovi geni nei genomi delle piante coltivate – osserva al riguardo Jeremy Rifkin, in un paragrafo del suo il Secolo Biotech significativamente intitolato La roulette ecologica – potrebbe creare nuove caratteristiche imprevedibili e incontrollabili? Il punto della questione è, semplicemente, che non lo sappiamo. Questo è l’aspetto che rende così problematico questo intervento senza precedenti nel mondo dell’agricoltura convenzionale. E’ un tentativo ad alto rischio, con poche regole base e pochi punti di riferimento per guidarci in questo nuovo viaggio. Stiamo volando al buio nella nuova era della biotecnologia agricola, con grandi speranze, poche costrizioni e nessuna idea dei potenziali risultati” (Baldini & Castoldi, Milano 1998, p.141). “Nel caso delle biotecnologie – sostiene invece Alessandro Cecchi Paone – che saranno comunque, con o senza l’Italia, protagoniste della storia dell’uomo in questo millennio appena cominciato, i rischi sono generici, incerti e ancora non dimostrati, i benefici certi” (Il Giornale, 14 febbraio 2001). Ma è sicuro Cecchi Paone che i benefici promessi dalle biotecnologie non li si possa ottenere altrimenti: grazie, ad esempio, a una diversa e più profonda conoscenza della vita della natura (così com’è ampiamente provato dall’agricoltura “biodinamica”)? E quante e quali sciagure occorrono per ritenere “dimostrato” che i rischi sono tutt’altro che “generici” e “incerti”? “La libertà e l’utilità della ricerca scientifica – scrive sempre Cecchi Paone – non sono compatibili con i veti ideologici, le paure irrazionali, i condizionamenti religiosi”. Verissimo! Ma che dire allora dei veti, delle paure e dei condizionamenti che derivano, più o meno inconsciamente, dal conformismo scientista e materialista? L’affannosa e indecorosa competizione tra il campione della ricerca “privata” Venter e quello della ricerca “pubblica” Collins, così come il timore dei nostri 1500 manifestanti di rimanere distanziati in questa corsa, non costituiscono forse un sintomo, oltreché di voglia di guadagno e di successo personale, di uno sconcertante conformismo? Ove, per ipotesi, ci si stesse inconsciamente precipitando verso un baratro, il rimanere indietro non rappresenterebbe piuttosto un vantaggio? E perché, poi, ci si dovrebbe limitare a seguire pedissequamente gli altri (i cosiddetti “più avanzati”), e non magari proporre, autonomamente, un diverso e più umano modello di sviluppo? Scrive Antonio Polito (La Repubblica, 12 Febbraio 2001): “La paura del progresso dilaga. E’ l’ora di difendere il progresso”. Già, ma il “progresso” di cui si parla è un progresso per l’uomo o contro l’uomo? E se fosse dimostrato che è contro l’uomo, cosa ci sarebbe da difendere: il progresso o l’uomo?
Il bello è – stando almeno a quanto riferisce lo stesso Polito – che tale progresso, quando non rischia di essere dannoso, rischia di essere inutile. Scrive infatti: “In Inghilterra, per esempio, qualcosa l’hanno scoperta in dieci anni di sperimentazione: che i raccolti biotech, invece di infettare quelli “naturali”, ne sono fagocitati e muoiono, se lasciati a se stessi. La Natura è ancora più forte della Natura modificata dall’uomo”
“La natura biologica dell’uomo – ammette dal canto suo Boncinelli – non è tutto l’uomo, ma – si affretta ad aggiungere – è il presupposto essenziale e necessario di tutto il resto” (Corriere della Sera, 13 febbraio 2001). Orbene, una conclusione del genere non è una conclusione “scientifica”, bensì “ideologica”. Scaturisce infatti dallo stesso pregiudizio che (nell’articolo citato) porta Mariuccia Chiantaretto a dire: “E’ un duro colpo per l’orgoglio della razza umana. L’uomo ha soltanto diecimila geni più del verme, e ventimila più del moscerino. “Nell’uomo – ha annunciato Craig Venter della Celera – ci sono appena trecento geni che non esistono anche nei topi”. Dal punto di vista genetico le differenze tra uomo e scimpanzé, che cinque milioni di anni fa ebbero un antenato comune, sono minime””.
Il perché una scoperta del genere debba rappresentare “un duro colpo per l’orgoglio della razza umana” è tuttavia un mistero. Conosce forse la Chiantaretto un qualche membro di tale razza che si sia vantato o si vanti di possedere un numero di geni di gran lunga superiore a quello degli animali? E’ improbabile. Ci sarebbe da considerare, semmai, che la razza umana potrebbe andare invero orgogliosa di essersi tanto differenziata dagli scimpanzé pur disponendo, sul piano biologico, di un numero di geni di poco superiore ai loro.
Di tutt’altro tenore è quanto scrive invece Marcello Veneziani: “Non so se si potrà chiamare ancora uomo quell’entità mutevole e più duratura che ci promettono gli scienziati. Ci allungheranno la vita, accorciandoci l’identità, ci daranno più salute a prezzo di meno umanità”; e aggiunge:”Nessuno ha il diritto di fermare la scienza ma nemmeno di autorizzarla a procedere mettendo in gioco l’uomo (…) Difficile districare il bene dal male dall’albero della scienza. Ma non solo: nessuno riesce a fermare la scienza, o a farla tornare indietro: se la fermi qui e adesso, altrove e poi riprenderà il cammino interrotto” (Il Giornale, 18 febbraio 2001).
Sfugge però a Veneziani, così come a tutti gli altri, che la scienza deve essere, non “fermata”, né tantomeno fatta “tornare indietro”, bensì rimessa nelle mani dell’uomo: di un uomo – s’intende – che sappia padroneggiarla e porla al proprio servizio in quanto, avendo imparato a padroneggiare sé stesso, sa essere autocosciente e libero. Non si tratta quindi di arrestare la ricerca né di condizionarla. Si tratta piuttosto di liberarla, in quanto attività spirituale, da tutti quei condizionamenti e da tutte quelle deformazioni che le derivano, sul piano sociale, dalla subordinazione agli interessi politici ed economici e, su quello individuale, dal monoideismo scientista e materialista. Sembra incredibile, ma non ci si è ancora resi conto che, come sono possibili altre medicine o terapie, così è possibile un’altra scienza. Non – si badi – una scienza “alternativa”, bensì una scienza di più ampio, profondo e umano respiro, capace per ciò stesso d’integrare quanto di valido (e non è poco) viene già offerto da quella attuale.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano – ha dichiarato amaramente il ministro dell’agricoltura della Tanzania – non dovrebbe diventare una preghiera alla Shell Oil” (in S.M.Francardo: Op cit., p.36). Vi è comunque una speranza. “Promettevano di rivoluzionare l’agricoltura mondiale, – scrive infatti Umberto Venturini (CorrierEconomia, 12 febbraio 2001) – di risolvere il problema della fame nelle regioni più povere del pianeta, di creare un nuovo, ricco filone di ricerca e di industria. Quindici anni dopo la loro comparsa sui mercati, invece, i prodotti agricoli modificati con la bioingegneria per renderli resistenti a insetti e muffe, più ricchi di sostanze nutritive e capaci di rese molto maggiori di quelli tradizionali, vengono rifiutati dai consumatori, mentre le aziende che per crearli hanno investito in ricerca centinaia di milioni di dollari boccheggiano. Nei Paesi anglosassoni li chiamano Gm, iniziali di genetically modified, altrove sono i “cibi di Frankenstein”. “Le biotecnologie alimentari sono morte”, ha detto al New York Times, che riporta questa sentenza in una inchiesta sulla débacle degli alimenti modificati con la genetica, il dottor Henry Miller, lo scienziato che, dal 1979 al 1994, aveva diretto il dipartimento biotecnologie della Food and Drug Administration (Fda), l’ente federale americano responsabile della certificazione di cibi e medicinali”.
La speranza, dunque, è che questo sano sentimento dei consumatori (soprattutto europei) sappia conservarsi e difendersi dai diversi tentativi che vengono fatti per pervertirlo (così che trovi magari eccitante l’idea – secondo quanto riferisce Rifkin – che i geni dei pesci vengano inseriti nel codice dei pomodori, i geni dei polli nel codice delle patate, quelli delle lucciole in quello del granoturco o quelli del criceto in quello del tabacco – Op.cit., p.140). “Se la ricerca muore, – titola tuttavia Il Giornale (13 febbraio 2001) – rischiano i consumatori”. Dice infatti il premio Nobel Renato Dulbecco: “Noi ricercatori non viviamo più. Se la ricerca genetica in agricoltura viene interrotta o non finanziata, tra dieci anni non ci sarà più in Italia una popolazione di scienziati in grado di verificare i risultati delle ricerche altrui, e non solo la nostra ricerca avrà perso la sua competitività, ma gli stessi rischi per il consumatore saranno di gran lunga maggiori”.
Che questo tipo di operatore, ove la ricerca genetica in agricoltura venga interrotta o non finanziata, non possa vivere e competere più, è comprensibile; ma perché, una volta rifiutate queste ricerche (italiane e “altrui”), debbano aumentare i rischi per il consumatore, proprio non lo si capisce. O si vorrebbe far credere che i consumi naturali siano più rischiosi di quelli artificiali? In effetti, ha ragione la Francescato allorché auspica “un patto d’alleanza fra produttori di qualità e consumatori”. “Le forze “rigenerate” del mondo agricolo – dice – potrebbero unirsi ai produttori biologici e biodinamici, da sempre punta di diamante di un’agricoltura ecocompatibile e di qualità e oramai non più settori di nicchia” (Corriere della Sera, 12 febbraio 2001).
Ancor più importante, però, è che non si abbandoni a sé stesso il sano sentimento dei consumatori, ma lo si confermi e rafforzi, sul piano culturale, con una nuova e più profonda consapevolezza della realtà dell’uomo e del mondo in cui vive.

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Di Francesco Giorgi
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