Le Opere magiche di Giordano Bruno

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Sul quotidiano La Repubblica (11 febbraio 2001), Umberto Galimberti dedica un ampio articolo alle Opere magiche di Giordano Bruno, pubblicate di recente da Adelphi. A renderlo interessante è il fatto che Galimberti incentra il proprio discorso sulla distinzione tra il moderno “pensiero logico-matematico”, proprio della scienza, e il “pensiero per immagini” che, – dice – “anche se è risultato perdente in Occidente, continua ad essere la fonte segreta del pensare”. Di questo “pensiero per immagini” – aggiunge – “s’è impadronita la psicoanalisi: Jung più di Freud, e oggi James Hillman che denuncia di “insufficienza immaginale” la psicoanalisi, la quale, nel tentativo di accreditarsi come scienza, ha perso l’anima”.
Galimberti non spiega, però, per quale ragione il pensiero, volendo fare scienza, debba rinunciare all’anima e, volendo “fare anima” (come ama dire appunto Hillman), debba rinunciare alla scienza. Non spiega, insomma, per quale ragione non potrebbe darsi un pensiero scientifico in grado di essere, a un primo livello, “logico-matematico” e, a un secondo, “immaginativo”.
La logica che serve per comprendere il teorema di Pitagora, non serve di certo per comprendere un sogno: ma questo vuol dire forse che il sogno non ha una propria logica? O che lo si può comprendere con una logica che non sia la sua? Fatto si è che la logica non è solo una: al di là di quella dello spazio (quella matematica), si dà infatti la logica del tempo (o della vita) e, al di là di quest’ultima, si dà la logica dell’essenza (o della qualità). Mai s’intenderebbero, ad esempio, La metamorfosi delle piante o La teoria dei colori di Goethe, se non le si affrontasse muniti di quella logica del tempo o della vita che Steiner ha chiamato appunto “immaginativa”. Volendo essere più precisi, si potrebbe dire che la logica (analitica) dello spazio è quella del pensato o della rappresentazione, che la logica del tempo è quella del pensare e che la logica dell’essenza è quella del concetto (o dell’idea). E’ comunque essenziale ricordare che tutt’e tre queste logiche non sono, in realtà, che tre diverse espressioni del Logos (corrispondenti, rispettivamente a ciò che Steiner, nelle sue Massime antroposofiche, denomina “opera compiuta”, “effetto operante”e “manifestazione” di quella “Entità divino-spirituale” che s’identifica appunto col Logos).
Un cristallo di quarzo, ad esempio, per la logica dello spazio è una cosa o un divenuto, per quella del tempo è un processo o un divenire e, per quella dell’essenza, una qualità o un diveniente.
Non è dunque detto che, giunti al confine del moderno pensiero logico-matematico (che caratterizza l’attuale coscienza ordinaria), non sia possibile andare avanti (sviluppando superiori livelli di coscienza), e si sia perciò obbligati, al fine di ritrovare la vita e l’anima, a regredire.
Ma come si accede al “pensiero per immagini”? Vi “si accede, – sostiene Galimberti – come voleva Platone, non con architetture logiche, ma con pratiche erotiche”. Dal momento che viene detto proprio con “pratiche erotiche”, e non con il “pensiero erotico” (quello del Simposio o del Fedro di Platone, ad esempio, o della Filosofia erotica di Franz von Baader), saremmo invero curiosi, senza voler essere per questo maliziosi, di conoscere più dettagliatamente tali “pratiche”.
In realtà, se si fosse un po’ più autocoscienti, presto ci si accorgerebbe che non è con le “pratiche erotiche” che si può accedere a una sana immaginazione, bensì è mediante una insana immaginazione che si può accedere alle “pratiche erotiche”. “Come si è accennato, – scrive in proposito Scaligero – l’ascesa del sacro amore risponde a una serie di gradi di risoluzione dinamica dei vari composti della stratificazione profonda dell’aberrazione sessuale. Non si tratta di esperienze sessuali, bensì di operazioni svincolatrici mediante imagini. L’aberrazione sessuale esercita il suo dominio mediante un potere imaginativo usurpato” (Graal – Tilopa, Roma 1982, p.55).
In ogni caso, che nelle dotte argomentazioni di Galimberti ci sia qualcosa che non va, ce lo conferma anche un’altra considerazione. Scrive infatti: “Questo è il programma della magia di Giordano Bruno per il quale “non essendoci nell’universo parte più importante dell’altra” non è concesso all’uomo quel primato, prima biblico e poi cartesiano, che lo prevede “possessore e dominatore del mondo”, ma semplice “cooperatore dell’operante natura (operanti naturae homines cooperatores esse possint)”. Questa differenza è decisiva perché smaschera quella sotterranea parentela che, al di là delle dispute, lega la tradizione cristiana all’agnosticismo scientifico. L’una e l’altro infatti condividono la persuasione che l’uomo, disponendo dell’anima come vuole la religione o della facoltà razionale come vuole la scienza, è, tra gli enti di natura, l’ente privilegiato che può sottomettere a sé tutte le cose”.
Galimberti si compiace dunque del fatto che Bruno – a suo dire – contesti il “primato dell’uomo”. Ma perché se ne compiace? Se ne compiace perché – a suo parere – la persuasione di tale primato indurrebbe l’uomo a essere un “possessore e dominatore del mondo”. Neppure lo sfiora quindi l’idea che proprio colui che, in qualità di ego (o di soggetto psicologico), conosce inizialmente sé stesso avendo il mondo, possa, portando avanti la propria evoluzione, trasformarsi in colui che, in qualità di Io (o di soggetto spirituale), conosce finalmente sé stesso essendo il mondo: amandolo, cioè, e non più “possedendolo” e “dominandolo”.
Galimberti conosce bene la psicoanalisi. Non dovrebbe essergli difficile realizzare, perciò, che può essere indotto a rinunciare al “primato”, soltanto colui che sente e teme (più o meno oscuramente) di non saperlo positivamente utilizzare. Chiunque, tanto per fare un esempio, avendo ricevuto in dono un martello, ritenesse di poterlo usare solamente per darlo in testa a qualcuno, finirebbe di certo, ove conservasse una qualche sensibilità morale, col rifiutarlo e con l’allontanarlo da sé.
“Oggi che il potere dell’uomo sulla natura – scrive ancora Galimberti – inquieta l’uomo stesso, perché il suo potere di “fare” è enormemente superiore al suo potere di “prevedere” e di “governare” la propria storia, forse è opportuno un ritorno al pensiero di Bruno, per scorgervi non l’anticipatore degli “infiniti mondi” contro il geocentrismo del suo tempo, ma colui che, proprio in forza degli “infiniti mondi” dubita che l’uomo possa essere pensato come il centro dell’universo e quindi in diritto di disporne, questa volta sì ingenuamente, secondo i modesti e al tempo stesso terribili schemi della sua acritica progettualità, perché alla legge del Tutto, a cui si volgeva la magia bruniana, impone la legge dell’uomo (occidentale) sul Tutto”.
Galimberti non si chiede, tuttavia, come sia riuscito l’uomo (occidentale) a imporre la propria legge al “Tutto”. E nemmeno si chiede se un “Tutto” che arretri di fronte alla volontà di una sua parte, sia davvero il “Tutto”.
In realtà, è proprio il Tutto (lo Spirito) a farsi, nell’uomo, uno (ego), affinché questo (che non è ancora un “Tutto”) prima si opponga a un “Tutto” (che non è più tale), e poi, muovendo liberamente da sé, si realizzi coscientemente e amorevolmente quale Uno-Tutto: ossia, quale Io. Del resto, se è vero – come riconosce Galimberti – che, nell’uomo, l’attuale “potere di fare è enormemente superiore al suo potere di “prevedere” e di “governare” la propria storia”, è chiaro allora che non si tratta affatto di promuovere “un ritorno al pensiero di Bruno” (che non si era ancora dovuto misurare con un tipo umano del genere), bensì di promuovere uno sviluppo del pensiero e della coscienza che consentano all’uomo di riprendere il controllo su un “fare” che rischia altrimenti di distruggerlo.

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Di Francesco Giorgi
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