Alain Besançon ed Edward Luttwak

A

Su Il Giornale (24 febbraio 2001), Sergio Ricossa, in occasione della pubblicazione di Comunismo, nazismo e l’unicità della Shoah di Alain Besançon, scrive: “Il vero problema che il nostro autore affronta è quello che tormenta anche molti di noi: perché se siamo stati nazisti, o peggio lo siamo tuttora, dovremmo vergognarcene davanti all’umanità mentre se siamo stati comunisti possiamo esserlo tuttora a fronte alta? Perché Hitler è imperdonabile, mentre Lenin e Stalin (di cui ormai è provata la continuità ideologica) meritano comprensione se non un seguito degli onori che ebbero in vita?”.
Besançon, – riferisce – ricordando che il popolo ebraico “esiste solo in quanto membro di un’Alleanza con un Dio che è impegnato con delle promesse”, sembrerebbe voler spiegare tale differenza col fatto che i nazisti, sterminando gli ebrei, si sono per ciò stesso macchiati di “deicidio”.
Osserva però Ricossa: “Personalmente preferisco pensare che Besançon fallisca nel suo tentativo di razionalizzare una condanna del nazismo più severa della condanna del comunismo. Tale disparità di condanna, che pure solleva in lui (e in me, beninteso) “una indignazione profonda”, resta inspiegata”; e così pertanto conclude: “C’è in me la voglia delusa di capire e la speranza che Besançon tornerà sul tema. Non abbandonarlo ancora. Non mollare, caro Alain”.
Saremmo lieti di sbagliarci, ma siamo convinti che, anche qualora il “caro Alain” non “abbandonasse” o non “mollasse” il tema, la voglia di capire di Ricossa rimarrebbe comunque delusa. Per rispondere all’interrogativo che gli sta a cuore sarebbe infatti necessario capire molte altre cose che non siamo per nulla sicuri che a Becançon interessino. In questa sede, ci limiteremo a proporre questa sola riflessione. I nazisti – scrive Ricossa – “se la pigliavano soprattutto con gli ebrei o, un po’ più in largo, con i non ariani”. Ma i nazisti sono stati sconfitti e quindi, al mondo, ci sono ancora ebrei e non ariani. Ebbene, la loro presenza costituisce forse un problema per l’umanità? Decisamente no. Con chi “se la pigliavano” (e tuttora se la pigliano) invece i comunisti? Con il capitalismo. Ma anche il comunismo è stato sconfitto (anche se non del tutto) e quindi, al mondo, c’è ancora il capitalismo. Ebbene, la sua presenza costituisce forse un problema per l’umanità? Decisamente sì. Ecco la differenza! Il nazismo ha fallito nel risolvere un problema irreale, mentre il comunismo ha fallito nel risolvere un problema reale; tanto reale che, caduto il comunismo, non solo perdura, ma si è pure aggravato. In questa luce, dunque, ciò di cui i comunisti sono stati (e sono tuttora) responsabili (al di là, ovviamente, delle nefandezze di cui si sono resi artefici) è il fatto, non solo di non essere riusciti a superare il capitalismo, ma di aver contribuito, con i loro errori e orrori, a rafforzarlo e a renderlo apparentemente invincibile. Cosa intendiamo per “capitalismo”? La patogena invadenza della vita economica nella vita politica e in quella culturale. Tutte le volte, per fare un banale esempio, in cui il film o lo spettacolo che stiamo vedendo alla televisione viene interrotto dalla pubblicità, possiamo toccare quasi con mano l’indebita intrusione della vita economica in quella culturale.
Si parla oggi di “globalizzazione”. Non tutti considerano, però, che un conto è la globalizzazione delle merci, altro la mercificazione del globo. Ma com’è possibile evitare che la globalizzazione delle merci (o dei mercati) comporti l’omologazione delle politiche e delle culture? Ove si tenesse presente ch’è proprio dell’attività economica il trasformare tutto in “merce”, presto si capirebbe che bisognerebbe allora separarla tanto da quella politica quanto da quella culturale. Ma proprio questa è la proposta di una “triarticolazione” dell’organismo sociale avanzata, sin dal 1919, da Steiner. “Marx ed Engels avevano ragione – scrive appunto – quando esigevano una riforma della vita economica; ma nel richiederla erano unilaterali. Non vedevano che la vita economica può diventare libera solo se accanto ad essa si pongano una libera vita giuridica e una libera vita dello spirito” (I punti essenziali della questione sociale – Antroposofica, Milano 1980, p.139).
In effetti, il capitalismo asservisce la vita politica e quella culturale alla vita economica, mentre il comunismo asservisce la vita culturale e quella economica alla vita politica. Il secondo vorrebbe dunque curare una malattia (che non tutti – bisogna ammetterlo -hanno la sensibilità di riconoscere come tale), ma, per il modo in cui lo fa, finisce con l’ingenerarne un’altra di non minore gravità. Il fallimento economico e culturale degli ex paesi del cosiddetto “socialismo reale” ne rappresenta ormai un’indiscutibile riprova. Fatto sta che quello che nel capitalismo è un processo “reale”, ovvero la subordinazione degli interessi politici e culturali a quelli economici, è addirittura assurto, in Marx ed Engels, a processo “ideale”. E’ loro, infatti, la teorizzazione del carattere “strutturale” della vita economica e di quello “sovrastrutturale” delle altre due. In tal modo, essi hanno però trasformato una realtà di “fatto” (o storica) in una realtà di “diritto” (o metastorica): ovverosia, in una “legge” che avrebbe dovuto nientemeno dar conto dell’intera storia del genere umano. Quel ch’è più grave, comunque, è che entrambi hanno mutuato il materialismo di quella borghesia che intendevano combattere, oltretutto estendendendolo dalla sfera pratica (della volontà o dell’azione) a quella teorica (del pensiero o dell’ideologia).
Neanche a farlo apposta, nella stessa pagina de Il Giornale in cui si trova l’articolo di Ricossa, vi è anche un’intervista di Marcello Foa a Edward Luttwak, in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro, intitolato Il libro delle libertà.
Ebbene, nel corso di questa intervista, Luttwak si dice molto preoccupato per le sorti della democrazia europea e afferma, con una certa solennità: “La democrazia di oggi è rimasta senz’anima”. Ma chi è – vorremmo chiedergli – che ha privato o sta privando dell’anima la democrazia? E chi è che dovrebbe restituirgliela? Alla prima di queste due domande, Luttwak così risponde nell’intervista: “La democrazia oggi, benché rispettata formalmente non è più in sintonia con il cittadino, che si sente sempre meno rappresentato e tutelato dalle istituzioni. Poi c’è il problema del conformismo che, soprattutto nelle società piccole e omogenee, limita la libertà. E, in campo economico, i monopoli e i cartelli, che talvolta si formano spontaneamente e talvolta sono creati dallo Stato che rilascia un numero limitato di licenze, vedi il caso dei telefoni cellulari. Il risultato è identico: una ridotta libertà economica”. Come rispondere però alla seconda domanda, se si è convinti – come oggi – che l’anima neanche esiste? E poi, ammesso pure che se ne ammetta l’esistenza, riesce a concepirlo, Luttwak, uno Stato (vale a dire, un organismo giuridico o politico) che si rianimi da sé? Il problema certo esiste, ma non può essere risolto che nella prospettiva, indicata da Steiner, di una “triarticolazione” dell’organismo sociale. In un organismo del genere, sarebbe infatti l’apparato culturale ad animare appunto, indirettamente, sia l’apparato politico (retto democraticamente) sia quello economico (retto da libere associazioni di produttori, commercianti e consumatori).
Luttwak lamenta che il cittadino si senta “sempre meno rappresentato e tutelato dalle istituzioni”. Ma come potrebbe essere altrimenti se lo Stato, anziché occuparsi unicamente della sua tutela giuridica, s’intromette nella gestione dell’economia e della cultura (e in specie della scuola)?
Dice ancora Luttwak: “L’Europa e in particolare l’Italia sono più vulnerabili. In America abbiamo due difese. La prima: un’istintiva diffidenza per chi assume troppo potere. Quando un presidente diventa troppo potente l’America ricorre al tirannicidio e s’industria per buttarlo giù in una maniera o nell’altra: è accaduto con Reagan (scandalo Irangate) e con Clinton (sexgate). La seconda: un sistema legale molto più potente, che inietta energie vitali nella società. Funziona come un contropotere perché ci sono degli avvocati famelici che invece di mandarti a casa parcelle stratosferiche si fanno pagare in proporzione al risultato ottenuto. L’avvocato non costa niente al cliente, ma si prende il 30 per cento delle somme ottenute”.
Vogliamo sperare che Luttwak, dicendo questo, non abbia inteso sostenere che la democrazia americana, diversamente da quella europea (e in particolare italiana), ha ancora un’anima. Di quale natura sono infatti quelle “energie vitali” che – a suo dire – il sistema legale inietterebbe nella società americana? Guarda caso, di natura economica: della sola, cioè, in grado di soddisfare gli appetiti degli “avvocati famelici”. E cosa dire, inoltre, di un sistema che prima permette a qualcuno di diventare “troppo potente” e poi ricorre al “tirannicidio” o agli “scandali” per sbarazzarsene? Diciamo la verità: se non si ha più il coraggio d’immaginare una vita sociale in cui (pur senza realizzare il “paradiso in terra”), alcuni siano portati a occuparsi di cultura per amore dello spirito, altri di diritto per amore di giustizia, e altri ancora di economia per soddisfare, grazie alle loro capacità, i bisogni degli altri, sarebbe meglio allora tacere e attendere che gli uomini, non avendo imparato le lezioni impartite ieri dal comunismo, dal fascismo e dal nazismo, siano almeno disposti a imparare quella impartita oggi dal liberismo

Scarica PDF

Di Francesco Giorgi
Per qualsiasi informazione o commento, potete inviare una e-mail al seguente indirizzo: info@ospi.it



Nel campo sottostante è possibile inserire un nome o una parola. Cliccando sul pulsante cerca verranno visualizzati tutti gli articoli, noterelle o corrispondenze in cui quel nome o parola è presente