Proprietà privata e libertà economica

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Il Giornale ha preso da qualche tempo a rievocare, con una serie di articoli, le figure dei cosiddetti “grandi liberali”. L’ultimo di questa serie (26 febbraio 2001) è dedicato a Ludwig von Mises (1881-1973) che – a detta di Dario Antiseri, autore dell’articolo – “è stato insieme al suo discepolo Friedrich A. von Hayek, uno dei più grandi teorici contemporanei del liberalismo”.
Ebbene, Ludwig von Mises – scrive sempre Antiseri – “da convinto individualista metodologico, ha avversato la perniciosa dottrina di quanti reificano i concetti collettivi (Stato, partito, classe, ecc.). La realtà è che esistono solo individui: “solo l’individuo pensa, ragiona ed agisce””.
Tale “individualismo metodologico”, in quanto avversa “la perniciosa dottrina di quanti reificano i concetti”, si fonda dunque sul “nominalismo”. Ma su che cosa si fonda il “nominalismo”? Sul materialismo. I nomi “astratti” non hanno infatti, per definizione, realtà, mentre quelli “concreti” ce l’hanno, ma “fuori” di sé: vale a dire, nelle “cose” sensibilmente percepibili. Sostenere che siano le “cose” a costituire il fondamento dei nomi, equivale dunque a sostenere che siano le percezioni a costituire il fondamento dei concetti.
Questo lo si può credere, però, fintantoché non si sia afferrata la natura della percezione stessa. Non è significativo, infatti, che più percezioni possano riferirsi a un solo concetto? Senza quest’ultimo, come potremmo qualificare (o determinare), ad esempio, la percezione A come il “triangolo A” (magari rettangolo), la percezione B come il “triangolo B” (magari acutangolo) e la percezione C come il “triangolo C” (magari ottusangolo)? Ma che cosa è allora (in sé) quel “triangolo” cui facciamo necessario riferimento in tutti e tre i casi? E potremmo, senza di esso, ottenere le nostre tre diverse rappresentazioni?
“La realtà – dice von Mises – è che esistono solo individui”: è vero, ma occorrerebbe realizzare che proprio tale realtà è di ordine spirituale (concettuale) e non materiale (percettiva). “Ciò che davvero distingue essenzialmente la percezione dall’idea, – scrive a tale proposito Steiner – è appunto quest’elemento che non può essere messo in concetti ma dev’essere sperimentato” (Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.108). Il che significa, in altri termini, che l’attività del percepire permette di sperimentare, ma non di giudicare o categorizzare.
Il nominalista afferma dunque la realtà degli individuali e nega quella degli universali solo perché non si avvede che la categoria dell’individualità che gli permette di qualificare o determinare le proprie percezioni (le proprie esperienze) è appunto un universale: ovvero, un concetto e non una percezione.
Se il nominalismo “liberale” (risalente soprattutto a Locke e Hume) non riesce dunque a cogliere l’universale nell’individuale, quello “marxista” non riesce viceversa a cogliere l’individuale nell’universale.
Abbiamo fatto queste osservazioni soltanto perché servono a mettere in luce, ove ce ne fosse ancora bisogno, il fondamento materialistico del liberalismo e, a maggior ragione, del liberismo. Si tratta, volendo essere più precisi, di un materialismo della volontà (la cui controparte cosciente è un astratto “idealismo”) cui il marxismo è riuscito soltanto a opporre un materialismo del pensiero (la cui controparte incosciente è un istintivo “volontarismo”). La celeberrima affermazione di Gramsci: “Pessimismo del pensiero e ottimismo della volontà”, ne costituisce un’eloquente conferma.
Altro, tuttavia, è quel che qui c’interessa. Scrive Antiseri: “Da teorico del liberalismo, Mises, evitando appelli ai sentimenti e prediche sui valori, fa presente come ragioni logiche ed empiriche stiano lì a dimostrare l’inscindibile legame tra economia di mercato da una parte e il più esteso benessere e la più ampia libertà dall’altra. Da ciò segue che, se vogliamo il più esteso benessere e la più ampia libertà, dobbiamo allora porre attenzione a tutti quei mezzi che favoriscono e proteggono l’economia di mercato. Ora, però, l’economia di mercato equivale, innanzitutto, alla proprietà privata dei mezzi di produzione. “Il programma del liberalismo – afferma Mises – potrebbe riassumersi in una sola parola “proprietà”, da intendersi come proprietà privata dei mezzi di produzione””.
Una cosa, tuttavia, è il possesso o la gestione dei mezzi necessari alla produzione di beni economici (di merci), altra la loro proprietà, quale fatto “giuridico” e non “economico”. Ma tanto il liberalismo quanto il marxismo non distinguono affatto queste due realtà. Il primo, infatti, assegna tanto la gestione che la proprietà dei mezzi di produzione all’individuo (al soggetto privato), mentre il secondo le affida entrambe alla collettività o allo Stato (al soggetto pubblico).
Per trovarle distinte, ci si deve dunque rivolgere a Steiner. “Invece della proprietà comune dei mezzi di produzione, – scrive infatti quest’ultimo – subentrerà nell’organismo sociale la circolazione di tali mezzi, portandoli sempre di nuovo nelle mani delle persone le cui attitudini individuali possano renderli utili alla collettività nel miglior modo possibile. In questa maniera verrà stabilito temporaneamente quel collegamento tra persone e mezzi di produzione che finora era stabilito dalla proprietà privata…” (I punti essenziali della questione sociale – Antroposofica, Milano 1980, p.95).
Una ipotesi del genere suscita però delle fiere resistenze sia a destra che a sinistra. Sia gli esponenti della prima (tra i quali annoveriamo, se non altro per ragioni storiche, i liberali) sia quelli della seconda l’avvertono infatti come una minaccia alla loro identità: gli uni perché credono di essere perché hanno; gli altri perché credono di non essere perché non hanno.
Eppure, dopo il tragico fallimento del cosiddetto “socialismo reale”, soprattutto i secondi farebbero bene a riflettere sul fatto che i loro ideali potrebbero cominciare a tradursi almeno in parte in pratica soltanto nella prospettiva della “triarticolazione dell’organismo sociale” indicata da Steiner. “E’ un’assai giustificata esigenza del socialismo contemporaneo – questi scrive infatti – che le istituzioni moderne, dove scopo alla produzione è il profitto del singolo, vengano sostituite da altre dove sia scopo la produzione per il consumo di tutti”. E’ tuttavia necessario, per questo, “che quel che si produce privatamente in virtù di attitudini individuali, debba essere messo a disposizione della collettività per le dovute vie” (Op.cit., p.95).
In particolare, sarebbe compito dell’apparato culturale (o spirituale) indicare i soggetti più idonei a gestire i mezzi di produzione (e a creare pertanto ricchezza), e di quello politico approntare invece gli strumenti giuridici atti a garantire e tutelare, nell’interesse della collettività, la libera (ma temporanea) gestione degli stessi.

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Di Francesco Giorgi
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