Quantità, vita e qualità

Q

Scrive Manfred Klett: “Siamo ancora all’inizio dello scatenarsi del genio genetico; questo ci rivelerà il suo carattere distruttore nel mondo organico solo attraverso ulteriori conseguenze, come fa il nucleare nel campo dell’inorganico” (L’uomo è ciò che mangia? in S.M.Francardo: I semi del futuro – Edilibri, Milano 2001, p.150).
In effetti, come si parla di una fisica sub-atomica o nucleare, così si potrebbe parlare di una biologia “sub-cellulare” o “nucleare” (detta di norma “molecolare”). E’ nel nucleo della cellula, infatti, che si trovano i cromosomi, ed è in questi che si trovano il DNA e i geni. Si potrebbe anche dire, perciò, che i geni rappresentano, in qualche modo, l’equivalente biologico delle “particelle” fisiche. Il DNA è costituito però da due filamenti complementari (la cui struttura, stando al modello proposto da J.D.Watson e F.H.C.Crick nel 1953, sarebbe a “doppia elica”) all’interno dei quali i geni non sono che delle specifiche sequenze di nucleotidi (adenina: A; citosina: C; guanina G; timina: T). Soltanto suddividendo o, come si preferisce dire, “sequenziando” il DNA si isolano dunque i geni. A questo punto bisogna fare però attenzione. “Sequenziare” – spiega infatti il Dizionario – significa “stabilire o ricostruire l’ordine di una serie di elementi” (Francis Collins, nel corso di un’intervista, dice appunto: “Un secolo fa la scoperta della tavola periodica degli elementi rivoluzionò la chimica. Noi abbiamo trovato la tavola periodica dell’uomo” – Corriere della Sera, 13 febbraio 2001). “Sequenziare”, dunque, vuol dire presupporre l’esistenza di una serie di elementi dei quali ci si ripropone di “stabilire o ricostruire l’ordine”.Nel caso dei geni, tuttavia, ci si può riproporre solamente di “ricostruirlo”, poiché questi – come abbiamo appena visto – stanno già in rapporto tra loro, quali parti, all’interno di quell’insieme che è il DNA.. Nella sfera organica, infatti, non è dalla unione delle parti che nasce l’insieme, bensì è dalla divisione dell’insieme che nascono le parti. Mentre sul piano reale la sintesi precede dunque l’analisi, sul piano ideale ci si muove come se l’analisi precedesse la sintesi. Si prenda, ad esempio, un anellide (o verme segmentato), lo si suddivida in tante parti quanti sono gli anelli, e s’immagini poi di “ricostruirlo” mettendo in sequenza tali segmenti. Si riotterrebbe, sì, in questo modo, l’anellide originario, ma con una differenza: che il primo era vivo, mentre il secondo è morto. Nel momento stesso in cui abbiamo preso a suddividerlo, abbiamo infatti eliminato dall’anellide la vita: ovvero, una componente essenziale della sua realtà; proprio quella, oltretutto, che, con la sua attività, non solo unifica i segmenti, ma ne permette l’interazione. Orbene, considerare il gene – come oggi si fa – quale “unità indipendente dell’ereditarietà” (capace, secondo il principio della “sostanziale equivalenza”, di operare allo stesso modo ovunque si trovi), equivale a considerare un segmento del verme quale “unità indipendente dell’anellide”, e non – come si dovrebbe – quale “unità dipendente dall’anellide” (“Il principio della sostanziale equivalenza, – nota in proposito Francardo – sostenuto con forza dalle ditte biotecnologiche e dal governo degli Stati uniti, ammette prove che valutino esclusivamente l’eventuale dannosità del gene inserito nel DNA dell’alimento transgenico. Nulla viene concesso da tale principio alla interazione con tutto il genoma e con l’intero organismo” – Op.cit., nota p.85).
Come si vede, ci troviamo di fronte a un errore di pensiero che deriva direttamente dal fatto di applicare alla realtà organica la medesima logica che vige in quella inorganica. “Il Progetto genoma umano – osserva al riguardo Rifkin – ha affrettato l’incontro fra computer e scienze genetiche. Sequenziare e analizzare i tre milioni di coppie base non sarebbe stato possibile senza l’aiuto del computer e delle sempre più sofisticate tecniche di calcolo. Richard Karp osserva che il Progetto genoma umano sta “trasformando la biologia in una scienza dell’informazione”” (Il secolo biotech – Baldini & Castoldi, Milano 1998, pp.303-304). E’ dunque così che l’intelletto (reificato nel computer), sapendo pensare i “sistemi complessi”, ma non gli “organismi”, si sforza di ridurre la realtà vivente o dinamica dei secondi a quella inerte o meccanica dei primi. “Agli inizi dell’ecologia, – nota Manfred Klett – scienza ancora giovane, si utilizzava spesso il concetto d’organismo per caratterizzare il tessuto relazionale di un ambiente composto da numerosi individui, per esempio uno stagno. Oggi questo concetto è scomparso, sostituito da termini quali sistema o rete. Un sistema è aperto: è una pluralità. Un organismo è praticamente chiuso: è una unità. Un sistema può essere concepito in maniera casuale e additiva. Un organismo invece è particolarmente difficile da afferrare con il pensiero” (Op.cit., p.152).
Che si tratti di un artificio, lo si comincia comunque a riconoscere. Dice infatti Ernst Mayr: “Senza dubbio è diventato necessario studiare più l’interazione dei geni che non l’azione del gene” (in S.M.Francardo: Op.cit., p.54); e lo stesso Craig Venter ribadisce: “Non è vero che un gene produca una proteina e una malattia. La chiave della salute è più complessa: è l’interazione dei geni, delle proteine e dell’ambiente” (Corriere della Sera, 13 febbraio 2001) Si tende dunque a spostare l’accento sulla “interazione dei geni”, ma non si riflette sul fatto che la natura di una “interazione” è funzionale e non sostanziale. Una “interazione”, infatti, altro non è che una “attività intelligente”: vale a dire, la manifestazione di una forza gestita da una intelligenza o da un pensiero (da una legge). Non a caso, nei segmenti suddivisi e isolati dell’anellide, non dandosi più vita, non si dà più interazione né intelligenza.
Proprio perché un organismo – come dice Klett – “è particolarmente difficile da afferrare con il pensiero”, ecco allora che l’intelletto, anziché parlare di “attività vitale”, di “intelligenza” o di “pensiero”, preferisce parlare di “interazione” e di “informazione”. E’ opportuno comunque precisare che, a trovare “particolarmente difficile da afferrare l’organismo”, non è il “pensiero”, bensì solo la sua espressione intellettuale, analitica e quantificatrice (per quanto riguarda la nutrizione – osserva ad esempio Francardo – “l’analisi della composizione degli alimenti, la loro valutazione dal punto di vista energetico, la compilazione di tabelle alimentari dietetiche sulla base delle calorie necessarie in rapporto all’attività fisica svolta durante il giorno, sono la risposta odierna della scienza. Si tratta di un esame del nutrimento prevalentemente quantitativo, che ha trasformato gli alimenti in numeri” – Op.cit. p.9).
Goethe – dice Steiner – è il Copernico e il Keplero del mondo organico” (Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.70). Ma Steiner lo ha definito così proprio perché Goethe, incontro al mondo vivente, ha portato un pensiero altrettanto vivente e per ciò stesso capace di afferrare, non solo il fluido processo della metamorfosi, ma anche la realtà qualitativa del “tipo”.
In Goethe è infatti il “tipo” (quale “insieme”) a governare l’interazione degli elementi che lo compongono. Non solo, ma è sempre il “tipo”, sul piano evolutivo, a reagire in modo attivo e intelligente alle stimolazioni ambientali, così da produrre, ove necessario, delle mutazioni. Proprio quelle mutazioni che l’intelletto, non riuscendo a spiegarsi altrimenti, è costretto ad attribuire al “caso”. Stando ai neo-darwinisti, le mutazioni non sarebbero infatti una risposta dell’organismo agli stimoli ambientali, ma un’iniziativa o un prodotto del caso che l’ambiente, in seconda istanza, s’incaricherebbe di selezionare. Ma il “tipo” di Goethe – si obietterà – non è un’esperienza, in quanto sensibilmente inverificabile. Già, ma è forse sensibilmente verificabile il caso? E per quale ragione si preferisce allora questa seconda ipotesi? Per una ragione scientifica o per una ideologica (scientistica)?
In realtà, una delle maggiori contraddizioni del nostro tempo sta proprio nel fatto di reclamare sempre più la “qualità” (tanto da pretenderne, per alcuni prodotti, il “marchio” o la “certificazione”), ma di continuare, al tempo stesso, a perseguirla con un pensiero che, non essendo in grado di coglierne la realtà (sovrasensibile), si limita a inseguirne il riflesso sul solo piano tecnologico. In rapporto agli alimenti, osserva appunto Francardo: “Nell’aroma, nel sapore, nel colore e nella consistenza già si esprime qualcosa di essenziale. Abbiamo bisogno di un concetto di qualità tratto da quello di totalità” (Op.cit., pp.26-27); e, in rapporto alla loro manipolazione genetica, così aggiunge: “Forse nel futuro, in un’epoca più illuminata, si guarderà a queste ricerche come a vere aberrazioni, forse si comprenderà in modo scientifico ciò che oggi appare ovvio al semplice e comune buon senso, ovvero che la qualità nutrizionale di un alimento risulta non solo dall’analisi biochimica ma dal benessere dell’essere vivente, pianta o animale, che ce lo dona” (Ibid., p 40).
Ma la qualità, per l’attuale pensiero scientifico, non esiste. Scrive infatti Boncinelli: “In natura l’odore di violette non esiste, come non esiste un accordo in Do o il giallo paglierino. Ciascuno di questi è un segmento di realtà ritagliato dai nostri sensi e da essi elevato al rango di sensazione” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p.118). Se non hanno dunque qualità i profumi, i suoni o i colori, figuriamoci se può averne l’anima. Ma perché ostinarsi allora a pretendere – come oggi si fa – una “qualità della vita”? Musil – è noto – ha scritto L’uomo senza qualità; ma è anzitutto il pensiero attuale a essere “senza qualità”: come ha ben visto Hegel, la “quantità” non è infatti che una “qualità priva di qualità”.
A questo proposito, e in vista della discussione al Senato di un disegno di legge (già approvato alla Camera dei deputati alla fine del ’99) riguardante la regolamentazione del settore erboristico, Gianni Mozzo prima scrive che “è attesa da anni una legge che coordini l’intero settore e stabilisca i necessari controlli di qualità a tutela del consumatore” e poi lascia la parola a Silvio Garattini (dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano) che dice: “Non si può attribuire la difesa organica dell’organismo e l’attività di integratori delle funzioni fisiologiche a delle erbe. In qualsiasi farmaco la quantità del principio attivo è di vitale importanza e nelle erbe è quasi sempre non dichiarata. Fin dall’antichità le erbe hanno avuto valori curativi, ma oggi sappiamo estrarre principi attivi puri anche dal mondo vegetale lasciando gli elementi tossici. Da ultimo un intervento terapeutico non può essere adottato senza alcun controllo medico: si rischia di aggravare le patologie epatiche, quelle renali, e di abbassare le stesse difese dell’organismo” (Il Giornale, 3 Marzo 2001).
Si diffidi dunque della Chamomilla, dell’Arnica o del Taraxacum poiché, al momento della creazione, il Signore ha omesso, irresponsabilmente, di dichiarare la “quantità” del loro principio attivo. E si diffidi pure dell’esperienza dei fitoterapeuti, dei medici omeopatici e antroposofici, poiché costoro si ostinano, non meno irresponsabilmente, a utilizzare erbe o farmaci realizzati con sostanze naturali. Ci si fidi invece di quei medici che usano solo prodotti di “sintesi”: ossia, preparati chimici che, prima di essere prescritti, vengono responsabilmente sperimentati, a tutela dei pazienti o dei consumatori, sugli animali. C’è però un problema. “Ogni specie animale – ricorda Francardo – reagisce alle sostanze chimiche in maniera diversa: l’aspirina uccide i gatti e la penicillina, se fosse stata somministrata alle cavie, non starebbe nella farmacopea perché le uccide; fortuitamente fu sperimentata sui topi e così, per un caso, entrò nella medicina trionfalmente. Immaginiamo di non sapere nulla della cicuta e di doverla testare dal punto di vista della tossicità. Procedendo secondo la metodologia sperimentale, cominceremmo a somministrarla a specie animali diverse ma con alcune caratteristiche comuni, ottenendo i seguenti risultati: topo (onnivoro, monogastrico): non sensibile; pecora (erbivoro, poligastrico): non sensibile; capra (erbivoro, poligastrico): non sensibile. A questo punto, secondo i criteri della sperimentazione animale, saremmo legittimati a somministrarla ad un uomo. Ecco il risultato: uomo (onnivoro, monogastrico come il topo): effetti tossici mortali“. Fatto si è – conclude lo stesso – che “sostanze molto utili per l’uomo sono state messe da parte, per anni, perché dannose agli animali, e moltissimi farmaci, considerati sicuri sulla base di esperimenti condotti sugli animali, sono stati poi ritirati dal commercio per aver causato nell’uomo gravi danni alla salute” (Op.cit.,pp.126-127).
Non tutti hanno fatto dunque tesoro di quanto è avvenuto, nel 1956, con la Talidomide: un medicinale (geneticamente manipolato) usato per curare l’influenza e come sedativo che, – secondo quanto ricorda Francardo – “nato con tutti i crismi della ricerca, con la sua dose di sofferenza animale, ha provocato nelle donne gravide una mutazione genetica a danno dei nascituri con conseguenti riduzioni bilaterali degli arti (amelia, focomelia, ipoplasia) e malformazioni gastrointestinali e cardiovascolari” (Op.cit., pp.83-84). A Milano, tuttavia, – ricorda sempre Francardo – “l’Istituto Europeo di Oncologia ha deciso di abolire la sperimentazione sugli animali. Il professor Umberto Veronesi nel suo libro Un male curabile scrive: “Gran parte delle ricerche sul cancro svoltesi nella prima metà del Novecento è stata eseguita su animali di laboratorio. Si sperava di ottenere un modello sperimentale che riproducesse nell’animale le condizioni di sviluppo dei tumori umani e di poter trasferire all’uomo i risultati ottenuti. Intorno agli anni Sessanta ci si è resi conto che questa seducente ipotesi di lavoro non era realizzabile. I tumori dei topi, dei ratti, dei polli o delle cavie sono sostanzialmente diversi da quelli dell’uomo; diverso è il loro modo di metastatizzare. Nonostante l’enorme mole di informazioni che gli studi sperimentali ci avevano fornito sul fenomeno “cancro”, l’utilizzazione in campo umano rimaneva nel complesso trascurabile” (Ibid., p.125).
In tutti i modi, il problema del “principio attivo” non fa che riproporre quello del rapporto tra la parte e il tutto o tra l’elemento e l’insieme. Al riguardo, la farmacopea omeopatica fornisce un ottimo esempio del modo in cui il cosiddetto “principio attivo” operi a seconda dell’insieme nel quale la natura lo ha inserito. Vi sono infatti due farmaci, l’Ignatia amara e la Nux vomica, che, pur avvalendosi chimicamente dello stesso “principio attivo” (la stricnina), esplicano, sul piano terapeutico, due azioni notevolmente diverse. Ove si fosse perciò estratto tale principio ed eliminato tutto il resto, in quanto ritenuto inutile o dannoso, si disporrebbe di un solo farmaco, e non di due: ossia si sarebbe solo impoverita la farmacopea. Non si tratta dunque – come vorrebbe Garattini – di estrarre e isolare il “principio attivo”, lasciando da parte gli elementi “tossici” (cosa che – s’intende – può essere sempre fatta, se necessario), quanto piuttosto di comprendere in qual modo tale principio, agendo in armonia con gli altri componenti dell’insieme di cui è parte, sprigioni le sue virtù terapeutiche. In altre parole, non si tratta di separare meccanicamente il “grano” dal “loglio”, bensì di comprendere le complesse dinamiche che, nell’ambito della natura vivente, mediano la superiore azione delle varie qualità. Riferendosi alla nutrizione, osserva appunto Francardo: “L’alimentazione ha fondamentalmente una funzione di stimolo; infatti oggi è sempre più chiaro che ciò che consente le funzioni del nostro organismo sono le qualità differenziate delle sostanze con cui esso interagisce” (Op.cit., pp.22-23).

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Di Francesco Giorgi
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