Non pochi ritengono, oggi, che le categorie politiche di “destra” e “sinistra” siano ormai obsolete e quindi inservibili. Noi pensiamo, invece, che tali categorie abbiano un fondamento spirituale e siano perciò ancora valide. E’ diventato però più difficile distinguerle, poiché non si presentano più, come un tempo, chiaramente contrapposte, ma per lo più intrecciate, mescolate e confuse tra loro. Si consideri, per fare un banale esempio, un partito come “Rifondazione comunista”. Ebbene, ieri il “sole” del socialismo era quello “dell’avvenire”, oggi, per il fatto stesso che ci si ripropone di “ri-fondarlo”, è invece quello del “passato”. Ciò è in effetti inconsueto, poiché il sentire “utopico” della sinistra, legato al futuro, si è sempre contrapposto a quello “nostalgico” della destra, legato al passato.
Queste considerazioni ci sono suggerite dalla lettura di un volumetto, intitolato Economicismo, pubblicato dalle Edizioni Settimo Sigillo (Roma 2001) e curato da Giuliano Borghi. Si tratta di un’antologia “ragionata” dei passi in cui Julius Evola ha più efficacemente formulato la sua critica dell’homo oeconomicus: di quell’uomo, ossia, che – secondo quanto scrive Borghi nella sua introduzione – idolatra, da “mercante”, il “mercato” e dice di sé stesso: “Io sono colui che ha” (p.8).
Proprio Evola, con il suo culto della “Tradizione”, ci conferma nell’idea che la sinistra è ipotecata dall’entità arimanica, mentre la destra da quella luciferica (dal momento che l’una non può agire senza il sussidio dell’altra, sarebbe comunque più appropriato definire la loro attività, nel caso della sinistra, “arimanico-luciferica” e, in quello della destra, “luciferico-arimanica”). Il sentire della sinistra è infatti mortificato (depressivamente) da un pensiero razionalistico, intellettualistico o scientistico, mentre quello della destra è esaltato (maniacalmente) da un pensiero irrazionalistico, mitizzante o misticheggiante.
Evola, ad esempio, dopo aver affermato ch’è fondamentale il “saper riconoscere che non vi è accrescimento esteriore economico e prosperità sociale che valga la pena e alla cui lusinga non si debba assolutamente resistere quando controparte ne sia una limitazione essenziale della libertà e dello spazio occorrente a che ognuno possa realizzare quel che gli è possibile al di là della sfera condizionata dalla materia e dai bisogni della vita ordinaria” (p.29), si fa promotore (forse anche perché barone) di un’”etica aristocratica”, e scrive: “Noi diciamo: che il lavoro torni ai servi. Che oltre il lavoro sia conosciuta, sia voluta, sia affermata l’Azione. Scavar di nuovo duramente, rigidamente il solco: dov’è “lavoro” non v’è spirito, dove v’è spirito non v’è lavoro. Alimentar di nuovo, in una élite, il disprezzo per il “mito” contaminatore e per la sua controparte: il lucro, il guadagno, il “compenso”” (p.38).
Il problema, tuttavia, non è quello di scoprire che “dov’è “lavoro” non v’è spirito” e che “dov’è spirito non v’è lavoro”, bensì quello, ben più arduo, di scoprire quale sia lo spirito che ispira un lavoro senz’anima. Come verrebbe vissuto infatti il lavoro ove non fosse più disanimato da uno spirito del genere? Non poggia esso infatti sul “lucro”, sul “guadagno” e sul “compenso” proprio perché non gli è consentito di poggiare sull’anima? E per quale ragione, dunque, non potrebbe essere vissuto come un “dono” o un’espressione di fraternità o socialità? Sostiene Borghi, nella sua introduzione, che l’”antieconomicismo” di Evola “va inteso non come rifiuto dell’”economia”, bensì quale rigetto della pretesa dello “spirito economico” di farsi “spirito del mondo”” (p.19). Non siamo del tutto convinti della validità di questa tesi, ma ci limiteremo a notare che, in verità, non è tanto lo “spirito economico” a volersi fare “spirito del mondo”, quanto piuttosto è il “principe di questo mondo” (com’è detto nel Vangelo) a volersi fare “spirito economico”, dopo essersi già fatto, purtroppo, “spirito culturale” e “spirito giuridico”.
Ma andiamo avanti. La destra, sentendo che gli uomini non sono tutti uguali, giudica giusto che gli inferiori stiano al servizio dei superiori, mentre la Sinistra, sentendo che gli uomini sono tutti uguali, giudica ingiusto che gli inferiori stiano al servizio dei superiori. Come si vede, l’una e l’altra non riescono a concepire una società o un mondo in cui – come dice Tillmann (cit. in Marco Doldi: Fondamenti cristologici della morale in alcuni autori italiani – Libreria Editrice Vaticana – Città del Vaticano 2000, p.32) – “il più grande è colui che serve”: in cui, cioè, non essendo gli uomini tutti uguali (ossia, ugualmente evoluti sul piano morale), i superiori (quelli moralmente più evoluti) “servano” gli inferiori (quelli moralmente meno evoluti). A nessuna delle due riesce dunque di comprendere lo Spirito che anima, nel Vangelo, la “lavanda dei piedi” (Gv 13,1-17): ovverosia, lo Spirito della carità, della compassione o dell’amore. Ne è riprova il fatto che, ignorando la “legge” della libertà o dell’amore (quella stessa, cioè, dell’Io spirituale), la destra si vede costretta ad appellarsi alle leggi della natura (del sangue o della razza) e la sinistra a quelle della cultura (del diritto).
Dice Evola che le civiltà “ad orientamento tradizionale” furono “civiltà dell’essere” (p.69). Può darsi, quel ch’è certo, in ogni caso, è che l’essere è ormai divenuto, nella natura, uno stato e, nella coscienza umana, un non-essere. Quel non-essere che caratterizza proprio i moderni intellettuali. “Pei rappresentanti di questa “intellettualità” – osserva al riguardo Evola – la frase brillante e la presa di posizione dialettica e polemica tale da far effetto valgono molto più della verità. Le idee, quando le si usano, per costoro sono un pretesto; l’essenziale è brillare, è sembrare intelligentissimi – allo stesso modo che pel politicante di oggi una ideologia di partito è un semplice mezzo per farsi avanti. Così la “fiera delle vanità”, il soggettivismo più deteriore, spesso senz’altro narcisistico, è una componente essenziale di questo fenomeno, e quando coteste cricche di intellettuali prendono anche una tinta mondana (come in “salotti” e in varie associazioni culturali), un simile aspetto viene in particolare evidenza. Non si può dare del tutto torto a chi ha detto che fra tutti i generi di stupidità, la più fastidiosa è quella degli intelligenti. Quando, analizzando sino in fondo, si trova una nullità, sarebbe davvero bene che l’intelligenza non ci fosse” (p.55).
Il compito, tuttavia, non è quello di tornare dal non-essere del moderno intellettuale all’essere dell’uomo “tradizionale”, bensì quello di andare, proprio attraverso il non-essere, dall’essere (naturale) allo spirito (autocosciente). Evola auspica (giustamente) una “rivolta” contro il non-essere del mondo moderno, ma non si avvede che, proprio per il fatto di auspicare una siffatta “rivolta”, auspica un divenire, e non un essere: proprio quel divenire che – a suo modo di vedere – caratterizzerebbe l’uomo (moderno) della “Rivoluzione”, e non quello della “Tradizione”. Il compito, anche dal suo punto di vista, riguarda dunque il divenire, e non l’essere. Ma il suo divenire è illusorio, poiché si basa sulla convinzione di poter perseguire “il contrario di una rivoluzione” (p.16) e di poter quindi risalire a ritroso la corrente dell’evoluzione e della storia: in una parola, del tempo.
“Il tempo delle civiltà tradizionali – scrive a questo preciso proposito – non è un tempo “storico” (…) L’esperienza tradizionale del tempo era di tipo affatto diverso. Il tempo in essa non è una quantità, ma una qualità; non serie, ma ritmo. Non scorre uniformemente e indefinitamente, ma si frattura in cicli, in periodi, ciascun momento dei quali ha un significato, epperò un suo valore specifico rispetto a tutti gli altri, una viva individualità e funzionalità” (pp.67-68).
Qui Evola non si avvede, però, che il tempo, come non si presta a essere ridotto allo spazio e alla quantità (e a essere perciò reso discreto o discontinuo), così neppure si presta a essere assorbito dalla qualità. Esso è deputato infatti a mediare, quale movimento (sensibile-sovrasensibile), tra la sfera superiore (a-temporale e a-spaziale) della qualità o dell’essenza e quella inferiore dello spazio. In sé, d’altro canto, un ritmo, un periodo o un ciclo non tanto è “tempo”, quanto piuttosto è “legge” che, del tempo appunto, governa e scandisce lo svolgimento. Ciò vuol dire quindi che si tratta di una forza che appartiene a un regno superiore a quello del tempo e che, proprio per questo, riesce a conferire a quest’ultimo “qualità” o “significato”. In termini antroposofici, la sfera del tempo è infatti quella “eterica” (che media tra quella “fisica” e quella “astrale”), mentre la sfera delle forze che lo governano è quella “astrale” (che media tra quella “eterica” e quella “spirituale” dell’Io).
Il richiamo di Evola al modo in cui il tempo era sperimentato dalle civiltà “tradizionali” (il “grande anno” caldeo e ellenico, – esemplifica – il saeculum etrusco-latino, l’eone iranico, i “soli” aztechi, i kalpa indù, e così via), altro non testimonia, in realtà, che di una fase evolutiva in cui l’esperienza umana del tempo (e, a maggior ragione, dello spazio) non si era ancora resa indipendente da quella della qualità: di una fase, ovvero, in cui l’esistenza (spazio-temporale) non si era ancora resa indipendente dall’essere. Ma l’esperienza moderna è quella di una umanità ormai “caduta” (“apprezzata” dalla sinistra e “disprezzata” dalla destra) che, in quanto tale, può solamente coltivare la speranza di risollevarsi o di risorgere (nonostante la scarsa “compassione” dello spiritualismo di destra e la falsa “compassione” del materialismo di sinistra che tenderebbe a fissarla – per dirla con Nietzsche – all’”umano, troppo umano”). Per realizzare questa speranza non basta però alludere genericamente – come fa George Simmel – a una “vita-più-che-vita” o – come fa Evola – a una “supervita” o al satori dello Zen (p.24), bensì occorre risalire, gradualmente, lucidamente e volitivamente, dall’attuale coscienza dello spazio (“rappresentativa”) a quella del tempo (“immaginativa”), da quella del tempo a quella della qualità (“ispirativa”), e da quella della qualità a quella dello spirito o dell’Io inabitato dal Logos (“intuitiva”).
Scrive al riguardo Borghi: “Quello che la Tradizione persiste a trasmettere è la presenza di quelle idee viventi nel mondo già compresa da Platone, e della quale ancora un’eco mormora nella filosofia hegeliana. Riconnettersi a una tale forza vivente, in siffatte “idee”, è l’operazione preliminare da porre in atto, poiché con esse non si ha più un pensiero “irreale” che si esprime in un ulteriore astratto rappresentare, ma un pensare che non evade da sé, che si congiunge con la forza che lo genera, capace di un conoscere che, insieme con il dato sensibile, accoglie il contenuto interiore. Il mondo, allora, per l’uomo non è più solo rappresentazione, ma è da lui conosciuto, in quanto visto direttamente” (p.16). Siamo convinti anche noi, in effetti, che il “riconnettersi a una tale forza vivente, in siffatte “idee”, sia “l’operazione preliminare da porre in atto”, ma, proprio per questo, non ci si può limitare allora a recepire quanto trasmesso dalla Tradizione, bensì occorre conquistarsi una scienza dello spirito che sia in grado tanto di dar conto del perché l’antica “connessione” sia andata perduta quanto di proporre un “metodo” atto a ricostituirla in forma nuova. “L’antroposofia – dice per l’appunto Steiner – è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” (Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.15).
Parliamoci chiaro: se anzitutto non s’impara, muovendo dall’ordinario pensiero rappresentativo, a conoscere e sperimentare – come indicato da Steiner – la forza vivente del pensare (eterica), allora, tanto quella luminosa delle idee (astrale) quanto quella dell’Io (spirituale), è possibile soltanto sognarle (e, sognandole, mitizzarle). Ove poi rammentassimo che proprio il nostro tempo – a detta sempre di Steiner – è quello della manifestazione del Cristo sul piano eterico, potremmo ben capire il perché Evola, e tutti coloro che più o meno ortodossamente a lui si rifanno, non riescano a comprendere l’Entità solare del Figlio di Dio. Mentre i materialisti, infatti, non la comprendono perché non si sollevano dal piano (arimanico) della realtà sensibile, gli spiritualisti non la comprendono perché si portano, sì, sul piano della realtà sovrasensibile (o dell’idea), ma saltano quello della realtà sensibile-sovrasensibile (o del pensare) ch’è appunto quello eterico. La realtà sovrasensibile cui pervengono in virtù di questa hybris non è perciò che una realtà luciferica. Non per nulla, i Rosacroce affermano: “Christus verus Lucifer“. Affermazione che, tradotta in linguaggio evoliano, potrebbe suonare così: “Cristo è il vero Individuo assoluto“.
Dice Borghi che l’uomo, in virtù di un pensare non più astratto, potrebbe conoscere il mondo, in quanto lo “vedrebbe direttamente”. Ma è forse una “visione” del genere che fa dire ad Evola – come abbiamo visto – che “dov’è “lavoro” non v’è spirito” e che “dove v’è spirito non v’è lavoro“? E’ vero, piuttosto, ch’è proprio da una cotale “visione diretta” che sono scaturiti i lavori di Steiner e quelli, in particolare, sulla cosiddetta “questione sociale” (cfr. soprattutto: I punti essenziali della questione sociale – Antroposofica, Milano 1980; I capisaldi dell’economia – Antroposofica, Milano 1982; Seminario di economia – Antroposofica, Milano 1982).
Ha indubbiamente ragione Evola nell’affermare che “oggi si può parlare senz’altro di una demonìa dell’economia” (p.32): è proprio ciò ch’è stato usurpato che occorre però strappare dalle grinfie del “demònio” e restituire all’uomo (così come Parsifal strappa dalle grinfie di Klingsor la “sacra lancia” e la restituisce alla sede del Graal). Ciò significa, dunque, che il lavoro non deve affatto – come dice Evola – tornare ai “servi”, bensì all’uomo: ovvero, che il lavoro e l’economia devono essere umanizzati. E’ quindi ozioso, se non fuorviante, andare a rispolverare l’antico significato di termini quali Labor (p.39) od Otium (p.40), se non si sa concretamente immaginare un’antropocrazia che rimetta davvero nelle mani dell’uomo la vita culturale, la vita giuridica e quella economica.
Modernità e tradizione
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