“Togliete i nasi – ha detto una volta Galilei – e spariranno anche gli odori”. Quel che ha omesso di dire, però, è che, togliendo gli odori, sparirebbero anche i nasi (parafrasando Goethe, potremmo dire infatti che i nasi si formano agli odori per gli odori). Ci è tornata alla mente questa affermazione di Galilei leggendo il sottotitolo, Come la materia diventa immaginazione, che Gerald M. Edelman e Giulio Tononi hanno apposto al loro libro Un universo di coscienza (Einaudi, Torino 2000). Orbene, immaginando che tale sottotitolo suonasse invece “come il ghiaccio diventa acqua” o “come l’acqua diventa aria”, apparirebbe allora chiaro che una soddisfacente spiegazione del fenomeno dovrebbe comportare anche quella del “come l’aria diventa acqua” o del “come l’acqua diventa ghiaccio”. Anche la spiegazione del “come la materia diventa immaginazione” dovrebbe perciò comportare quella del “come l’immaginazione diventa materia”. “Se però le filosofie idealiste – dicono gli autori – prendono la mente come punto di partenza, devono darsi la pena di spiegare la materia, e non è detto sia un’incombenza più agevole che partire dalla pura materia e di qui derivare la mente” (p.6). Essi dunque conoscono le “filosofie idealiste”, ma non conoscono la scienza dello spirito e quindi ignorano che nell’opera di Rudolf Steiner viene appunto “sbrigata” tale disagevole “incombenza”. Ciò che c’interessa qui discutere, comunque, è quanto Edelman e Tononi affermano nella loro prefazione: “La coscienza ha qualcosa di speciale: l’esperienza cosciente è il risultato dell’attività di ogni cervello, e non ne possiamo condividere l’osservazione diretta, come accade invece per gli oggetti studiati dal fisico. Studiare la coscienza ci pone dunque dinanzi a un curioso dilemma: l’introspezione da sola non è soddisfacente in un senso scientifico, e i resoconti che le persone ci forniscono sulla propria coscienza, pur essendo utili, non ci possono rivelare i meccanismi cerebrali che la fondano. Del resto, gli studi sul cervello vero e proprio non possono in sé trasmettere che cosa si provi a essere cosciente. Sono limiti, questi, che suggeriscono la necessità di adottare un’impostazione speciale affinché la coscienza sia accolta nella sfera della scienza” (p.IX).
L’esperienza cosciente – a detta degli autori – sarebbe dunque prodotta dall’attività del cervello (quale funzione), e non dal “cervello vero e proprio” (quale organo). Gli stessi fanno però notare che il secondo lo si può osservare in modo diretto, mentre la prima la si può osservare solo in modo indiretto, grazie all’attività dei “meccanismi cerebrali” (cioè, ai suoi effetti). Ma se s’impostano così le cose (se si distingue, ossia, tra l’organo sensibile e la funzione extrasensibile), quale prova si ha allora che tale attività, pur svolgendosi nel cervello, appartenga al cervello? Quale prova si ha, vale a dire, che siano i meccanismi cerebrali a “fondare” la coscienza? O che l’esperienza cosciente sia il “risultato” dell’attività del cervello? “Spesso si sente ora dire – osserva in proposito Steiner – che il materialismo del secolo decimonono è scientificamente superato. Ma in verità non lo è affatto. Soltanto, al giorno d’oggi, assai spesso non ci si accorge che non abbiamo altre idee all’infuori di quelle con le quali ci si può accostare soltanto a quanto è materiale. Così si occulta attualmente il materialismo, mentre nella seconda metà del secolo decimonono si palesava apertamente” (La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p.154).
Edelman e Tononi, infatti, nonostante vogliano distinguere la loro posizione da quella dei materialisti (“è difficile immaginarsi – scrivono ad esempio – che il mondo dell’esperienza soggettiva – la visione del blu e la sensazione del calore – scaturisca da eventi fisici puri e semplici”) (pp.3-4), pur di non ipotizzare che l’attività del cervello e dei suoi meccanismi sia il prodotto o il risultato dell’attività della coscienza, preferiscono pensare che un cervello o un meccanismo cerebrale mosso stia a fondamento dell’attività che lo muove.
Si pensi, ad esempio, a un ciclista: non è forse la sua attività (la sua volontà) a produrre il movimento dei pedali? Cosa diremmo quindi di qualcuno che affermasse: “Un tempo, si credeva, ingenuamente, che fossero le ruote a muovere la bicicletta; poi si è invece scoperto, non solo che una sola delle due ruote è motrice, ma che il movimento non le appartiene poiché le viene trasmesso, mediante degli ingranaggi, dalla catena; oggi, però, si è finalmente scoperto che questo stesso movimento non appartiene nemmeno alla catena, in quanto è prodotto (o causato) dai pedali”.
Se si distingue, dunque (come fanno Edelman e Tononi), il cervello (fisico) dall’attività cerebrale (eterica), e l’attività cerebrale dalla coscienza (astrale), tutto il problema sta allora nel porre in modo corretto le relazioni tra questi tre livelli di realtà.
A tal fine – essi però sostengono – “l’introspezione da sola non è soddisfacente in un senso scientifico”, e rammentano che “la tradizione introspezionista di Tichener e di Kulpe era in psicologia il contraltare delle posizioni idealistiche o fenomenologiche in filosofia: si propose infatti di descrivere la coscienza guardandola esclusivamente dall’interno, di qui il termine introspezione” (p.9). Ma cosa vuol dire “guardare esclusivamente dall’interno”? Può essere interessante notare, al riguardo, che, nei Dizionari, l’”introversione” ha il suo complemento nell’”estroversione”, mentre l’”introspezione” non ha il suo complemento nell’”estrospezione”. Non si usa infatti distinguere un oggetto interno (frutto di “introspezione”) da un oggetto esterno (frutto di “estrospezione”), bensì si usa considerare “oggetto” solamente quello “esterno”. Il termine “oggetto” deriva infatti da obiectu (m) e significa “cosa gettata contro” o “posta innanzi”. Non avvertiamo dunque il bisogno di ricorrere a un termine quale “estrospezione” in quanto diamo per scontato che possa darsi come “oggetto” soltanto ciò che appartiene al mondo e che ci si oppone (quale non-io). In altre parole, è “oggetto”, per noi, soltanto ciò con cui non ci identifichiamo o da cui ci disidentifichiamo. Come stanno allora le cose, per quanto riguarda la coscienza? Chi è infatti, in questo caso, che dovrebbe guardarla dall’interno e osservarla come un “oggetto”? E’ evidente che solo l’Io (lo spirito) potrebbe fare una cosa del genere. Per farla, però, dovrebbe cessare d’identificarsi con l’anima (e quindi con i pensieri, i sentimenti e gli impulsi della volontà). Qui, infatti, delle due, l’una: o l’Io impara a disidentificarsi dall’anima (cominciando, ovviamente, a disidentificarsi dai pensieri) e a osservarla perciò dall’”esterno” (o dall’”alto”); o continua a identificarvisi, ma allora, non dandosi una compiuta oggettivazione dell’anima stessa, non può nemmeno darsi un’osservazione “soddisfacente in un senso scientifico”.
Hanno dunque ragione Edelman e Tononi a giudicare l’ordinaria “introspezione” (psichica o soggettiva) insoddisfacente “in un senso scientifico”, ma hanno torto nel non considerare la possibilità che ha l’Io, apprendendo a disidentificarsi dagli “oggetti interni”, di acquisire la capacità di una “introspezione” oggettiva. Non si dovrebbe dimenticare, infatti, che l’Io in tanto riesce a conoscere “scientificamente” l’oggetto esterno (sensibile) in quanto ne prende spontaneamente o naturalmente distanza, e che, se non gli riesce di fare altrettanto con quello interno (extrasensibile), è proprio per il fatto che non ha ancora imparato volitivamente o spiritualmente a separarsene. Questa – come si vede – è però faccenda che riguarda, non l’oggetto osservato, bensì l’osservazione e il soggetto che la attua.
Il vero problema, dunque, riguarda quanto si presta a essere osservato mediante i sensi (fisici), e quanto no. Ed è indubbio che tanto la coscienza quanto l’”attività” del cervello (in sé) non sono affatto osservabili mediante i sensi (fisici). Si prenda, ad esempio, un concetto. Esso si dà “dentro” di noi ed è inosservabile mediante i sensi (fisici). Ma per quale ragione dovremmo allora giudicarlo “soggettivo” e quindi insoddisfacente “in un senso scientifico”? Per quale ragione, ossia, dovremmo giudicare così l’oggetto osservato e non l’osservazione o l’osservatore (che sanno soltanto sperimentarlo in forma di rappresentazione)? E per quale ragione, soprattutto, dovremmo ritenere che una siffatta “introspezione” non possa essere educata e sviluppata tanto da consentire un’osservazione spirituale non meno oggettiva di quella consentita normalmente dai sensi (fisici)? Cosa diremmo appunto di un sordo che, giudicando “insoddisfacente in un senso scientifico” l’udito, si desse a indagare il mondo dei suoni indirettamente e con i soli sensi di cui dispone? E’ appunto per questo, tuttavia, che Edelman e Tononi avvertono – come abbiamo visto – la “necessità di adottare un’impostazione speciale affinché la coscienza sia accolta nella sfera della scienza”.
Ma c’è dell’altro. “Che cosa ci serve – scrive a tale preciso proposito Steiner – partire dalla coscienza e sottoporla all’analisi pensante, se prima nulla sappiamo attorno alla possibilità di ottenere una spiegazione delle cose per mezzo dell’analisi pensante?” (La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p.43). In effetti, come tra la coscienza e il cervello s’inserisce l’attività (si badi: non del cervello, ma svolgentesi nel cervello), così tra la coscienza e il cervello s’inserisce il pensare. “Alla vera attività pensante, alla “percezione” del pensiero – precisa infatti Steiner – precede un “lavoro del pensiero” tale da smuovere nel profondo del cervello – se per esempio volete percepire il pensiero “leone” – le parti di quest’ultimo in modo che queste divengano “specchi” per la percezione del pensiero “leone”. E chi fa del cervello specchio, siete voi stessi (…) Siete voi stessi, con la vostra attività animica, che portate il cervello ad avere struttura e capacità atta a voler rispecchiare come “pensiero” ciò che voi pensate. Se volete risalire all’attività che sta a base del pensiero, essa è l’attività che dall’anima fa presa sul cervello e si esplica nel cervello” (Il pensiero cosmico – Basaia, Roma 1985, pp.82-83).
Qual è dunque la conclusione? Quella di sempre, purtroppo. Edelman e Tononi infatti, anziché “adottare un’impostazione speciale” (quale quella rappresentata, ad esempio, dall’esercizio interiore della “concentrazione” o della “meditazione”) atta a sviluppare la facoltà di oggettivare e osservare (dal punto di vista dell’Io o dello spirito) l’anima (e quindi – ripetiamo – i pensieri, i sentimenti e gli impulsi della volontà), si sforzano invece di adottarla su un piano meramente teorico o astratto (“noi abbiamo sposato – dichiarano appunto – una tesi metafisica ed epistemologica, che abbiamo definito rispettivamente realismo condizionato ed epistemologia a fondamento biologico”) (p.260), sperando così, pur rimanendo ancorati all’intelletto (vincolato ai sensi fisici), di riuscire a dipanare quello che Schopenhauer – secondo quanto riferiscono – ha definito il “nodo cosmico” (ovvero: “Come può l’esperienza soggettiva essere correlata a eventi descrivibili oggettivamente?”) (p.4).
“Come possiamo – si domandano ad esempio – comprendere i differenti stati soggettivi – i cosiddetti qualia – in termini neuronali?”. Ma come possiamo – vorremmo domandare a nostra volta – comprendere dei qualia, in termini di quanti, o degli oggetti extrasensibili in termini sensibili?
“Ci auspichiamo – così si conclude la loro prefazione – che i lettori, terminato il viaggio attraverso il testo, si troveranno arricchiti di una nuova teoria che spieghi come la materia diventa immaginazione”. Ci sono ben poche speranze, tuttavia, che il lettore venga “arricchito” da un testo nel quale il ruolo spirituale del soggetto (o dell’Io) viene assegnato a un “nucleo dinamico”, ovverosia a “un processo integrato che ha origine in gran parte nel sistema talamocorticale” (p.212); nel quale si considera la coscienza “in quanto processo fisico” (“la nostra pretesa – è detto infatti – è che possiamo afferrare le basi materiali della mente al punto da raggiungere una conoscenza soddisfacente delle origini delle cose elevate, come il mondo della mente”) (p.265); e nel quale dunque – secondo quanto abbiamo detto all’inizio – non si ha il coraggio d’immaginare “come l’immaginazione diventa materia”.