Scienziaggini

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Sul Corriere della Sera (24 aprile 2001) Adriano Prosperi segnala la pubblicazione, nella collana di studi e testi del Warburg Institute di Londra, di una “dotta indagine filologica” di Dag Nikolaus Hasse, dal titolo: Avicenna’s “De anima” in the latin West. “Riflettendo sulla nozione di “persona” nella tradizione occidentale – ricorda – e sulle ragioni e i passaggi che ne hanno mutato il significato antico di “maschera” in quello odierno, l’antropologo francese Marcel Mauss riconobbe a merito del cristianesimo l’aver imposto come dottrina di verità la fede nell’esistenza di un’anima individuale e immortale. Questo, secondo lui, fu il contributo dato all’affermazione del moderno concetto di persona: e prese forma con la celebre bolla papale con la quale il Concilio Lateranense V il 19 dicembre 1513 vietò ai filosofi di insegnare la dottrina della mortalità dell’anima individuale”. Un punto importante che emerge da tale indagine – osserva inoltre Prosperi – “riguarda proprio la capacità della psicologia di Avicenna di presentarsi con argomenti convincenti sul terreno della conoscenza: e l’argomento principale gli fu offerto dalle scoperte degli anatomisti della scuola di Alessandria a proposito dei nervi come veicoli della facoltà del tatto. Era un progresso rispetto alle teorie di Aristotele e portava a spostare la localizzazione dell’anima dal cuore al cervello”.
Il titolo del suo Elzeviro suona infatti: “Anima mia che sei nel cervello”.
In verità, fu Tommaso d’Aquino a condurre, sulla questione dell’immortalità dell’anima individuale, una strenua battaglia ideale contro la filosofia araba e a preparare così l’avvento, più che del “moderno concetto di persona”, dell’”anima cosciente”: ovvero, della coscienza dell’Io o dell’individualismo. In ogni caso, chi conosce la scienza dello spirito, e in specie quanto dice Rudolf Steiner dei rapporti tra la moderna scienza materialistica e il pensiero arabo, non si stupirà granché del fatto che gli odierni “cefalocentristi” vadano a ripescare o a rispolverare le dottrine di Avicenna o Averroè.
Ma veniamo a noi. Il Sole 24ore, nel suo supplemento domenicale, ospita talvolta una rubrìchina intitolata: “Scienziaggini”. Ebbene, quando si dà notizia, sulla stampa, di alcuni dei risultati conseguiti dalle attuali neuroscienze, anziché parlare, come talvolta facciamo, di “superstizione materialistica” o di “monoideismo” neurologico”, potremmo anche parlare in effetti di “scienziaggini”.
“La fede? Abita nel nostro cervello”, titola ad esempio Il Messaggero (1 maggio 2001). “Credere – scrive Stefano Trincia – è una questione di fede. O meglio di nervi, secondo la scienza psico-neurologica americana partita alla ricerca di un controverso quanto clamoroso Sacro Graal: la natura fisiologica, biologica, addirittura genetica della spiritualità e della religione. Lo racconta con dovizia di particolari scientifici e un imponente apparato letterario il settimanale Newsweek che dedica la copertina del suo ultimo numero al tema “Religion and The Brain” (…) “L’epifania religiosa, la sensazione di improvvisa, avvolgente comunione con una realtà al di fuori dei nostri sensi non è la prova necessaria dell’esistenza di Dio ma sicuramente dell’esistenza del nostro cervello”, sostiene il neurologo inglese James Austin, grande esperto di Zen e pioniere di una nuova disciplina scientifica opportunamente battezzata “neuroteologia”. Nel 1998 un suo libro, Zen and the brain pubblicato dal prestigioso Massachusetts Institute of Technology, ha posto le basi della “neurobiologia della religione e della spiritualità”. Un campo di ricerca di comprensibile fascino che ha portato all’inaugurazione alla Columbia University di New York di un nuovo Centro per lo studio della Scienza e della religione ed alla pubblicazione imminente di una serie di ricerche sul tema compiute all’Università della Pennsylvania ed al Wheaton College in Massachusetts”. Due – prosegue Trincia – le conclusioni preliminari cui sarebbero giunti gli studiosi: 1) “Le esperienze spirituali ricorrono con tale frequenza in ogni tipo di cultura e di fede che “alla loro origine ci sono evidentemente strutture e processi del cervello umano” (grazie “all’uso dello Spect, un’apparecchiatura molto sofisticata per la tomografia computerizzata delle emissioni di fotoni” pare sia stato infatti possibile “individuare le zone della corteccia cerebrale che ospitano i “circuiti spirituali”. E la prima sembra risiedere nella corteccia prefrontale che governa i processi dell’attenzione e dell’orientamento spaziale”); 2) “Il fenomeno delle visioni mistiche, delle “voci”, del contatto spirituale con l’aldilà potrebbe essere invece attribuito a mini tempeste elettriche scatenate da fattori vari – ansietà, epilessia, affaticamento, mancanza di zuccheri nel sangue – nei lobi temporali”.
Ebbene, questi ricercatori potrebbero avere in parte ragione. E’ un vero peccato, tuttavia, che qualsiasi esperienza sia prodotta dal cervello, o – come viene precisato – dalla “corteccia prefrontale” o da “mini tempeste elettriche” nei “lobi temporali”, non abbia nulla a che fare con una vera esperienza spirituale (mentre è possibile che abbia a che fare con ogni forma di illusione, di fantasticheria, di delirio e di allucinazione “mistica” o “spiritualistica”). Tali ricerche non sono dunque molto serie per il fatto che coloro che le conducono si ripropongono di scoprire le cause di realtà (o di effetti) che presumono di conoscere, ma non conoscono. E’ come se qualcuno, tanto per fare un esempio, avendo scoperto delle sorgenti, sostenesse di aver individuato, con ciò, le “zone” della crosta terrestre che “ospitano” il vino e non l’acqua. Non dubitiamo quindi che lo “Spect” sia un’”apparecchiatura molto sofisticata”, ma dubitiamo del livello di coscienza e di pensiero di coloro che se ne servono.
“Capisco – scrive a quest’ultimo proposito Galimberti – che gli scienziati non sono molto raffinati nell’uso delle parole filosofiche, ma dire che il nostro Io non è qualcosa determinato da noi bensì un processo anatomico del cervello significa negare quell’evidenza che è l’uso quotidiano della nostra libertà”. Galimberti si riferisce qui a un altro articolo (firmato da Claudia Di Giorgio), pubblicato da La Repubblica (9 maggio 2001), intitolato: “L’Io è una sfera di neuroni nascosta dietro l’occhio destro”, e sottotitolato: “Scienziati Usa scoprono il luogo dell’identità nel cervello. “Un gruppo di ricercatori californiani – vi si legge – avrebbe identificato l’area del cervello che controlla il nostro senso del sé, una zona fisicamente ben delineata, dove sono racchiuse le impalpabili componenti che costituiscono l’identità di ciascuno di noi. Secondo Bruce L.Miller, neurologo dell’università di San Francisco, la “sede del sé” è il lobo frontale destro, un’area della corteccia cerebrale grande grosso modo quanto una palla da biliardo, collocata appena sopra l’occhio destro”.
Sostiene dunque Galimberti che “gli scienziati non sono molto raffinati nell’uso delle parole filosofiche”. Qui non si tratta, tuttavia, di “parole filosofiche”, bensì di concetti e d’idee nell’uso dei quali lo stesso Galimberti non si dimostra, in questa occasione, granché “raffinato”. Parla, ad esempio, di un “processo anatomico del cervello”, benché un “processo” riguardi sempre la fisiologia, e non l’anatomia. Ma c’è di più. “Il nostro Io” – scrive – è un “qualcosa determinato da noi”. Già, ma qual è allora quel soggetto che “determina” l’Io? Una cosa, infatti, è dire (come fa la scienza dello spirito) che l’Io, “specchiandosi” nel cervello, determina quella prima e riflessa coscienza di sé (o autocoscienza) che va sotto il nome di “ego”, altra è dire, in modo del tutto generico, che l’Io è “determinato da noi”. “Spero – scrive inoltre Galimberti – che gli scienziati, nel loro furore deterministico, non ci tolgano la differenza che ancora sembra distinguere l’uomo dall’animale, una differenza che non è da ricercare tanto nelle regioni dello spirito, quanto nell’imprecisione della materia, nella scarsa codificazione istintuale dell’uomo…”. Secondo Galimberti, la differenza tra l’uomo e l’animale non risiederebbe dunque nello spirito (nell’Io), bensì in un difetto della “materia”. A suo dire, infatti, la “materia” dell’animale sarebbe “precisa” e quella dell’uomo “imprecisa”, così come la “codificazione istintuale” del primo sarebbe “piena” e quella del secondo “scarsa”. La sua speranza è dunque che gli scienziati, “nel loro furore deterministico”, non gli tolgano lo statuto di minus habens
Lo stesso, in tutti i modi, così conclude la sua nota: “Non per disperazione, infatti, ma per celebrare la libertà umana Nietzsche poteva dire:”Dammi ti prego una maschera, e un’altra maschera ancora”. In questo modo Nietzsche definiva la nostra identità come disponibilità, più o meno sciolta, a indossare maschere, per essere più armonici con le situazioni più diversificate della vita”.
Galimberti, quindi, come non ci ha spiegato prima chi sia quel soggetto che “determina l’Io”, non ci spiega adesso chi sia quel soggetto più o meno disponibile “a indossare maschere”. Si è mai vista infatti una “maschera” che non sia indossata da qualcuno (proprio per celare, oltretutto, la propria identità)? Ma questo – come insegna la scienza dello spirito – è il problema del rapporto tra l’Io e il “corpo astrale”: ovvero, tra il soggetto e le diverse “maschere psichiche” (o “immagini archetipiche”) che può appunto indossare per manifestarsi ed entrare in rapporto col mondo.
Anche in questo caso, dobbiamo dunque far valere la medesima obiezione mossa alla “neuroteologia”. Là si trattava del problema di Dio, qua si tratta di quello dell’Io: in entrambi i casi, quindi, di problemi relativi a delle realtà extrasensibili. Orbene, una delle condizioni necessarie per una corretta applicazione del nesso di “causa-effetto” è che tanto la prima che il secondo costituiscano dei dati percepibili mediante i sensi (fisici). Quando osserviamo, ad esempio, un metallo che reagisce all’aumento della temperatura dilatandosi, ecco appunto che abbiamo, nell’aumento della temperatura, la “causa” e, nella dilatazione del metallo, l’”effetto”. L’una è dunque sensibilmente percepibile quanto l’altro. Nel caso di Dio e dell’Io, tale condizione viene però meno. E’ possibile infatti percepire sensibilmente quanto avviene nel cervello, ma non si possono percepire allo stesso modo né Dio né l’Io. Ciononostante, si presume di poter indicare nei fenomeni che si danno nella prima sfera la causa di quelli che si danno nella seconda. Si presume, cioè, di poter stabilire un nesso di causa-effetto, non tra due dati conosciuti (come, ad esempio, il lampo e il tuono), ma tra un dato conosciuto e uno sconosciuto. Se già non è facile, tuttavia, stabilire un nesso del genere tra due dati conosciuti, si può ben immaginare cosa possa accadere quando ci si azzardi a stabilirlo tra un dato conosciuto (in quanto percepito e pensato) e uno sconosciuto (in quanto pensato, ma non percepito).
Si è liberissimi certamente di farlo, ma non ci si adombri poi se qualcuno, delle conclusioni cui si perviene procedendo in questo modo, parli appunto – come stiamo facendo noi – di vere e proprie “scienziaggini”.

P.S.

Abbiamo avuto occasione di dare un’occhiata al numero del settimanale Newsweek cui si riferisce l’articolo di Stefano Trincia intitolato: “La fede? Abita nel nostro cervello”. Ebbene, non solo vi compare un articolo (firmato da Kenneth L. Woodward) che reca questo sottotitolo: “The problem with neurotheology is that it confuses spirituale experiences – which few believers actually have – with religion” (“Il problema della neuroteologia è che essa confonde le esperienze spirituali – che sono davvero in pochi a fare – con la religione”), ma lo stesso articolo principale, intitolato “Faith and the brain” (e firmato da Sharon Begley), si conclude con le seguenti parole: “The question of whether our brain wiring creates God or whether God created our brain wiring will most remain purely a matter of faith” (“Se siano i nostri circuiti cerebrali a creare Dio o se sia stato Dio a creare i nostri circuiti cerebrali resterà in primo luogo una questione di fede”). Per quale ragione, dunque, Stefano Trincia è stato – come si suol dire – “più realista del re”?

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Di Francesco Giorgi
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