I cittadini globali

I

L’Unità (8 luglio 2001) ospita un lungo articolo di Grazia Francescato sull’imminente G8. L’autrice comincia col rievocare qualche personale ricordo della manifestazione di Seattle del novembre del 1999, passa poi brevemente in rassegna il variegato “arcipelago dei manifestanti” (i metalmeccanici del sindacato americano AFL-CIO, gli ambientalisti del Sierra club, i metodisti, i tibetani in esilio, le femministe storiche e gli agricoltori francesi “capitanati dal mitico José Bové”), poi ancora sottolinea che “per la prima volta nella storia dell’umanità, una mobilitazione planetaria era nata e cresciuta su Internet”, e in ultimo scrive: “In sintesi quel che emergeva forte da Seattle era una richiesta unanime, sostenuta da una profonda spinta etica, di non essere confinati nel ruolo di “consumatori globali”, passivamente alla mercé del mercato, e la volontà netta di essere innanzitutto “global citizens”, cittadini globali. Non a caso, i due slogan più gettonati dai manifestanti erano “la vita non è una merce” e “il mondo non è in vendita”.
>Ma chi è un “cittadino globale”? “Chi si preoccupa – spiega la Francescato – del destino delle balene ma anche di quello dei lavoratori; chi soffre per gli oppressi del Tibet ma anche per le foreste devastate; chi difende la biodiversità degli ecosistemi ma anche la varietà delle diverse culture minacciate dall’omologazione”.
Ma una persona così, per la verità, più che “cittadino globale”, è un individuo morale. In una sana articolazione dell’organismo sociale, gli uomini dovrebbero essere infatti riguardati come individui sul piano culturale o spirituale, come cittadini su quello politico o istituzionale, e come lavoratori (in senso lato) su quello economico, in quanto il primo di questi tre piani si fonda appunto sull’individualità, il secondo sulla particolarità (etnica o nazionale) e il terzo sull’universalità (sulla “mondializzazione” o “globalizzazione”).
“Solo una situazione di bilanciamento – osserva Renato Cristin – consente alla pluralità di conservarsi, mantenendosi viva e attiva. Questo equilibrio è il fondamento di una prassi pluralistica e, quindi, liberale. Infatti, se non si riesce a far interagire in una dialettica positiva gli elementi di questa pluralità, si precipita nella pura frammentazione oppure nella violenza totalitaria, e quindi nell’impossibilità di trovare una razionalità intersoggettivamente costituita, che produca decisioni pluralistiche” (La rinascita dell’Europa – Donzelli, Roma 2001, p.21). Questo passo si riferisce al problema dei rapporti tra le nazioni nell’ambito dell’unificazione europea (così com’è stato visto, in particolare, da Husserl), ma può anche valere per quello dei rapporti tra le sfere in cui dovrebbe triarticolarsi – secondo l’indicazione di Steiner – l’organismo sociale.
“Il tema chiave – conclude comunque la Francescato – è come introdurre nel mercato globale regole certe a difesa dell’ambiente, dei diritti umani e civili e dei lavoratori e come creare alleanze e organizzare il consenso politico e sociale necessari a costruire questo nuovo modello di società (…) Proprio perché carsico e caratterizzato da tante anime, il movimento offre una gamma di approcci differenziati rispetto al tema centrale, ovvero come dare l’assalto al disegno neoliberista mondiale. Un ventaglio di posizioni riconducibili sostanzialmente a due filoni: quello hard che vede nella globalizzazione (e dunque negli organismi o nei vertici internazionali che ne sono portatori) il nemico da abbattere, qualche volta con accenti emotivi e demonizzanti. L’approccio soft, invece, tende a introdurre nel mercato globale correttivi e meccanismi in grado di dare adeguata tutela ad ambiente, diritti umani e civili, ai lavoratori. Due approcci che spesso si integrano, si sovrappongono, scorrono paralleli”.
Pensiamo anche noi che il movimento di Seattle sia sostenuto da “una profonda spinta etica”, ma siamo pure convinti che la vera natura di tale spinta risieda ancora nell’inconscio. “Una profonda spinta etica” altro non è, infatti, che un’idea vivente (o un ideale) che preme appunto dal profondo per essere riconosciuta dal pensiero, animata dal sentimento e attuata dalla volontà. Ebbene, il popolo di Seattle ha forse riconosciuto (cioè, portato a coscienza) l’ideale che lo anima? Non sembra proprio. La stessa Francescato ci parla infatti di un “ventaglio di posizioni” o (diciamo noi) di “opinioni” che non solo hanno ben poco a che vedere con l’impulso originario (o con l’ispirazione originaria), ma che, in specie nel caso dei filoni che la Francescato definisce hard, addirittura lo stravolgono. Scrive a questo proposito Steiner: “Sono le ispirazioni che vogliono presentarsi agli uomini per la buona volontà del mondo spirituale, che però sono odiate dagli uomini stessi, e che di conseguenza si trasformano in selvaggi istinti animaleschi. Se infatti l’uomo non permette che si mostrino le ispirazioni che gli si vogliono avvicinare dal mondo spirituale, allora esse si trasformano in emozioni selvagge, in impulsi animaleschi (Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici – Antroposofica, Milano 1974, p.160).
Una cosa, dunque, è l’ispirazione che giunge all’uomo, nel profondo, dal mondo spirituale (la “spinta etica” originaria), altra la rappresentazione ch’egli coscientemente se ne fa. Ed è facile immaginare, in tempi in cui il conscio è in tutto e per tutto ( a destra, al centro e a sinistra) condizionato dal materialismo (soft o hard), a quante e quali deformazioni possa andare incontro l’idea vivente originaria. E’ proprio così, del resto, che in nome della libertà o della democrazia si realizza la tirannia, che in quello della pace si realizza la guerra, o che in nome dell’amore si realizza l’odio. Si rifletta: nel corso del Novecento, non è stata appunto l’inconscia “spinta etica” del socialismo a essere attuata in modo cosciente ma deforme dal comunismo, dal nazional-socialismo e dal fascismo? “La validità storica del Fascismo – scrive infatti Bottai – risiedeva, per l’appunto, in ciò: nell’opporre a un socialismo germogliato da una filosofia materialistica, un socialismo scaturito da una filosofia spiritualistica” (Vent’anni e un giorno – Garzanti, Milano 1977, pp.53-54).
Il problema, tuttavia, non è quello di opporre a una “filosofia materialistica” una “filosofia spiritualistica”, bensì quello, ben più impegnativo, di sviluppare un livello di coscienza atto a portare amorevolmente incontro alle forze (alle “spinte”) che sorgono dal profondo (dall’inconscio) le forme (di pensiero) di cui necessitano per sprigionare il loro contenuto o la loro sostanza morale.
Guarda caso, nella stessa pagina in cui appare l’articolo della Francescato, ne appare anche uno di Ivan Della Mea (titolato: Siamo tutti di Seattle) che esemplifica, come meglio non si potrebbe, tutta la differenza che vi è tra la natura di ciò che si muove nel profondo (nell’inconscio o nell’anima) e ciò che si agita invece alla superficie (nel conscio o nell’intelletto). Riferendosi a un articolo di Piero Sansonetti, apparso alcuni giorni prima su l’Unità e relativo al “seminario precongressuale” dei Ds di Arezzo (intitolato: Ds, voglia di litigare e di vivere), Della Mea scrive infatti: “L’articolo di Sansonetti rende i sentimenti, le picche e le ripicche, il diffuso antiverticismo tra i compagni pari soltanto alla comune voglia di partecipazione alla cosa del partito, a questa cosa che è o che dovrebbe essere il partito, e che è esattamente la cosa che mi manca, la possibilità vera, fisica, di essere comunista come mi picco d’essere, con tutti i compagni della sinistra emersa sommersa avversa conversa diversa diffusa effusa confusa e anche soffusa e shaffusa, quelli del rock e del jazz e quelli del gioco del tappo, quelli intelligentissimi e che non sbagliano i congiuntivi e quelli fermi ancora al togliattismo di “nella misura in cui” per non dire del pueblo mas universal di quelli del “cioè” e del “vorrei dire””.
Ebbene, lo stesso Della Mea cui “manca – come abbiamo appena visto – la possibilità vera, fisica, di essere comunista” poco dopo così se ne esce: “Quelli di Seattle non sono un partito, sa solo iddio che cosa sono, ma sappiamo tutti che sono nel senso che hanno scelto l’essere contro l’avere“.
Benissimo, ma perché Della Mea non si accontenta allora di essere comunista e si duole di non avere un partito? Non sarà forse che anche chi sceglie l’essere non riesce poi a rappresentarselo che nella forma dell’avere (ossia, in veste “vera, fisica”)? E’ vero, per carità, che molti borghesi credono di essere perché hanno, ma non meno è vero che molti “compagni” credono di non essere perché non hanno.
E poi, pensa forse Della Mea che l’attuale sinistra, così priva d’idee e pasticciata come ce la presenta, sia in grado di spiegare, magari con l’ausilio del “rock”, del “jazz” o del “gioco del tappo”, come l’essere si sia sepolto nella tomba dell’avere e come, soprattutto, possa risorgerne?
Intendiamoci, non stiamo qui proponendo nulla di “mistico”, in quanto il mistico crede di essere perché non ha. Ciò che urge, in realtà, è un rinnovamento del pensiero e della coscienza, poiché è soltanto da un rinnovamento dell’essere che potrà davvero scaturirne uno dell’esistere.

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Di Francesco Giorgi
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