Scienza e moralità

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Scrive Stefano Zecchi: “Cade la prima proibizione, quella della clonazione animale: il ministro della Sanità non ne rinnoverà il divieto. A questo punto non ci resta che attendere il giorno in cui cadrà il divieto della clonazione umana. I governanti di tutti i paesi del mondo, i responsabili di tutte le commissioni di bioetica della terra e di tutte le organizzazioni politiche dichiarano solennemente che mai si potrà consentire di procedere nella clonazione dell’uomo. Ma, queste, sono professioni di fede malinconicamente patetiche: il cammino della scienza è inarrestabile (volendo, si può anche aggiungere: purtroppo) e nessuna imposizione politica o religiosa potrà arrestarlo. Se nella mente dello scienziato c’è soltanto l’idea della possibilità della clonazione, significa che questa verrà realizzata. La scienza non è arte, non è l’arte che vive di sogni, di visioni del mondo da rappresentare, che vive di amore per i significati profondi e inespressi dell’esistenza. La scienza è potenza, è un dispositivo che l’uomo ha costruito per impadronirsi della realtà, per trasformarla e ricrearla. Dominare il mondo, forzare i suoi limiti estremi, sostituirsi a Dio: questo ha nell’animo il vero scienziato, anche se non avrà mai il coraggio di ammetterlo pubblicamente. Lo scienziato, cioè il ricercatore autentico, determinato e totalmente coinvolto dal suo lavoro, è una figura “immorale”, anche se si affannerà a cercare per la sua rispettabilità mille compromessi con la moralità esistente, che è ciò che regola in modo convenzionale le nostre relazioni quotidiane. Ma lo scienziato non può accettare le convenzioni: per definizione, deve metterle alla prova e oltrepassarle” (il Giornale, 28 ottobre 2001).
Bene, proviamo a discutere in breve queste affermazioni. “Il cammino della scienza – dice Zecchi – è inarrestabile”. D’accordo, ma una cosa è il “cammino” della scienza (il suo movimento), altra la “direzione” da esso intrapresa. “Arrestare” un Tizio, ad esempio, che, partendo da Roma e dicendo di voler andare a Milano, si dirigesse verso Napoli, non significherebbe impedirgli di muoversi, ma soltanto correggere l’orientamento o la direzione del suo movimento.
Dice Zecchi: “Se nella mente dello scienziato c’è soltanto l’idea della possibilità della clonazione…”. Già, ma appunto questo è il problema: perché “nella mente dello scienziato c’è soltanto” quest’idea? Perché, ossia, non gli viene in mente nient’altro e sa soltanto procedere in questa direzione?
Dice Zecchi che “la scienza non è arte, non è l’arte che vive di sogni, di visioni del mondo da rappresentare, che vive di amore per i significati profondi e inespressi dell’esistenza”. Ma per quale ragione la scienza non potrebbe essere “arte” e l’arte “scienza” (come auspicava Goethe)? Per quale ragione, cioè, la prima dovrebbe vivere unicamente di realtà (sensibile) e la seconda unicamente di sogni? E poi, fino a che punto è vero questo? Non “vive” forse, la scienza attuale, del “sogno” della clonazione (animale e umana), di una “visione del mondo” materialistica e dell’”amore” per tutto ciò che, nell’”esistenza”, è privo di “significati profondi e inespressi”?
Fatto si è che la scienza – come non ci stancheremo mai di ripetere – dovrebbe essere una nello spirito, ma molteplice nel modo di affrontare (pensare) i diversi piani in cui si articola la realtà. E non vi è nulla di meno scientifico dell’affrontare (pensare) le realtà della vita, dell’anima e dello spirito nello stesso modo in cui si affronta (pensa) la realtà inorganica. Questo modo di procedere, infatti, è “scientistico” e non “scientifico”. Ammonisce al riguardo il Vangelo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che avete preso le chiavi della scienza e non ve ne servite che per chiudere agli uomini il Regno dei cieli. Voi non vi entrate, e impedite agli altri di entrarvi”.
Non si verrà fuori dal problema, dunque, fintantoché si continuerà a identificare l’attuale rappresentazione materialistica della scienza (la scienza che esiste) con il suo concetto (con la scienza che è).
Dice Zecchi: “La scienza è potenza, è un dispositivo che l’uomo ha costruito per impadronirsi della realtà, per trasformarla e ricrearla”. Ma, grazie alla scienza, è riuscito forse all’uomo (in quanto parte non secondaria della “realtà”) di impadronirsi di sé stesso, per trasformarsi e ricrearsi? No, non gli è riuscito. E dov’è allora la “potenza”? E gli è riuscito almeno di capire in qual modo, o in virtù di quali forze, gli sia stato concesso di “costruire” un “dispositivo” del genere (che – lo si tenga sempre presente – gli permette di “impadronirsi”, “trasformare” e “ricreare” la sola realtà inorganica)? No, non gli è riuscito.
Dice Zecchi che il vero scienziato (“anche se non avrà mai il coraggio di ammetterlo pubblicamente”) “ha nell’anima” di “dominare il mondo, forzare i suoi limiti estremi, sostituirsi a Dio”. Ma come si possono avere “nell’anima” simili obiettivi se non si è ancora capaci di dominare sé stessi, di forzare i propri limiti estremi (ovvero, quanto ribolle nell’”uomo del sottosuolo”) e di sostituirsi, in qualità di Io (di “Uomo”), non a Dio, ma a quell’ego che non è, per lo più, che un burattino nelle mani delle simpatie e antipatie o degli istinti (in una parola – stando a Freud – dell’Es)? E come si può avanzare poi la pretesa di “sostituirsi a Dio”, ovvero a Colui dal quale discende il creato, quando di questo si sa soltanto pensare ciò ch’è morto?
Dice Cinzia Caporale (coordinatrice dell’Osservatorio sulla bioetica della Fondazione Einaudi): “Lo scienziato è animato da spirito di conoscenza, e questo è un fatto etico in sé” (il Venerdì di Repubblica, 2 novembre 2001). Magari fosse vero! In questo caso, infatti, non si avrebbe più bisogno di “osservatori” o “comitati” bioetici poiché si sarebbe realizzato che l’immoralità è già nella menzogna. Purtroppo, però, proprio quegli scienziati che – a detta della Caporale – sarebbero animati da spirito di conoscenza, sono i primi a disconoscere tanto la realtà dell’anima quanto quella dello spirito, e a riconoscere la sola realtà del corpo (e, in particolare, del cervello). Quale spirito dunque li anima (o, meglio, “disanima”) per spingerli a operare un simile disconoscimento? E non è proprio grazie a questo disconoscimento che tale spirito può continuare ad agire nell’incoscienza, cosicché gli scienziati nulla sappiano della vera forza che li ispira?
Zecchi definisce la figura dello scienziato “immorale”. Il problema non riguarda tuttavia lo “scienziato”, bensì la “scienza materialistica”. Una cosa, infatti – come spesso diciamo – è la “scienza della materia”, ovvero – secondo quanto osserva Zichichi – di quella materia “volgare” o di quelle “pietre” nelle quali Galilei “si era impegnato a scoprire le prime impronte del Creatore” (Galilei divin uomo – il Saggiatore, Milano 2001, p.33), altra quella scienza materialistica che s’impegna, in nome della “materia volgare” o delle “pietre”, a negare il “Creatore”. Solo quest’ultima può essere giudicata quindi “immorale”: frutto – vale a dire – della ispirazione di quella stessa forza spirituale cui si deve la menzogna. Tale scienza, infatti, in tanto è immorale in quanto non è scientifica, e in tanto non è scientifica in quanto è immorale..
Una simile “scienza” può essere dunque trasformata, rinnovata e rimessa al servizio dell’uomo, non dalla politica, dall’arte o dalla religione, bensì dalla scienza stessa: da una scienza, però, che, essendo davvero animata da “spirito di conoscenza”, cioè da Spirito di verità, sia libera (da qualsivoglia pregiudizio) e per ciò stesso capace tanto di amare ciò che conosce quanto di conoscere ciò che ama.
Scrive al riguardo Steiner: “Bisogna avere il coraggio di ammettere tutto ciò di fronte alla scienza naturale contemporanea, nonostante le poderose ammirabili conquiste ch’essa ha da registrare nel campo della tecnica. Poiché tali conquiste non hanno nulla a che fare con un vero bisogno di conoscenza della natura. Abbiamo dovuto constatare, appunto a proposito dei nostri contemporanei, ai quali andiamo debitori di scoperte la cui importanza per l’avvenire non è ancora nemmeno lontanamente valutabile, come siano mancanti di un’esigenza scientifica più profonda. Altro è osservare i processi della natura per porre le loro forze al servizio della tecnica, altro è cercare, con l’aiuto di tali processi, di guardare più addentro nell’essenza della scienza naturale. Scienza vera è soltanto là dove lo spirito cerca appagamento dei suoi propri bisogni, senza scopi esteriori (Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, pp188-189).
Come si vede, qui Steiner distingue la pura “conoscenza della natura” (ispirata appunto dallo Spirito di verità e tesa ad appagare i bisogni dello spirito) da quella che mira, a fini anzitutto pratici, al suo sfruttamento (e quindi all’appagamento dei bisogni del corpo o, tutt’al più, della psiche). Una cosa, infatti, è lo spirito conoscitivo, altra lo spirito utilitaristico. Dice in proposito il Vangelo: “Cercate il regno di Dio, e il resto vi sarà dato in aggiunta”. Ebbene, la differenza tra lo spirito conoscitivo e quello utilitaristico consiste appunto nel fatto che il primo mira in primo luogo alla scienza, avendo “in aggiunta” i vantaggi pratici (la tecnica), mentre il secondo mira in primo luogo ai vantaggi pratici (alla tecnica), avendo “in aggiunta” la scienza: senza granché preoccuparsi perciò, pur di godere dei primi, della verità della seconda. Non tutti, oggi, riescono a rendersi conto di questa differenza. Prendiamo, ad esempio, il problema della “quadratura del cerchio”. “Il nocciolo del problema – scrive Zichichi – è l’impossibilità di conoscere il rapporto tra la lunghezza della circonferenza di un cerchio e il suo diametro. E’ questa la radice del problema insolubile della “quadratura” del cerchio”; e spiega (in nota): “Sebbene questo rapporto sia lo stesso per qualsiasi cerchio, nessuno saprà mai calcolarlo. Questo rapporto è il famoso numero pi-greco. La certezza di non poter mai risolvere la trasformazione di un cerchio in un quadrato doveva aspettare l’anno 1882. Fu infatti in questo anno che il matematico Ferdinand von Lindemann (1852-1939) demolì tutte le speranze di “quadratura del cerchio” dimostrando che pi-greco è un “irrazionale trascendente”: un numero senza fine, senza alcuna regolarità e senza che vi sia soluzione di alcuna equazione (algebrica)”.
Lo stesso Zichichi ricorda, tuttavia, che il problema “è perfettamente solubile se si tratta di un quadrato e di un cerchio reali, fatti di cose tangibili, che possono benissimo essere trasformati da cerchi a quadrati e viceversa” (Ibid. p.72). Si tratta dunque di un problema che, per l’intelletto (ossia, per la coscienza “materiale” od “oggettiva” di Steiner), è insolubile sul piano ideale o conoscitivo, ma solubile su quello reale o pratico. Fin qui poco male. Cosa accade però? Accade che, fieri dei vantaggi procurati dalla soluzione reale o pratica, si arriva a spacciare l’approssimazione per la verità, o a teorizzare che ci si deve accontentare della prima poiché la seconda è (e sempre sarà) irraggiungibile dalla coscienza umana (e non quindi dal solo intelletto).
Hans Vaihinger (1852-1933) – come si sa – ha scritto La filosofia del come se (Die Philosophie des Als Ob). Ebbene, la scienza attuale, allorché cessa di occuparsi delle “pietre” galileiane per darsi a investigare la vita, l’anima e lo spirito, si trasforma proprio in una scienza del “come se”: in una scienza, ossia, che parla appunto della vita, dell’anima e dello spirito “come se” fossero “corpo” (o, per dirla con Zichichi, “cose tangibili”).
Ma parlare di tali realtà extrasensibili “come se” fossero sensibili, significa parlare di una approssimazione “come se” fosse verità, e quindi, in definitiva, mentire. E’ dunque nel momento in cui si dimentica, si tace o si “istituzionalizza” (gnoseologicamente) l’approssimazione che le vie della scienza e quelle della morale si allontanano l’una dall’altra.
Tanto per fare un ultimo (e radicale) esempio, si provi a pensare a un uomo che ne renda “schiavo” un altro. Quale reale interesse avrà il primo a conoscere veramente il secondo? A riconoscerlo cioè come un “uomo” e quindi come un suo simile? Nessuno. Non solo, ma è lecito perfino immaginare che tale riconoscimento gl’incuta paura poiché rischierebbe di fargli perdere tutti quei vantaggi pratici che gli arreca il fatto di considerarlo soltanto uno “schiavo”.
Orbene, gran parte dell’umanità, fortunatamente, sente oggi immorale, e quindi giuridicamente inaccettabile, che l’uomo sia “schiavo” di un altro uomo, ma non è ancora arrivata, sfortunatamente, a sentire immorale, e quindi scientificamente inaccettabile, che la natura (vivente, animata e spirituale) sia “schiava” dell’uomo (intellettuale).

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Di Francesco Giorgi
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