Il movimento e il suo carattere di continuità

I

L’intelletto umano riscontra notevoli difficoltà nel comprendere quel fenomeno che va sotto il nome di movimento.
Possiamo sicuramente affermare che l’uomo sa del movimento attraverso l’osservazione di un oggetto durante il suo cambiamento di posizione. Il problema è comprendere l’essenza di tale movimento. Se osserviamo la nostra mano mentre si sposta da un punto A ad un punto B, noteremo certamente che il suo movimento ha come caratteristica fondamentale la continuità: andando da A a B senza dubbio passerà per tutti i punti intermedi e lo farà in maniera continua: cioè senza saltare nessuna posizione. Immaginiamo tale percorso come un segmento che ha gli estremi in A e in B. Se, partendo da A, la nostra mano deve raggiungere B, in un certo istante precedente quello in cui raggiungerà B, dovrà necessariamente passare per la metà di tale segmento, e prima di passare per la metà, dovrà passare per la metà della metà. Proseguiamo con questo ragionamento per un numero enorme di volte, numero enorme, ma non infinito (tale concetto infatti non ci è ancora noto).
Così facendo otterremo un numero grandissimo di posizioni intermedie. Due successivi punti intermedi possono chiaramente essere pensati come gli estremi di un segmento che a differenza di quello originario è solo più piccolo. In questo modo quindi il nostro intelletto non sta facendo alcun passo avanti verso la comprensione di questa misteriosa continuità
Proviamo ora a fare un salto concettuale: immaginiamo di dividere il nostro segmento iniziale un numero infinito di volte, cioè un numero di volte più grande di qualsiasi altro. Immediatamente, grazie a una pura intuizione, riusciamo a far scomparire i segmenti e a trasformarli in punti. Ecco che il nostro segmento si è trasformato in un insieme infinito di punti, ed ecco svelato, apparentemente, l’arcano: la continuità che si manifesta alla percezione quando osserviamo ciò che noi chiamiamo movimento consiste in una sequenza di infiniti punti. Questo significa che la continuità non è altro che un insieme di oggetti discreti (i punti), ma in numero infinito. Tornando al movimento, diremmo che esso consiste in una infinità di stati di quiete (abolendo così il movimento stesso!). In realtà, per considerare la questione effettivamente risolta, resta ancora da comprendere e giustificare il salto concettuale che abbiamo fatto: qui si annida il vero problema.
Facciamoci ora la seguente domanda: è lecita l’ovvietà con cui si passa dall’effettuare un’azione un numero finito di volte all’effettuarla un numero infinito? La risposta è negativa. Non si può infatti considerare ovvio introdurre un concetto, quello di infinito, che non appartiene al mondo dei fenomeni. In realtà tutta l’analisi matematica che ci permette di affrontare il problema della continuità presuppone l’utilizzo di questo concetto, sebbene, per la nostra mente, tale concetto sia assolutamente sfuggente. In proposito vediamo cosa dice Hegel: “L’infinito matematico riesce interessante da un lato a cagione dell’ampliamento da lui portato nella matematica e dei grandi risultati dovuti alla sua introduzione in essa; dall’altro lato poi è degno di nota per ciò che a questa scienza non è peranco riuscito di addurre, dell’uso che ne fa, alcuna vera giustificazione basata sul concetto” (Hegel: “Scienza della Logica”, Laterza , Roma-Bari, 1988, pp. 264-265).
Cosa significa fare qualcosa un numero infinito di volte? Ad una analisi superficiale significa semplicemente fare qualcosa un enorme numero di volte, ma se proviamo a riflettere attentamente risulta addirittura paradossale il voler contare un numero infinito. Dire infatti “numero infinito” è una contraddizione. Un numero è per definizione un ente ben definito anche quando è molto grande. L’infinito, al contrario, non è assolutamente definito. Anche in questo caso le parole di Hegel possono fare chiarezza: “una grandezza viene definita in matematica come qualcosa che può essere aumentato e diminuito, epperò in generale come un limite indifferente. Ora in quanto l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo è tale che non può essere più aumentato o diminuito, nel fatto esso non è più un quanto come tale” (Hegel: “Scienza della Logica”, Laterza , Roma-Bari, 1988, pp. 264-265).
Sembra quindi che la comprensione della continuità sia da ricondurre alla comprensione del concetto di infinito: concetto che però sfugge ad ogni nostra analisi. Possiamo ipotizzare che le cose stiano nel seguente modo: abbiamo definito il movimento come il cambiamento di posizione di un qualsiasi oggetto e, in tale senso, esso appartiene al mondo dei fenomeni. La comprensione però del sua carattere di continuità si sottrae al nostro intelletto il quale, facendo appello ad un concetto puramente ideale, tenta di afferrarlo tramite una pura ed immediata intuizione. Ma ora chiediamoci: quale è il nesso tra continuità ed infinito? Perché quell’immediata intuizione va incontro a questo concetto anziché ad un altro, quasi fosse spinta da una innata necessità? Rudolf Steiner ci spiega che la coscienza dell’uomo moderno è una coscienza puramente spaziale. Questo significa che siamo coscienti solo in rapporto al mondo fisico-spaziale. In esso infatti gli oggetti ci si presentano separati e finiti, come se l’unità del mondo fosse in realtà un insieme di parti sconnesse. Tale rappresentazione ci porta ad un rapporto col mondo di tipo esclusivamente quantitativo: se la realtà è un insieme di oggetti l’unica cosa che posso fare è contarli. Se le cose stessero effettivamente così, il nostro ragionamento sarebbe corretto, ma non ci verrebbe incontro alcuna intuizione di qualcosa che è profondamente diverso, addirittura opposto, all’idea di separazione: la continuità. In sostanza contare la continuità è un errore concettuale. La continuità è, in quanto tale, non quantizzabile. Contare all’infinito significa semplicemente non contare. Insomma la continuità si offre a noi come carattere fondamentale del movimento, ma la sua essenza, per essere compresa, richiede qualcosa che non appartiene a questo mondo. Potremmo dire che l’essenza della continuità è la sua non finitezza, la sua inseparabilità, l’impossibilità di essere spazializzata. Accade così che il nostro intelletto, intuitivamente coglie l’essenza della continuità appellandosi al concetto di infinito, ma in maniera goffa: infatti, si potrebbe dire che invece di rendere continuo il suo pensiero (la sua coscienza) per cogliere la continuità nella sua realtà, trascina verso il basso quest’ultima per renderla simile al suo pensiero discontinuo, e poterla così contare.
Possiamo riportare un ulteriore esempio per chiarificare l’argomento. Immaginiamo una curva che unisce i punti A e B. Chiedendo sempre al nostro intelletto di spiegarci cosa sia una curva, ci verrebbe detto che possiamo immaginare tale curva come una linea spezzata i cui elementi (segmenti) sono infinitamente piccoli. Rappresentiamoci cioè la curva come una linea spezzata, ed immaginiamo di rimpicciolire sempre di più i segmenti che la costituiscono. Nel limite in cui rendiamo “infinitamente piccoli” tali segmenti, riotteniamo la linea curva come un insieme di punti. Anche in questo caso però, la curva in questione non è in realtà il limite della linea spezzata per segmenti sempre più piccoli, ma è una realtà diversa. In sostanza, se vogliamo comprendere la continuità ed i fenomeni ad essa strettamente connessi, come il movimento, dobbiamo necessariamente smettere di contare. Contando infatti non abbiamo più a che fare con la realtà che si manifesta di fronte a noi, ma con un’ombra di essa. Siamo in un certo senso noi che dobbiamo renderci simili alla realtà che osserviamo e non viceversa.
Immaginare quindi che il movimento sia una infinita successione di stati di quiete impedisce in maniera assoluta di poter pensare il passaggio tra due successivi stati di quiete: di fatto diventa paradossale pensare due cose come successive (quindi separate!) in quanto si possono contare. Come abbiamo visto però, nel momento in cui introduciamo il concetto di infinito, contare diventa un assurdo e il movimento scompare. Le possibilità che si prospettano sono quindi due: contare e “non muoverci” seguendo quello che suggerirebbe il solo intelletto separandoci così in maniera definitiva dalla realtà, oppure smettere di contare e sperimentare il movimento come un fatto reale.
Vediamo come la seconda possibilità ci porterebbe, osservando la realtà che ci circonda, ad una più completa comprensione delle cose. Osserviamo una pianta per un lungo periodo. Possiamo affermare che la pianta si muove poiché cresce e in questo modo modifica la sua posizione. Se seguissimo il nostro intelletto affidandoci alle sue sole forze diremmo che la pianta è l’insieme dei suoi diversi (infiniti) stati di quiete tra i quali possiamo considerare lo stato di seme, quello di bocciolo, quello di fiore e per finire quello di pianta morta. La pianta diventa così un accostamento di infinite immagini in se stesse statiche. In questo modo è evidente che si è eliminata l’unica vera realtà della pianta che è proprio il movimento. L’essenza del mondo vegetale è quindi ciò che si nasconde dietro le molteplici immagini statiche e che si muove attraverso di esse. E’ come se il movimento diventasse di fatto l’unico modo attraverso il quale il mondo vegetale si possa manifestare.
Qui non si discute l’enorme utilità dell’approccio noto a queste questioni. Nessuno può negare che l’utilizzo del concetto di infinito nella matematica e l’analisi che essa fa della continuità, siano strumenti utili e spesso necessari per innumerevoli applicazioni. Senza tale approccio quantitativo infatti non si sarebbe potuta sviluppare la meccanica classica e, di conseguenza, tutta la fisica moderna. Qui si discute dell’esigenza di comprendere il fenomeno nella sua essenza evitando di accontentarsi di spiegazioni, seppur utili e affascinanti, inadeguate al fenomeno in questione. La finitezza del pensiero utilizzato non si confà all’oggetto per sua natura caratterizzato dalla non finitezza. In sostanza l’introduzione di uno sfuggente concetto come quello di infinito ha permesso, dal punto di vista pratico, di risolvere un’enormità di questioni, ma ha gettato un ombra sui concetti per spiegare i quali era stato introdotto. In conclusione potremmo dire che le cose stanno nel seguente modo: il concetto di infinito utilizzato nella matematica permette di avvicinare l’oggetto studiato alle nostre capacità di comprensione mentre saremmo noi a dover ampliare le nostre capacità di comprensione per poter afferrare l’oggetto nella sua essenza. Resta oscuro il salto concettuale dal finito all’infinito perché resta oscuro il concetto stesso di infinito. Se vogliamo comprendere la continuità e il suo carattere di non finitezza, dobbiamo cominciare ad evolvere il nostro pensiero in modo tale che il suo orizzonte non sia più solamente quello degli oggetti separati e sconnessi, ma quello ben più ampio della relazione fra essi che, per sua natura, è continua e in movimento.

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Di Daniele Liberi
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