Concetto e numero

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Il Giornale (17 febbraio 2002) pubblica una lunga intervista a Bianca Casaroli, una signora di novant’anni che, dal 1930 al 1944, lavorò come baby-sitter in casa di Enrico Fermi. I suoi ricordi del celebre fisico e della sua famiglia sono affettuosi, commossi e, in qualche caso, anche curiosi. “Fermi – racconta ad esempio – aveva la mania di misurare tutto. E non solo in laboratorio. Per esempio, a mano a mano che arrivavano i regali di nozze, catalogava quelli d’argento per dimensioni e peso servendosi di calibro e bilancia”.
Di un fatto del genere si può senz’altro sorridere. Ove però si consideri che la “mania di misurare tutto” non ha afflitto solo Fermi, ma ha afflitto, e continua ad affliggere, l’intera scienza, si può essere anche indotti a una riflessione più seria.
Ad esempio, chiediamoci: “Cos’è la misura?”. “La Misura – risponde Hegel – è il quanto qualitativo (…) un Quanto cui è legato un Esserci, cioè una qualità” (Enciclopedia delle scienze filosofiche – Rusconi, Milano 1996, p.263). Una cosa sono dieci metri, altra dieci litri e altra ancora dieci quintali. I metri, i litri e i quintali sono appunto le “qualità del quanto”, mentre il dieci è il “quanto delle qualità”: ovvero – come spiega ancora Hegel – “una Quantità limitata” (ibid., p.257). E’ dunque il “quanto” a esprimersi mediante il “numero”.
Scrive a questo proposito Steiner: “Vi è nell’ambito del nostro sperimentare esteriore tutto un campo, per il quale il nominalismo – cioè la rappresentazione che ciò che raggruppa non è che un “nome” – ha piena giustificazione. Vi è “l’uno”, vi è il “due”, vi è il “tre, il “quattro”, il “cinque” e così di seguito; ma è impossibile per chi considera la cosa, di trovare nel termine “numero” alcunché di veramente esistente. Il “numero” non ha esistenza. Uno, due, tre, cinque, sei, ecc. questo ha esistenza (…) L’uno non può mai trasformarsi nel due, occorre sempre aggiungere un altro “uno”. Anche nel pensiero l’uno non si converte nel due, e neppure il due nel tre. Esistono soltanto singoli numeri, non esiste il numero universale. Per ciò che si trova nei numeri il nominalismo ha assolutamente ragione, per ciò che si trova così, come il singolo animale rispetto alla sua specie, il realismo ha assolutamente ragione” (Il pensiero cosmico – Basaia, Roma 1985, pp.32-33).
Esistono quindi i “singoli numeri”, ma non il “numero universale”: vale a dire, esiste il numero come “nome”, ma non come “concetto”. “Il Numero – osserva al riguardo Hegel – è pensiero, ma un pensiero il cui essere è perfettamente esteriore a se stesso” (op.cit., p.261). In quanto “pensiero perfettamente esteriore a se stesso” esso ha dunque, con il proprio essere (con l’essere del pensiero o del concetto), il medesimo rapporto che ha il cadavere con l’essere dell’uomo. Il “numero” è perciò il cadavere o la spoglia del concetto. E proprio questo suo legame con la morte spiega il perché si presti così bene a dar conto di tutto ciò che, nel reale, è privo di vita di anima e di spirito. Da questo punto di vista, la “mania di misurare tutto” (o l'”ossessione” del quanto) può essere considerata come conseguenza di un inconscio e indebito predominio, nell’anima, dello spirito della morte.
Non solo l'”uno”, ma anche tutti gli altri numeri esistono come “nomi”. Secondo quanto abbiamo visto, infatti, Steiner precisa che esistono, sì, il due, il tre, il quattro, il cinque, ecc., ma che questi nascono unicamente dal fatto che, all'”uno”, vengono aggiunti altri “uno”. Il dodici, tanto per fare un esempio, altro non è quindi che il “nome” dato a un “uno” cui sono stati aggiunti altri undici “uno”.
Ma se ciò è vero, esiste allora solo l'”uno”; e questo, più che un numero, è il numero. E’ impossibile – dice tuttavia Steiner – “trovare nel termine “numero” alcunché di veramente esistente”. Per intendere il vero senso di questa affermazione, sarà bene riformularla così: “E’ impossibile trovare nel termine “numero” alcunché di veramente universale”: ovvero, trovarvi alcunché del vero “concetto”.
Ma c’è di più. Se esistono – come dice Steiner – “soltanto singoli numeri”, e se questi non sono che “nomi” conferiti a una serie di “uno”, allora l'”uno”, vale a dire il numero, non solo è altro dall’universale, ma è proprio ciò che all’universale si oppone: vale a dire, il singolare. Scrive sempre Hegel: “Poiché gli Uno, cioè i numeri stessi, sono reciprocamente indifferenti, ecco che l’unità in cui essi vengono trasposti appare, in generale, come una combinazione esteriore” (op.cit., p.257). Il concetto rappresenta dunque una realtà in sè (o un essere-per-sé), mentre il numero rappresenta una realtà ex sé (o un essere-fuori-di sé).
A questo punto, chiediamoci: se l’universale si dà all’uomo nel modo del “concetto”, in qual modo gli si dà invece il singolare? Nel modo – possiamo subito rispondere – del “percetto”: ossia, del contenuto immediato (e quindi non-concettuale) della percezione.
“Il Sensibile – osserva appunto Hegel – viene innanzitutto spiegato in base alla sua origine esteriore, cioè in base ai sensi o agli organi di senso. Sennonché, la semplice denominazione dell’organo di senso non ci fornisce nessuna determinazione relativa a ciò che viene colto mediante tale organo. Ora, la differenza del Sensibile rispetto al pensiero è posta in base a quanto segue: La determinazione del Sensibile è la Singolarità…” (op.cit., p.133).
E Steiner ribadisce: “Ciò che costituisce la singolarità di un oggetto, non si può comprendere, ma solo percepire (…) Ciò che davvero distingue essenzialmente la percezione dall’idea, è appunto quest’elemento che non può esser messo in concetti ma dev’essere sperimentato” (Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.108).
E’ solo a causa della percezione, dunque, che il mondo ci si presenta quale “non-concettualità”, “singolarità”, “numero” o “uno”: in una parola, quale quantità. Dove non c’è concettualità non c’è infatti “qualità”, e dove non c’è qualità c’è appunto “quantità”.
Il concetto è quindi un “Uno-Tutto” o un “insieme pieno”, sempre sovraordinato agli elementi che ne sono parte, mentre il numero è un “uno-uno” o un “elemento vuoto”, sempre subordinato all’insieme di cui è parte.
In questo caso, il “vuoto” dell’elemento viene legittimamente colmato dallo spirito “sofianico” del concetto che lo comprende (“La Sofia – spiega Nina Kauchtschischwili – è un essere che fa da intermediario: è da una parte rivolta verso l’eternità e dall’altra verso il nostro mondo” – introduzione a Vladimir Sergeevic Solov’ev: La Sofia – SAN PAOLO, Milano 1997, p.8). Può accadere, tuttavia (com’è nel caso di ogni “atomismo”) che lo stesso venga illeggitimamente colmato dallo spirito “arimanico” del non-concetto che non comprende quello del concetto (e perciò lo avversa e lo nega).
Quello che appare come un “vuoto” è sempre dunque un “pieno”. E quando non è pieno della forza luminosa del concetto o della coscienza (ossia di amore), è pieno allora della forza tenebrosa del non-concetto o dell’incoscienza (ossia di odio).
Come la morte, infatti, non è una semplice assenza di vita, e come la tenebra non è una semplice assenza di luce, così il “vuoto” è un’attività, e non una passività.
Guarda caso, lo stesso quotidiano citato all’inizio pubblica un’altra intervista nella quale il noto astrofisico John Barrow, tra le altre cose, dice appunto: “Nella fisica classica si pensava che il vuoto non contenesse niente. Ma non è così: si tratta di un principio incerto. La fisica attuale descrive invece il vuoto come non esattamente…vuoto. Esso è il più basso livello di energia possibile (…) In pratica, un vuoto “pieno””.

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Di Francesco Giorgi
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