Il quinto Stato

I

Nella nota del 23 dicembre 2001, intitolata: “Dei “resistenti al male””, auspicando la fine del “culto (senziente) della piazza”, abbiamo scritto: “In “piazza” (…) non si pensa né si agisce, bensì si sogna, ci si agita e ci si dimena, facendo così il gioco delle forze che si vorrebbe contrastare”.
Ebbene, Maurizio Blondet, nel suo No Global: la formidabile ascesa dell’antagonismo anarchico (Ares, Milano 2002), dopo aver parlato delle gravi difficoltà che incontra l’opposizione ad alcuni degli aspetti più inquietanti (e meno noti) del processo di unificazione europea (che rischia, in sintonia con la globalizzazione, di rendere obsoleta – come dice George Ball – “la premessa liberale della separazione fra la sfera politica e quella economica” – p.156), così scrive: “C’è dunque un’opposizione civile che viene repressa come illecita e un antagonismo incivile che viene cooptato, riconosciuto come legittimo. Per gli stessi motivi che inducono il business del petrolio a preferire i fondamentalisti ai modernizzanti nell’Islam: scegliersi l’interlocutore più comodo è privilegio del potere assoluto” (p.29).
L'”antagonismo incivile” è – per Blondet – quello appunto dei “No Global”. Egli guarda infatti al fenomeno con l’occhio del tradizionalista (e del moralista) e ciò, se gli consente di metterne in luce certi aspetti, gliene nasconde però altri. “Traditio, – scrive ad esempio – ossia “consegna” alle giovani generazioni di ciò che avevano appreso (a loro spese, e spesso col loro sangue) le vecchie (…) Il nostro tempo ha tragicamente interrotto questo continuo, molecolare, quotidiano processo civilizzatore. E non per caso, ma per programma: la cultura corrente si vuole “progressista”, e perciò rifiuta di trasmettere la tradizione. Essere “progressista”, nella cultura corrente, significa deliberatamente questo: essere “trasgressiva” rispetto al patrimonio e alla saggezza del passato, spregiare la tradizione come un peso inutile nello slancio verso il futuro; e dissiparla totalmente” (pp.78-79).
Egli non considera, tuttavia, che il fisiologico rapporto del presente col futuro e col passato può essere alterato, e reso quindi patologico, sia nella direzione “progressista” sia in quella “tradizionalista”.
Dice infatti: “Ciò che esprime la T-shirt con la faccia del Che è la velleità di ribellione contro la realtà, la rivolta contro “lo stato di cose esistente”: che è insieme un impulso estetizzante e psicanalitico. Lo “stato di cose presente” diventa il bersaglio di chi è scontento di sé, e di chi si sente inadeguato” (p.77).
Ma per quale ragione tale “stato di cose” non potrebbe pure “diventare il bersaglio” di chi ne è umanamente “scontento”, e di chi lo sente umanamente “inadeguato”?
Fatto si è che il problema sta, non nell’accettare o non accettare “lo stato di cose esistente”, ma nello spirito (o nel grado di coscienza) col quale lo si affronta, al fine di trasformarlo e renderlo più consono alle esigenze umane. E se non è bene fare affidamento su chi non accetta lo “stato di cose presente” perché “è scontento di sé” o “si sente inadeguato”, non è neanche bene fare però affidamento su chi lo accetta perché “è contento di sé” o “si sente adeguato”. Sia l’uno che l’altro sono infatti animati, non dall’amore per il mondo, ma dall’amore di sé: ovvero, da un narcisismo o da un egoismo che spinge, il primo, ad avversare quanto proviene dal passato e, il secondo, quanto vorrebbe dirigersi verso il futuro.
E’ vero, comunque, che i “No Global”, già per il solo fatto di definirsi No Global (e non magari Si Global) appaiono animati da avversione, o da quello che Nietzsche definisce “risentimento”.
Il Manifesto – riferisce Blondet – pubblicava il 16 gennaio 1996 la seguente lettera: “Sono un venticinquenne privilegiato dell’hinterland milanese; ho potuto studiare, ho una famiglia mediamente benestante. Eppure il 10 settembre ero in piazza Cavour e quando (finalmente) è scoppiato l’odio, fazzoletto sul viso, ho caricato gli sbirri provando una gioia e un senso di liberazione mai provato prima”. Illuminato da questa “gioia di odiare” il giovane scrivente (…) teorizza un metodo per liberarsi dalla “rassegnazione collettiva” attraverso la manifestazione dell’odio. E lo affida ai Centri Sociali: “Vorrei che i Centri Sociali riuscissero a trasformare il nostro odio in forme permanenti di conflitto sociale”” (p.33).
Ma cosa ci si può attendere da quest’odio? Forse qualcosa di diverso da ciò che hanno prodotto, nel corso del Novecento, l’odio comunista per i capitalisti, quello fascista per i borghesi e quello nazista per gli ebrei?
Non ci si può fermare però a questo. “Nel 1993 – riferisce ancora Blondet – la ShaKe Edizioni Underground, editrice vicina al Centro Sociale Leoncavallo, pubblica T.A.Z, Zone Temporaneamente Autonome, Firmato “Hakim Bey” (pseudonimo dell’antropologo statunitense Peter Lamborn Wilson), questo saggio rappresenta per i Centri Sociali Occupati Autogestiti (CSOA) non solo quel che rappresentò il Libro Rosso di Mao per il movimento del ’68; esso addita i metodi e gli scopi della “rivoluzione ulteriore”, adatta al Quinto Stato, con la folgorante chiarezza di chi ne conosce la psicologia collettiva” (p.85) (per “Quinto Stato”, Blondet, sulle orme di Hermann Berl – autore appunto de L’avvento del Quinto stato – intende quello (dei “mendicanti, banditi e dementi”) (p.57) che segue al Primo Stato del clero, al Secondo dell’aristocrazia, al Terzo della borghesia e al Quarto del proletariato).
Non sappiamo, per la verità, se tale saggio rappresenti o meno, per i “Centri Sociali Occupati Autogestiti” e più in generale per i “No Global”, quel che rappresentò il Libro Rosso di Mao per il movimento del ’68. Ci colpisce comunque che il suo autore – stando sempre a quanto riporta Blondet – dica, tra l’altro, quanto segue: “Basta “continuare a sputare frasi fatte del XIX secolo a proposito di materialismo ateo (…) C’è bisogno di radicali che penetrino l’istituzione della religione stessa”; “l’anarchismo deve svezzarsi dal materialismo e dal banale scientismo del XIX secolo (…) L’oriente, l’occulto, le culture tribali possiedono tecniche che possono essere “appropriate” in maniera anarchica (…) Abbiamo bisogno di un tipo pratico di “misticismo anarchico”, privo di tutte le cazzate New Age e inesorabilmente eretico e anti-clericale, avido di ogni nuova tecnologia di coscienza e metanoia – una democratizzazione dello sciamanesimo, ebbra e serena; “il progetto iniziato dall’Individualismo può essere evoluto e ravvivato da un innesto con il misticismo – specificamente con il tantra (…) Questo ibrido è chiamato “materialismo spirituale”, un termine che brucia tutte le metafisiche nel fuoco dell’unità di spirito e materia”” (pp.97-98).
Ebbene, da queste parole emergono in modo quanto mai chiaro due cose: da un lato, il bisogno di un profondo rinnovamento spirituale; dall’altro, l’attitudine a concepirlo e realizzarlo in modo materiale.
Bey esorta infatti a “svezzarsi dal materialismo e dal banale scientismo del XIX secolo” (quasi che quello del XX fosse meno banale e limitante), ma lo fa, non in nome di uno “spiritualismo scientifico” (o, per meglio dire, di una “scienza dello spirito”), bensì in quello di un “materialismo spirituale”: esorta insomma a “svezzarsi”, non dal materialismo, ma dalla scienza.
In questo modo, però, si può soltanto regredire.
Proprio “il progetto iniziato dall’Individualismo” (dall’ego), ad esempio, può essere “evoluto” e “ravvivato” dall'”individualismo etico” di Rudolf Steiner (cfr. La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966), ma non di certo dall'”oriente”, dalle “culture tribali”, dal “misticismo”, dallo “sciamanesimo” (seppure “democratizzato”) o dal “tantra”, né, tantomeno, da “ogni nuova tecnologia di coscienza e metanoia”.
“Molta gente – leggiamo in un articolo di Torazine 23, citato da Blondet – si chiede perché deve trascorrere la maggior parte del suo tempo a fare c. faticose come studiare e lavorare, e ne ha così poco a disposizione per fare cose divertenti come (…) schiantarsi con la macchina sull’autostrada, perforarsi il corpo, inciderlo, assumere droghe, masturbarsi, entrare nei negozi e prendere ciò di cui si ha bisogno e al limite andare al cinema gratis. O in modo più esteso, chi ha deciso che l’essere debba essere ostacolato dal dover essere? La risposta è che un complotto internazionale, chiamato Senso Comune, ha deciso che le cose divertenti della vita appaiano alle menti della gente subalterne a quelle orrende e, qualora s’impongano, agenti biochimici intervengano a bloccarle” (p.116).
Orbene, ammesso pure che sia stato il “Senso Comune” a decidere “che l’essere debba essere ostacolato dal dover essere”, chi è stato però a decidere che l’essere significhi lo “schiantarsi con la macchina sull’autostrada, perforarsi il corpo, inciderlo, assumere droghe, masturbarsi, entrare nei negozi e prendere ciò di cui si ha bisogno e al limite andare al cinema gratis”?
Si dovrebbe avere il coraggio di riconoscere, in realtà, che tanto i rappresentanti della cultura ufficiale (materialistico-scientifica) quanto quelli della cultura antagonista (materialistico-spirituale) non hanno la benché minima cognizione dell’essere: vale a dire, dell’Io o dello spirito. I primi lo identificano infatti con l’ego e con lo “stato delle cose presente” che gli corrisponde e lo esprime, mentre i secondi lo identificano con tutto ciò che, risalendo dal “sottosuolo” della natura personale, dall’inconscio o dall’Es, avversa l’ego e tende a distruggerlo.
Questa convinzione dei secondi non fa però che rafforzare quella dei primi. Chi mai si convincerà, infatti, che, per “essere”, occorre abbandonare l’ottusa ed egoistica esistenza dell’ego, e andarsi a “divertire” schiantandosi “con la macchina sull’autostrada”? Chi mai si convincerà, ossia, che, per “essere”, bisogna “divertirsi” a morire? E’ pur vero che l’uomo spirituale nasce dalla morte e dalla resurrezione di quello naturale, ma è poco probabile che un evento del genere abbia qualcosa a che fare con tale “schianto”. Quest’ultimo, a ben vedere, non è anzi che la materialistica (e tragica) “contro-immagine” del primo: ovvero, il patologico risultato dell’interpretazione e realizzazione materiale di un compito spirituale.
Riferisce ancora Blondet che, in un articolo intitolato: 666 Satan calls Trepan, apparso su Torazine 3000, viene addirittura propugnata l'”auto-trapanazione del cranio”. “L’autotrapanazione – vi si dice – è una pratica che affonda le sue radici nell’antichità più remota; (essa produce) senso di liberazione, stadi di alto contatto con la spiritualità (…) liberazione dagli spiriti maligni” (pp.104-105). Ecco dunque un esempio di quel che può succedere ove si realizzi in modo materiale un compito spirituale. Una cosa, infatti, è aprirsi la mente o, per meglio dire, l’anima con nuovi e più profondi pensieri, altra aprirsi il cranio con un trapano.
“Sui muri delle nostre periferie – scrive sempre Blondet – è come se entità deboli e disperate, salite dal sottosuolo, gridassero “io ci sono”, “ci sono anch’io”, “io, io”: ma la loro disperazione è di non essere abbastanza “io” da poter dire di più. “Evocano un io che non esiste”, dice Enzensberger. I graffiti sono i segnali d’esistenza di esseri umani ridotti a larve. Un segno inequivocabile che il Quinto Stato risale dal buio storico e invade i luoghi della luce civile, dello spazio pubblico” (p.75).
Che dire, però, se tale “disperazione” non fosse solo quella di chi non è “abbastanza “io””, ma anche quella di chi presénte, seppure oscuramente, che proprio l’ego di coloro che vivono nei “luoghi della luce civile” e nello “spazio pubblico” non è “abbastanza “io””? Che non è ancora, ossia, un “io” pienamente umano?
Certo, un presentimento del genere, se lasciato nell’oscurità o nell’incoscienza, finisce fatalmente col corrompersi o degenerare. Scrive infatti Steiner: “Sono le ispirazioni che vogliono presentarsi agli uomini per la buona volontà del mondo spirituale, che però sono odiate dagli uomini stessi, e che di conseguenza si trasformano in selvaggi istinti animaleschi. Se infatti l’uomo non permette che si mostrino le ispirazioni che gli si vogliono avvicinare dal mondo spirituale, allora esse si trasformano in emozioni selvagge, in impulsi animaleschi” (Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici – Antroposofica, Milano 1974, p.160).
Ma quale coscienza, se non quella educata dalla scienza dello spirito, è oggi in grado di illuminare col pensiero, e quindi di riconoscere, la vera natura di quanto vive in modo sognante nel sentire e in modo dormiente nel volere? Di quanto, ossia, vive spiritualmente nell’inconscio e viene de-formato o falsato dal materialismo del conscio?
Se è davvero il “Quinto Stato”, d’altro canto, a sfidare, risalendo dal “buio storico”, l’ego (vale a dire, la coscienza intellettuale o corporea dell’Io), il solo modo di aiutare coloro che ne fanno parte (e noi stessi) è allora quello di portare loro incontro una cultura che dia modo all'”io incipiente” (p.45), crescendo e sviluppandosi, di varcare il limite “storico” e morale dell’ego: ovvero, il limite della coscienza borghese dell’Io (quella dell’habeo, ergo sum) e della vita sociale che le corrisponde.

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Di Francesco Giorgi
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