Liberalismo, liberismo e ideologie

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Presentando il libro di Giuseppe Bedeschi: La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico nell’Italia del Novecento (Laterza, Roma-Bari 2002), Francesco Perfetti così scrive: “Si tratta di un lavoro importante che colma una lacuna della storiografia e che, fin dalle prime pagine, offre una chiave di lettura tutt’altro che ideologica. Bedeschi sostiene, in sostanza, che la scarsa fortuna della democrazia liberale in Italia e il fatto che i suoi sostenitori e difensori abbiano costituito, sempre, una ridotta minoranza sono proprio il risultato del ruolo svolto dalle ideologie, di ogni colore, nella storia del pensiero politico italiano del Novecento. Le ideologie sono, in fondo, visioni elaborate della società e della storia che traducono in discorsi organici dei miti politici e hanno una dimensione escatologica, palingenetica o, se si preferisce, “rivoluzionaria” (e poco importa se di destra o di sinistra) capace di mobilitare gli animi, facendo appello al sentimento, e di trascinare le masse. La democrazia liberale, invece, è una costruzione razionale che si fonda “su un esame sobrio e realistico della società”, come osserva giustamente Bedeschi, e, quindi, per sua natura è non “rivoluzionaria”, ma “riformistica” fino al punto di fare “tutt’uno con l’ingegneria sociale (…) La prima guerra mondiale fu un evento epocale, uno spartiacque nel fiume della storia. Essa rese desuete le categorie politiche tradizionali e dette spazio a un nuovo modo di sentire e di vivere la politica. Trasformò, per così dire, la natura stessa della politica e dell’agire politico spostandoli dal terreno della “razionalità delle scelte” al piano dell’adesione sentimentale e fideistica a una religione laica. Fascismo e comunismo furono religioni laiche o “secolari” con i propri riti, i propri sacerdoti, e anche con la propria cultura” (Il Giornale, 18 giugno 2002).
E se fosse vero esattamente il contrario? Se fosse stata, cioè, non la forza delle ideologie a rendere debole il liberalismo, ma la debolezza del liberalismo a rendere forti le ideologie?
Che cosa intendiamo per “debolezza”? Il fatto che la “democrazia liberale” – come sostiene appunto Bedeschi – è una “costruzione razionale” che discende da un pensiero astratto. Scrive al riguardo Croce: “Sempre che si ode (e s’ode di frequente) tacciare la concezione liberale di “formalistica”, “vuota”, “scettica” e “agnostica”, conviene girare quest’accusa alla filosofia moderna che ne è toccata in modo più diretto e che cura di rispondervi con tutta sé stessa: la filosofia moderna che ha rinunziato alla pretesa di esser mai “definitiva”, e perciò a ogni dommatismo, appagandosi di essere, in cambio, perpetuamente viva e valida a porre e risolvere tutti i problemi che all’infinito si generano dalla vita, e a svolgere in perpetuo i dommi senza mai annullarli ma sempre approfondendoli e accrescendoli. La concezione liberale, come concezione storica della vita, è “formalistica”, “vuota”, “scettica” e “agnostica” al pari dell’etica moderna che rifiuta il primato a leggi e casistiche e tabelle di doveri e di virtù, e pone al suo centro la coscienza morale; al pari dell’estetica moderna, che rifiuta modelli, generi e regole, e pone al suo centro il genio che è gusto, delicato e severissimo insieme.” (Etica e politica – Laterza, Bari 1967, p.242).
Ben si vede, grazie a queste parole, come la concezione liberale sia preoccupata, non tanto di affermare un “contenuto” (o una “verità”), quanto piuttosto di negare tutti quelli che, in forma di dogma (sul piano noetico) e in quello di norma o di comandamento (sul piano etico), mostrino di ostacolare o limitare la libertà.
Quest’ultima è dunque una libertà “da” o una libertà “negativa”. Sarebbe però un errore sottovalutarne il ruolo storico (e “rivoluzionario”), poiché è appunto grazie a questo tipo di libertà (formale) che l’umanità moderna è riuscita ad affrancarsi, politicamente o giuridicamente, dalle teocrazie o dalle monarchie assolute. Nota appunto Croce: “E’ stato più volte e da varie parti osservato che l’idea disopra delineata della libertà, ossia la concezione liberale, è cosa affatto moderna, estranea al mondo antico e a quello medievale…” (Ibid., p.241).
Dovrebbe essere chiaro, tuttavia, che una libertà fondata sull’agnosticismo (sul pensiero “riflesso”), potendo consentire la nascita del moderno individualismo (dell'”anima cosciente”), ma non il suo sviluppo, avrebbe dovuto rivestire (storicamente) carattere provvisorio e non permanente. Per quale ragione, infatti, il rifiuto dell’imposizione della verità (quale “oggetto” o “pensato”) da parte dell’autorità dovrebbe comportare il rifiuto della verità (quale “soggetto” o “pensante)? “La verità – afferma il Vangelo – vi farà liberi”. Una cosa, dunque, è farsi liberi rivendicando il diritto (gnostico) di ricercare in modo autonomo la verità, altra è farsi liberi rinunciando agnosticamente o scetticamente alla stessa.
“Partendo dal 1845 – osserva in proposito Steiner – e aggiungendo 33 anni si arriva al 1878, e questo era all’incirca l’anno fino al quale fu lasciato tempo all’umanità per penetrare la realtà delle idee sbocciate nel decennio 1840-1850. Nell’evoluzione storica moderna è straordinariamente importante tener presente i tre o quattro decenni ricordati, perché proprio su di essi l’uomo odierno deve raggiungere la massima chiarezza, deve cioè divenire cosciente del fatto che tra il 1840 e il 1850 cominciarono a fluire nell’umanità le cosiddette idee liberali, e che all’umanità, per afferrarle e trasformarle in realtà, fu concesso tempo fin verso il 1880. La borghesia era la portatrice di queste idee, ma essa mancò l’occasione di realizzarle (…) Erano idee del tutto astratte, a volte puro involucro senza contenuto. Ma questo non avrebbe importanza perché nell’epoca dell’anima cosciente si dovette progredire mediante astrazioni e si dovettero formulare le idee-guida dell’umanità nella loro forma astratta (…) Non esiste maggior antitesi fra le idee magari astratte, ma pur luminose nella loro astrattezza, degli anni 1840-1848 e le altre idee che, nel secolo XIX e in tutto il mondo civile, sono state chiamate “alti ideali umani”, tali considerati fino ai nostri giorni (siamo nel 1918 – nda) e alla fine coinvolti nella catastrofe” (della prima guerra mondiale – ndaLo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, pp.87-88-89).
La borghesia ha perso dunque l'”occasione” di “afferrare” tali idee astratte e di “trasformarle in realtà”. Ma come si fa a trasformare delle idee “astratte” in idee “reali”? E’ presto detto: trasformando la coscienza delle idee e, in primo luogo, il pensiero che le pensa. Grazie allo studio e alla pratica interiore della scienza dello spirito, il pensare può essere infatti educato, rafforzato e ravvivato, fino al punto di metterlo in condizione di sperimentare e riconoscere le idee, non come mere “forme”, ma come entità dotate di “forma” e di “forza”: ossia, di vita, anima e spirito.
“Il vero – scrive ancora Croce – non è una merce, che passi di mano in mano; ma è il pensiero stesso nell’atto che pensa” (Ibid., p.33). D’accordo, ma perché allora non passare dall’astratta affermazione speculativa della realtà dell’atto pensante (come fa soprattutto Gentile) a una sua concreta esperienza spirituale (mediante l’esercizio interiore)? Perché non passare, cioè, da una filosofia a una scienza dello spirito?
“La religiosità – dice sempre Croce – è armonia, l’armonia della quale si coglie solo qualche parvenza secondaria quando la si cerca nelle forme estrinseche del comportamento e della parola, ma che si attinge alla scaturigine quando s’intende come unità del pensare col sentire e col fare, e del sentire e fare col pensare” (Ibid., p.166).
Ma può forse una concezione “formalistica”, “vuota”, “scettica” e “agnostica” (tanto da far “tutt’uno – a detta di Bedeschi – con l’ingegneria sociale”) coinvolgere in modo positivo il sentire e il volere? No, non lo può. Sono state le ideologie, piuttosto, che, in qualità – come dice sempre Bedeschi – di “religioni laiche”, muovendo dal volere (dagli istinti) e dal sentire, sono riuscite a coinvolgere negativamente il pensare. Ciò significa, dunque, che la luce (fredda) del pensiero liberale non è stata in grado di rischiarare (e riscattare) le penombre (sognanti) del sentire e le tenebre (dormienti) del volere, mentre le ideologie sono state purtroppo in grado, muovendo da quest’ultimi (dal “sottosuolo”) e oscurando il pensare, di “mobilitare gli animi” e di “trascinare le masse” (fideisticamente).
E’ doveroso comunque ricordare che il “vuoto” del razionalismo liberale, prima ancora che dalle ideologie, è stato colmato dal liberismo, e quindi dall’utilitarismo e dal materialismo. “Gli anni dal 1789 al 1848 – osserva appunto Hobsbawm – furono dominati da una duplice rivoluzione: quella industriale, inaugurata dalla Gran Bretagna e in larga misura ad essa circoscritta, e quella politica, legata, e in larga misura circoscritta, alla Francia”; nel 1848, tuttavia, “la rivoluzione politica passa in secondo piano” e “la rivoluzione industriale in primo”, tanto che la rivoluzione inglese “inghiotte” quella francese” (Il trionfo della borghesia (1848-1875) – Laterza, Bari 1994, p.4).
Non a caso, Croce stesso biasima che il liberismo, “da legittimo principio economico, si è convertito in illegittima teoria etica, in una morale edonistica e utilitaria, la quale assume a criterio di bene la massima soddisfazione dei desideri in quanto tali, che è poi di necessità, sotto questa espressione di apparenza quantitativa, la soddisfazione del libito individuale o di quello della società intesa in quanto accolta e media d’individui”; e ricorda che, a differenza dell'”economico liberismo”, l'”etico liberalismo” è anzitutto indirizzato “a promuovere la vita spirituale nella sua interezza, e perciò in quanto vita morale” (Op.cit., pp.264-265).
Ma come promuovere davvero “la vita spirituale nella sua interezza” se (per rimanere sul piano della vita sociale) non si sa vedere nulla al di là dell’organizzazione politica e di quella economica, e non si riesce quindi a concepire – come fa Steiner – una “triarticolazione dell’organismo sociale”? In assenza di un’autonoma organizzazione culturale, chi s’incarica infatti di gestire la vita spirituale? Lo Stato? Ma non c’è il rischio, in questo caso, di assistere alla graduale trasformazione dello Stato di diritto, vanto della tradizione liberale, in quello Stato etico caro proprio alle ideologie e ai totalitarismi? “Solo la libera associazione degl’individui – sostiene infatti Humboldt – può creare qualche cosa di veramente organico, mentre l’intervento statale è condannato a realizzare soltanto un increativo meccanismo” (G. De Ruggiero: Storia del liberalismo europeo – Feltrinelli, Milano 1962, p.215). Allora l’economia? Ma non c’è il rischio, in quest’altro caso, di assistere a una graduale mortificazione della cultura (“La grande sterilità spirituale dell’utilitarismo, – osserva sempre Humboldt – riducendo ogni attività e ogni valore al livello dell’interesse, inaridisce l’anima e la degrada” – Ibid., p.105) e alla sua trasformazione in un raffinato strumento di marketing o – come sostiene Naomi Klein – di “colonizzazione mentale” (NoLogo – Baldini & Castoldi, Milano 2001, p.92)? E non si corre dunque il rischio, in entrambi i casi, di un letale “conflitto d’interessi”?
E’ illusorio, in definitiva, voler promuovere la vita spirituale, se non si conosce davvero l’uomo, se non si educa, rafforza e sviluppa quanto, distinguendolo dalla natura, lo rende propriamente umano, e se non si avverte, per conseguenza, la necessità di svincolare (istituzionalmente) la vita culturale dai ceppi di quella politica e di quella economica.

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Di Francesco Giorgi
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