Abbiamo parlato, di recente, dell’astrattezza del pensiero liberale (cfr. Liberalismo, liberismo e ideologie – 22 giugno 2002) e del fatto che il liberalismo, se non fosse stato trasformato (da Arimane) nel liberismo, si sarebbe molto probabilmente sviluppato nella direzione indicata da Steiner ne La filosofia della libertà (cfr. La mucca è savia – 3 luglio 2002).
Una cosa, infatti, è fondarsi su una filosofia dello spirito, altra su una scienza dello spirito.
Un chiaro esempio della differenza che corre tra queste due impostazioni (e del fatto che il pensiero astratto, impegnando unicamente la testa, è del tutto incapace di raggiungere il restante organismo, e quindi di trasformare il sentire e il volere) lo dà Croce laddove affronta il problema dei “trapassati”: ossia, della morte.
Dice infatti: “Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? “Dimenticarli”, risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. “Dimenticarli”, conferma l’Etica. “Via sulle tombe!”, esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni. E l’uomo dimentica. Si dice che ciò è opera del tempo; ma troppe cose buone, e troppo ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè a un essere che non esiste” (Etica e politica – Laterza, Bari 1967, p.23).
Tuttavia, come un corso d’acqua “non esiste” (non fluisce realmente) per colui che disponga della sua sola fotografia, così il tempo “non esiste” (non fluisce realmente) per colui che disponga della sua sola rappresentazione.
Le rappresentazioni possono infatti dar conto di quanto esiste nello spazio (e di quanto viene perciò percepito attraverso i sensi), ma non di quanto esiste nel tempo, nell’anima e nello spirito. E la realtà del tempo, in quanto realtà “sensibile-sovrasensibile” (o “eterica”, nel linguaggio della scienza dello spirito) è deputata appunto a mediare tra quella (esistenziale) dello spazio e quelle (essenziali) dell’anima (del “corpo astrale”) e dello spirito (dell'”Io”). Cosa occorre fare, allora, per sperimentare la realtà del tempo? Occorre imparare a osservare, non i “pensati” (le rappresentazioni), bensì il “pensare”. Per osservare il “pensare”, ch’è in sé movimento, bisogna però muoversi: ossia, agire. E’ qui, dunque, che si è chiamati ad abbandonare il terreno della speculazione, per inoltrarsi in quello dell’esperienza, e quindi della pratica interiore. Si può star sicuri che chiunque riuscirà a scoprire, in tal modo, la realtà del “pensare”, avrà al tempo stesso scoperto quelle del movimento, del tempo e della vita.
Dice ancora Croce: “La nostra individualità è una parvenza fissata dal nome, cioè da una convenzione; e non potrebbe persistere se non come persiste il nulla, come spasimo (…) Che cosa è la nostra vita se non appunto un “correre alla morte”, alla morte dell’individualità?” (ibid., p.25).
E che cosa è questo – potremmo dir noi – “se non appunto” materialismo (l’altra faccia, cioè, dell’astratto idealismo)? Perché non pensare, infatti, che se la vita è un “correre alla morte”, la morte potrebbe essere un “correre alla vita”? E perché, soprattutto, non distinguere l’individualità dalla coscienza dell’individualità: ovvero, la realtà spirituale dell’Io dalla coscienza nominalistica, se non addirittura anagrafica (in quanto “convenzionale”), che se ne ha?
In verità, l’unico “nulla” che purtroppo “persiste” (e che normalmente ci accomuna) è proprio quello del non-essere della coscienza riflessa (astratta o rappresentativa) della vita, dell’anima e dell’Io.
05/07/2002
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