Della “volontà d’impotenza”

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“Bacone e Descartes – scrive Karl Popper – innalzarono l’osservazione e la ragione come nuove autorità, e le posero all’interno di ciascun singolo uomo. Ma, così facendo, lo scissero in due parti: una superiore, che ha autorità rispetto alla verità – l’osservazione di Bacone, l’intelletto di Descartes – e una inferiore. Questa parte inferiore costituisce il nostro io ordinario, il vecchio Adamo che è in noi. Perché, se la verità è manifesta, i soli responsabili dell’errore siamo sempre “noi stessi”. Siamo noi a dover essere biasimati, con i nostri pregiudizi, la nostra negligenza, la nostra pigrizia; siamo noi la fonte della nostra stessa ignoranza. Così siamo scissi in una parte umana, noi stessi, che è fonte delle nostre opinioni fallibili (doxa), dei nostri errori, della nostra ignoranza; e in una parte sovrumana, i sensi, o l’intelletto, che è la fonte di tutta la conoscenza reale (episteme) e che ha su di noi un’autorità quasi divina” (Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza – il Mulino, Bologna 2000, p.67).
Ebbene, messo di fronte a queste due opposte e autorevoli fonti della verità, ovvero a quella della veracitas naturae di Bacone e a quella della veracitas Dei di Descartes (p.48), cosa fa Popper? Da liberale insofferente all’autorità, fosse anche quella dei sensi o dell’intelletto (p.65), s’impegna a dimostrare, col suo “razionalismo critico”, non che l’uomo e il suo conoscere hanno pari o maggior valore di quello dei dati della percezione e del pensiero, bensì che tanto i primi (i percetti) che i secondi (i concetti), non hanno, alla stessa stregua del “nostro io ordinario” o del “vecchio Adamo che è in noi”, alcun valore.
“La nostra conoscenza – dichiara infatti – ha fonti di ogni genere, ma nessuna ha autorità” (p.81).
Se già non è facile, tuttavia, tentare di dimostrare (come ben sanno i nominalisti) che la fonte intellettuale è priva di autorità, se non addirittura di realtà (“non ci sono – dichiara Popper – fonti prime di conoscenza”) (p.87), ancor più difficile (se non disperante) è tentare di dimostrare lo stesso della fonte sensibile.
“Come quasi tutti gli avvocati ben sanno, – osserva ad esempio – i testimoni oculari spesso si sbagliano. Questo fatto è stato studiato sperimentalmente, con i risultati più sorprendenti. E’ molto probabile che i testimoni più ansiosi di descrivere un evento come è realmente accaduto, facciano un gran numero di errori, specialmente se si tratta di descrivere cose eccitanti accadute rapidamente; e se un evento suggerisce qualche interpretazione allettante, allora, il più della volte, si lascia che questa interpretazione distorca ciò che si è effettivamente visto” (p.80).
Già, ma come sarebbe possibile accertare che “ciò che si è effettivamente visto” è stato “distorto”, se “ciò che si è effettivamente visto” non avesse alcuna autorità? Nei riguardi di che cosa, insomma, “i testimoni oculari spesso si sbagliano” o fanno “un gran numero di errori”?
“Sotto l’aspetto quantitativo, – osserva anche (nella quarta delle dieci tesi in cui riassume i “risultati epistemologici” della sua indagine) – come pure sotto quello qualitativo, la fonte di gran lunga più importante della nostra conoscenza – a parte la conoscenza innata – è la tradizione. La maggior parte delle cose che conosciamo le abbiamo imparate da esempi, o perché ci sono state dette, o perché le abbiamo lette nei libri, o imparando come criticare, come accogliere e accettare le critiche, come rispettare la verità” (p.88).
Già, ma per imparare le cose attraverso l’esempio, l’ascolto o la lettura, o per apprendere l’esercizio critico, non è forse necessario impegnare, innanzitutto, l’attività dei sensi e quella dell’intelletto?
Fatto si è che il punto di vista della “conoscenza storica” (così come l’intendeva Hume e l’illustra Popper) conduce sempre, non già “al regresso all’infinito” – come sostiene quest’ultimo (p.81), bensì al regresso al “finito”: ossia al dato originario della percezione.
Qual è dunque il suo errore? Quello di negare il carattere primario dei dati forniti dall’osservazione (i percetti) e dall’intelletto (i concetti), senza riconoscere loro quello di prodotti dell’organizzazione e dell’attività conoscitiva umana. Ove si adottasse questo punto di vista (che è quello proposto da Steiner ne La filosofia della libertà), subito si realizzerebbe, infatti, che l’autorità dei sensi non è che quella dell’uomo percipiente (fisico), che l’autorità dell’intelletto non è che quella dell’uomo pensante (spirituale), e che l’autorità dell’uomo conoscente è appunto quella che prima si scinde in tali due parti e poi, coniugando (nell’anima e in virtù dell’attività giudicante) i dati recepiti dalla prima con quelli recepiti dalla seconda, reintegra, a un tempo, sia la propria unità (dell’Io) che quella del reale.
Dice Popper che Bacone e Descartes scissero l’uomo in due parti, una superiore e l’altra inferiore, e che quest’ultima “costituisce il nostro io ordinario, il vecchio Adamo che è in noi”. Meglio sarebbe dire, tuttavia, che, dopo aver scisso l’uomo in due parti, Bacone ha giudicato l’uomo che percepisce superiore a quello che pensa, e che Descartes, al contrario, ha giudicato l’uomo che pensa superiore a quello che percepisce; meglio sarebbe dire, in altri termini, che “il vecchio Adamo che è in noi” è, per Bacone, l’io pensante, e per Descartes, l’io percipiente. Il che implica che la “parte sovrumana” viene di fatto identificata, da Bacone, con l’io percipiente e, da Descartes, con l’io pensante. Entrambi dunque prescindono (con Popper) dal “nuovo Adamo” (ossia, non dal “sovrumano”, ma dal “vero umano”) che, in tanto “è in noi”, in quanto inabita quell’unico Io (centrale) che si articola , nell’anima, nelle facoltà del pensare, del sentire e del volere, e che ingenera appunto la polarità tra la sfera cosciente (cefalica) del pensare e quella incosciente (metabolica) del volere che anima l’attività percettiva.
Chi non riconosca alcuna autorità alle fonti della nostra conoscenza, non la riconosce dunque né all’uomo né alla realtà. “La fonte principale dell’ignoranza” – sostiene Popper – sta nel “fatto che la nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza non può che essere, di necessità, infinita” (p.91).Egli trascura di spiegare, però, come sia possibile, a una conoscenza “solo finita”, riuscire a sapere qualcosa della “infinità” dell’ignoranza.
Cosa arriva dunque a concludere la sua indagine? Ciò che da sempre sostiene l’agnosticismo: che l’uomo non può far altro, cioè, che formulare delle “congetture”, in quanto la verità, essendo inaccessibile alla mente umana, ha carattere trascendente. “Possiamo conservare, senza pericolo – dice appunto – l’idea che la verità è al di là dell’autorità umana. Anzi, dobbiamo conservare questa idea” (p.93).
Da quale (più o meno inconscia) attitudine può nascere una concezione del genere (tale, peraltro, da ridurre i liberali a dei “tradizionalisti” o “conservatori”)? Da quella che possiamo senz’altro chiamare una “volontà d’impotenza”: da un impulso, ossia, non meno morboso e temibile di quello della “volontà di potenza” (cui può anche fare, del resto, da copertura). Una delle migliori espressioni di questo tipo d’impulso (almeno come noi l’intendiamo) la ritroviamo in Voltaire (citato puntualmente da Popper): “Che cos’è la tolleranza?”, si chiede Voltaire nel suo Dizionario filosofico, e risponde: “E’una conseguenza necessaria della nostra umanità. Noi tutti siamo fallibili, e inclini all’errore: perdoniamoci dunque l’un l’altro la nostra follia. Questo è il primo principio del diritto naturale” (p.67).

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Di Francesco Giorgi
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