Nell’ambito delle iniziative previste dal convegno di “Comunione e Liberazione”, tenutosi come sempre a Rimini, Gianni Baget Bozzo ha presentato, insieme a Pierluigi Battista (inviato della Stampa), il proprio libro Profezia (Mondadori, Milano 2002); e il settimanale Tempi (29 agosto – 4 settembre 2002) riporta, unitamente alla notizia, un ampio resoconto del dibattito svoltosi tra i due presentatori.
“Libertà e verità – dice a un certo punto Baget Bozzo – sono entrati nella storia mediante il cristianesimo. Come li usiamo noi questi termini non esistevano prima di Cristo. Cos’è l'”eleuteria” greca? La libertà del cittadino, non dell’uomo. Quanto al concetto di verità, indica qualche cosa che trascende l’uomo e il mondo ellenico alla trascendenza di Dio non ci è arrivato. La libertà in senso nostro, voglio dire nel pensiero occidentale, vuol dire una libertà oltre la città, cosa che curiosamente rievoca il diritto al dissenso. Libertà e verità sono parole di Cristo: “Io sono la via e la verità”. Io credo che l’Occidente possa usare le parole verità e libertà in riferimento all’uso cristiano perché se lo fa in un uso diverso allora la verità può diventare la parabola di Lenin, cioè una verità imposta. Quando il cristiano usa il termine verità lo riferisce al Cristo, non allo Stato”.
Orbene, se è facile dimostrare che i termini “libertà” e “verità” (“come li usiamo noi”) “non esistevano prima di Cristo”, e che la libertà del Cristianesimo è quella dell'”uomo” e non del “cittadino”, è difficile invece dimostrare (da un punto di vista propriamente cristiano) che il “concetto di verità indica qualche cosa che trascende l’uomo” (o l’individuo).
“Libertà e verità – dice Baget Bozzo – sono parole di Cristo”; ma sono “parole” di Cristo o sono il Cristo? Ossia, Colui che afferma, non solo: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), ma anche: “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32)?
Si rifletta: se la verità fosse “qualche cosa” che ci “trascende”, e quindi al di là della portata del nostro pensare, anche la libertà dovrebbe trascenderci, ed essere quindi al di là della portata del nostro volere. Ma come potrebbe, in tal caso, la verità farci liberi? In realtà, l’indicazione del Cristo è inequivocabile: conoscerete me (la verità) e io vi farò liberi. Il problema della verità e della libertà si risolve dunque in quello della conoscenza o coscienza del Cristo. Non è perciò dalla conoscenza o coscienza del Cristo che discendono tanto la verità che non rende liberi quanto la libertà che non rende veri. E cos’altro è infatti la “parabola di Lenin” se non appunto una verità che non rende liberi?
Dice ancora Baget Bozzo che il cristiano, quando usa il termine verità, “lo riferisce al Cristo, non allo Stato”. D’accordo, ma lo riferisce al Cristo o alla Chiesa (vale a dire a un’altra istituzione)? E se lo riferisce al Cristo, ovvero al Dio che “si è fatto carne”, ha ancora senso il dire – come fa Baget Bozzo – che, con tale concetto, si indica “qualche cosa che trascende l’uomo”?
Fatto si è che il pensiero moderno ha posto, sì, l’antitesi “immanenza-trascendenza” sul piano gnoseologico, ma non è riuscito ancora a trasformarla nell’antitesi “coscienza-extracoscienza”. Si riconosce, ad esempio, che, al di sotto dell’ordinaria coscienza di veglia, si danno vari gradi d’incoscienza (quelli del sogno, del sonno senza sogni e del coma, se non della morte), così come si riconosce che tale grado di coscienza si è evoluto da quelli inferiori, ma non si prende per nulla in considerazione che dal livello di coscienza intellettuale o rappresentativo possano evolversene altri e superiori. Di questi, – come sanno coloro che conoscono la scienza dello spirito – Steiner ne individua tre, l'”immaginativo”, l'”ispirativo” e l'”intuitivo” (cfr. R.Steiner: I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977), e li fa corrispondere, sul piano extracosciente–spirituale a quelli che normalmente si danno su quello extracosciente-naturale.
Ciascuno può dunque sviluppare, muovendo dall’odierna coscienza intellettuale e in virtù di una seria e adeguata disciplina spirituale, dei gradi superiori di coscienza (cfr. R.Steiner: L’iniziazione: come si conseguono conoscenze dei mondi superiori? – Antroposofica, Milano 1971). Ma perché deve muovere dalla coscienza intellettuale? Perchè questo grado, garantendogli l’autocoscienza, lo sente suo, e quindi immanente, mentre non sente suoi, e quindi trascendenti, sia quelli inferiori e naturali, che sa che la dissolvono, sia quelli superiori e spirituali, che s’immagina facciano altrettanto. Il compito, tuttavia, è proprio quello di svelare ciò che occultano i primi (il sogno, il sonno e la morte), dissolvendo l’autocoscienza, per mezzo dell’educazione e dello sviluppo dei secondi (dell’immaginazione, dell’ispirazione e dell’intuizione) che al contrario la rafforzano.
Dice sempre Baget Bozzo che “il mondo ellenico alla trascendenza di Dio non ci è arrivato”; ma in tanto “non ci è arrivato” – si dovrebbe aggiungere – in quanto non è arrivato all’immanenza dell’uomo: in quanto non è arrivato, ossia, a concepire in modo radicalmente dualistico (o cartesiano) il reale. Muovere dalla coscienza intellettuale significa dunque muovere dall'”ego”: ovvero, dalla coscienza rappresentativa dell’Io. E’ su questo piano, infatti, che l’Io si risveglia (dal sogno animale, dal sonno vegetale e dalla morte minerale), per conquistare una prima e basale coscienza di sé. Una coscienza, però, che patisce i limiti dello specchio corporeo (corticale) nel quale l’Io è pervenuto modernamente a riflettersi (“La consapevolezza di essere corpi”: così s’intitola, ad esempio, un articolo del filosofo Remo Bodei – Domenica – Il Sole-24Ore, 10 giugno 2001).
Si tenga presente, a questo proposito, che la qualità dell’esistere non dipende dalla qualità dell’essere, ma da quella della coscienza dell’essere. Il che vuol dire, in altri termini, che il modo di esistere dell’uomo non dipende dal suo essere, ma dal tipo di coscienza che ne ha; e che è quindi dalla coscienza di sé quale “ego” (quale corpo) che discende la sua odierna esistenza “egoistica”. Solo l’evoluzione dell’autocoscienza umana può dunque determinare quella dell’esistenza umana. Le maggiori difficoltà derivano comunque dal fatto che l'”ego”, considerando immanente tutto ciò che rientra nel suo orizzonte (materiale o spaziale) e trascendente tutto ciò che viceversa ne esorbita, teme, trasponendo il problema del rapporto tra l’immanenza e la trascendenza dal piano statico dello spazio (dell’essere o, meglio, dello “stato”) a quello dinamico del tempo (del divenire), di perdere sé stesso. Tuttavia, ove trovasse il coraggio di far ciò, presto capirebbe di poter rimanere sul piano dell’immanenza, distinguendo semmai, al suo interno, una sfera “attuale” (cosciente) da una sfera “potenziale” (extracosciente), e riconoscendo che l’immanenza attuale è stata un giorno trascendenza, così come la trascendenza attuale sarà un giorno immanenza. A ben vedere, infatti, cos’altro fa l’evoluzione della coscienza se non continuamente trasformare la trascendenza (l’extracosciente) nell’immanenza (nel cosciente)?
Ma adesso domandiamoci: quale tipo di coscienza può avere l'”ego” del Cristo? E’ presto detto: o quella che ne fa, in modo immanente, un semplice “uomo” (il Gesù di Nazaret); o quella che ne fa, in modo trascendente, un lontano “Dio” (non molto diverso da quello dell’Antico Testamento). Come si vede, l'”ego”, in quanto soggetto, come dice Thomas Merton, “puramente cartesiano” (Lo Zen e gli uccelli rapaci – Garzanti, Milano 1970, p.32), non può che snaturare il Cristo: non può che privarlo, cioè, del suo più intimo, originale e unitario carattere di “Dio-Uomo” o di “Uomo-Dio” (o – direbbe Solov’ev – della sua “Divinoumanità”). Ciò sta quindi a significare che non è possibile un sano sviluppo dell’autocoscienza umana senza lo sviluppo, al contempo, di una più profonda e spirituale coscienza del Cristo. E’ infatti la presenza “potenziale” del Cristo a permettere l’evoluzione dell’autocoscienza umana (e quindi il superamento dell'”ego”), ma è l’evoluzione della coscienza umana a permettere la presenza “attuale” del Cristo (vale a dire, la sua manifestazione esistenziale).
“Vergine madre, – prega Bernardo – figlia del tuo figlio…”; appunto “Figlia” la Vergine, come la coscienza del vero Io, del Cristo “potenziale”, ma anche “Figlio” il Cristo “attuale”, come il vero Io, dell’autocoscienza umana.
“Libertà e verità – dice a un certo punto Baget Bozzo – sono entrati nella storia mediante il cristianesimo. Come li usiamo noi questi termini non esistevano prima di Cristo. Cos’è l'”eleuteria” greca? La libertà del cittadino, non dell’uomo. Quanto al concetto di verità, indica qualche cosa che trascende l’uomo e il mondo ellenico alla trascendenza di Dio non ci è arrivato. La libertà in senso nostro, voglio dire nel pensiero occidentale, vuol dire una libertà oltre la città, cosa che curiosamente rievoca il diritto al dissenso. Libertà e verità sono parole di Cristo: “Io sono la via e la verità”. Io credo che l’Occidente possa usare le parole verità e libertà in riferimento all’uso cristiano perché se lo fa in un uso diverso allora la verità può diventare la parabola di Lenin, cioè una verità imposta. Quando il cristiano usa il termine verità lo riferisce al Cristo, non allo Stato”.
Orbene, se è facile dimostrare che i termini “libertà” e “verità” (“come li usiamo noi”) “non esistevano prima di Cristo”, e che la libertà del Cristianesimo è quella dell'”uomo” e non del “cittadino”, è difficile invece dimostrare (da un punto di vista propriamente cristiano) che il “concetto di verità indica qualche cosa che trascende l’uomo” (o l’individuo).
“Libertà e verità – dice Baget Bozzo – sono parole di Cristo”; ma sono “parole” di Cristo o sono il Cristo? Ossia, Colui che afferma, non solo: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), ma anche: “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32)?
Si rifletta: se la verità fosse “qualche cosa” che ci “trascende”, e quindi al di là della portata del nostro pensare, anche la libertà dovrebbe trascenderci, ed essere quindi al di là della portata del nostro volere. Ma come potrebbe, in tal caso, la verità farci liberi? In realtà, l’indicazione del Cristo è inequivocabile: conoscerete me (la verità) e io vi farò liberi. Il problema della verità e della libertà si risolve dunque in quello della conoscenza o coscienza del Cristo. Non è perciò dalla conoscenza o coscienza del Cristo che discendono tanto la verità che non rende liberi quanto la libertà che non rende veri. E cos’altro è infatti la “parabola di Lenin” se non appunto una verità che non rende liberi?
Dice ancora Baget Bozzo che il cristiano, quando usa il termine verità, “lo riferisce al Cristo, non allo Stato”. D’accordo, ma lo riferisce al Cristo o alla Chiesa (vale a dire a un’altra istituzione)? E se lo riferisce al Cristo, ovvero al Dio che “si è fatto carne”, ha ancora senso il dire – come fa Baget Bozzo – che, con tale concetto, si indica “qualche cosa che trascende l’uomo”?
Fatto si è che il pensiero moderno ha posto, sì, l’antitesi “immanenza-trascendenza” sul piano gnoseologico, ma non è riuscito ancora a trasformarla nell’antitesi “coscienza-extracoscienza”. Si riconosce, ad esempio, che, al di sotto dell’ordinaria coscienza di veglia, si danno vari gradi d’incoscienza (quelli del sogno, del sonno senza sogni e del coma, se non della morte), così come si riconosce che tale grado di coscienza si è evoluto da quelli inferiori, ma non si prende per nulla in considerazione che dal livello di coscienza intellettuale o rappresentativo possano evolversene altri e superiori. Di questi, – come sanno coloro che conoscono la scienza dello spirito – Steiner ne individua tre, l'”immaginativo”, l'”ispirativo” e l'”intuitivo” (cfr. R.Steiner: I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977), e li fa corrispondere, sul piano extracosciente–spirituale a quelli che normalmente si danno su quello extracosciente-naturale.
Ciascuno può dunque sviluppare, muovendo dall’odierna coscienza intellettuale e in virtù di una seria e adeguata disciplina spirituale, dei gradi superiori di coscienza (cfr. R.Steiner: L’iniziazione: come si conseguono conoscenze dei mondi superiori? – Antroposofica, Milano 1971). Ma perché deve muovere dalla coscienza intellettuale? Perchè questo grado, garantendogli l’autocoscienza, lo sente suo, e quindi immanente, mentre non sente suoi, e quindi trascendenti, sia quelli inferiori e naturali, che sa che la dissolvono, sia quelli superiori e spirituali, che s’immagina facciano altrettanto. Il compito, tuttavia, è proprio quello di svelare ciò che occultano i primi (il sogno, il sonno e la morte), dissolvendo l’autocoscienza, per mezzo dell’educazione e dello sviluppo dei secondi (dell’immaginazione, dell’ispirazione e dell’intuizione) che al contrario la rafforzano.
Dice sempre Baget Bozzo che “il mondo ellenico alla trascendenza di Dio non ci è arrivato”; ma in tanto “non ci è arrivato” – si dovrebbe aggiungere – in quanto non è arrivato all’immanenza dell’uomo: in quanto non è arrivato, ossia, a concepire in modo radicalmente dualistico (o cartesiano) il reale. Muovere dalla coscienza intellettuale significa dunque muovere dall'”ego”: ovvero, dalla coscienza rappresentativa dell’Io. E’ su questo piano, infatti, che l’Io si risveglia (dal sogno animale, dal sonno vegetale e dalla morte minerale), per conquistare una prima e basale coscienza di sé. Una coscienza, però, che patisce i limiti dello specchio corporeo (corticale) nel quale l’Io è pervenuto modernamente a riflettersi (“La consapevolezza di essere corpi”: così s’intitola, ad esempio, un articolo del filosofo Remo Bodei – Domenica – Il Sole-24Ore, 10 giugno 2001).
Si tenga presente, a questo proposito, che la qualità dell’esistere non dipende dalla qualità dell’essere, ma da quella della coscienza dell’essere. Il che vuol dire, in altri termini, che il modo di esistere dell’uomo non dipende dal suo essere, ma dal tipo di coscienza che ne ha; e che è quindi dalla coscienza di sé quale “ego” (quale corpo) che discende la sua odierna esistenza “egoistica”. Solo l’evoluzione dell’autocoscienza umana può dunque determinare quella dell’esistenza umana. Le maggiori difficoltà derivano comunque dal fatto che l'”ego”, considerando immanente tutto ciò che rientra nel suo orizzonte (materiale o spaziale) e trascendente tutto ciò che viceversa ne esorbita, teme, trasponendo il problema del rapporto tra l’immanenza e la trascendenza dal piano statico dello spazio (dell’essere o, meglio, dello “stato”) a quello dinamico del tempo (del divenire), di perdere sé stesso. Tuttavia, ove trovasse il coraggio di far ciò, presto capirebbe di poter rimanere sul piano dell’immanenza, distinguendo semmai, al suo interno, una sfera “attuale” (cosciente) da una sfera “potenziale” (extracosciente), e riconoscendo che l’immanenza attuale è stata un giorno trascendenza, così come la trascendenza attuale sarà un giorno immanenza. A ben vedere, infatti, cos’altro fa l’evoluzione della coscienza se non continuamente trasformare la trascendenza (l’extracosciente) nell’immanenza (nel cosciente)?
Ma adesso domandiamoci: quale tipo di coscienza può avere l'”ego” del Cristo? E’ presto detto: o quella che ne fa, in modo immanente, un semplice “uomo” (il Gesù di Nazaret); o quella che ne fa, in modo trascendente, un lontano “Dio” (non molto diverso da quello dell’Antico Testamento). Come si vede, l'”ego”, in quanto soggetto, come dice Thomas Merton, “puramente cartesiano” (Lo Zen e gli uccelli rapaci – Garzanti, Milano 1970, p.32), non può che snaturare il Cristo: non può che privarlo, cioè, del suo più intimo, originale e unitario carattere di “Dio-Uomo” o di “Uomo-Dio” (o – direbbe Solov’ev – della sua “Divinoumanità”). Ciò sta quindi a significare che non è possibile un sano sviluppo dell’autocoscienza umana senza lo sviluppo, al contempo, di una più profonda e spirituale coscienza del Cristo. E’ infatti la presenza “potenziale” del Cristo a permettere l’evoluzione dell’autocoscienza umana (e quindi il superamento dell'”ego”), ma è l’evoluzione della coscienza umana a permettere la presenza “attuale” del Cristo (vale a dire, la sua manifestazione esistenziale).
“Vergine madre, – prega Bernardo – figlia del tuo figlio…”; appunto “Figlia” la Vergine, come la coscienza del vero Io, del Cristo “potenziale”, ma anche “Figlio” il Cristo “attuale”, come il vero Io, dell’autocoscienza umana.