In una nota dello scorso anno (Globalizzazione e triarticolazione, 25 giugno 2001), avevamo segnalato il fatto che Tommaso Padoa-Schioppa (vicepresidente della Banca Centrale Europea), pur non rifacendosi esplicitamente all’idea della “triarticolazione” di Rudolf Steiner, proponesse di distinguere, nella vita dell’organismo sociale, “tre diversi campi: la politica e le istituzioni; l’economia e il suo governo; la nazione e la cultura” (Europa, forza gentile – il Mulino, Bologna 2001, p.13). Siamo stati perciò lieti di scoprire che, nel suo ultimo lavoro, intitolato: Dodici settembre – Il mondo non è al punto zero (Rizzoli, Milano 2002), egli non solo torni a proporre, con maggiore convinzione e incisività, la necessità di tale distinzione, ma citi pure, nel brano che segue, un breve passo de I punti essenziali della questione sociale di Steiner: “Le argomentazioni faranno riferimento a tre diversi campi dell’attività umana: economia, politica, cultura. In ognuno di essi, infatti, le persone interagiscono, e ognuno richiede una forma di organizzazione sociale. Così nelle città medievali, il duomo, il palazzo del comune e quello della mercanzia si affacciano sulla piazza principale. Pur connessi, i tre campi sono e devono essere distinti: “tre sistemi operanti l’uno accanto all’altro, ciascuno dei quali però opera con una certa indipendenza”. Non solo i tre campi corrispondono a diversi interessi e motivazioni nell’attività di una singola persona, ma anche i principi e gli istituti che ispirano l’organizzazione sociale in uno di essi mal si adattano agli altri” (p.24).
Ci ha fatto altresì piacere constatare – lo confessiamo – come alcune sue idee, relative ai più recenti fenomeni della vita italiana, europea e mondiale, siano assai vicine a quelle esposte nel nostro “osservatorio”. Non si tratta comunque di un lavoro di approfondimento, ma di un testo che, rivolgendosi soprattutto ai giovani, si fa apprezzare per competenza, chiarezza, equanimità e – diciamolo pure – sano buon senso.
In questa sede, tenteremo perciò di esaminare un po’ più a fondo quanto sostiene l’autore in ordine alla vita culturale.
Dice Padoa-Schioppa: “Come esiste già, in larga misura, un’economia globale, così è necessario costruire un ordine politico mondiale” (p.45); ma “è possibile – dice poi – un’unione politica del mondo senza un punto d’incontro nel campo della cultura? La risposta è: no, non è possibile” (p.94).
Ne conveniamo. Ma se ogni sforzo per “estirpare l’odio dal cuore e dalla mente degli uomini” (p16), e per creare quindi “un mondo migliore” (p.20), non può che prendere le mosse dalla vita culturale, non vuol dire allora che “aurea” è la “via” della cultura, e non quella – come egli sostiene – della politica (p.46)?
Ma veniamo al dunque. “Si può e si deve aspirare – afferma – a un punto d’incontro nella sfera della cultura, non immaginare o costruire una cultura comune” (p.105), poiché l'”unità politica del mondo non significa uniformità della cultura” (p.106).
Ma tale “punto” – domandiamo – va “inventato” o “scoperto”? Ovvero, ancora non esiste e deve essere allora creato, o già esiste e deve essere allora portato a coscienza (creandone perciò la consapevolezza)?
Sta di fatto che, al di là della diversità delle culture, il solo “punto d’incontro” davvero “universale” è rappresentato dall’essere umano stesso, e, in specie, dalla circostanza che tale essere (una volta adulto) si rivolga ovunque a sé stesso come a un “Io”.
Una cosa però è l’Io (vale a dire, lo “spirito” o “il punto d’incontro” universale), altra la coscienza dell’Io (vale a dire, l'”anima” o la “cultura” particolare). E non tutte le culture (o le anime) sono arrivate a partorire quella coscienza individuale (egoica o egoistica) dell’Io che caratterizza la modernità (e che Steiner denomina “anima cosciente”).
E’ da ciò, a ben vedere, che discende la crisi attuale. Rifiutando di portarsi al di là di questa prima fase di sviluppo della coscienza individuale dell’Io (incontro a quello che, ancora Steiner, chiama “Sè spirituale”), l’Europa e l’Occidente hanno patito (nel corso del Novecento) e stanno tuttora patendo la reazione, più o meno violenta, di quelle culture (o anime) che sono rimaste al di qua di tale fase, e nelle quali perciò sopravvive una coscienza collettiva dell’Io.
“Il riconoscimento – osserva Padoa-Schioppa – che l’interesse individuale è parte dell’interesse comune non è nell’istinto dell’uomo. Riesce in verità quasi innaturale accettare che l’interesse comune prevalga sul proprio anche quando il nostro punto di vista su quale esso sia è soccombente” (pp.61-62).
Non è però che tale riconoscimento non sia “nell’istinto dell’uomo”: è che l’ego, in qualità di “Io-bambino”, certe cose non le capisce, e le sente perciò “innaturali”. Per capirle, dovrebbe essere quindi aiutato a crescere (e non ad annullarsi, come vorrebbero gli avversari della modernità), così come, per crescere, dovrebbe essere aiutato a pensarsi e conoscersi diversamente: ovvero, a educare e sviluppare un superiore grado di autocoscienza. Per quale ragione, infatti, ciò che appare “innaturale” all’ego, vale a dire a un soggetto che, identificato col corpo, si sperimenta separato dagli altri, non potrebbe apparire “naturale” all’Io, vale a dire a un soggetto che, divenuto cosciente della propria realtà spirituale, sperimentasse gli altri in sé e sé negli altri? Ha scritto Thomas Merton: “Liberata dalla tensione di mantenere ostinatamente in vita un oggetto-Dio, la coscienza cartesiana rimane nondimeno imprigionata in se stessa. Di qui il bisogno di evadere dal proprio io e di andare verso “gli altri” in “incontri”, “aperture”, “solidarietà”, “comunione”. Ma il grande problema è che per la coscienza cartesiana anche l'”altro” è oggetto (…) E’ veramente possibile una genuina relazione io-tu a un soggetto puramente cartesiano?” (Lo zen e gli uccelli rapaci – Garzanti, 1970, p.32).
Certo, anche noi auspichiamo – come Padoa Schioppa – che si realizzi, a beneficio del mondo, un’unione tra la “saggezza europea” e la “forza americana” (p.120). Ma di quale “saggezza” può menar vanto l’Europa, se la sua cultura è ancora “fissata” (in senso psicoanalitico) al livello della coscienza materiale (o tutt’al più psicologica) dell’Io, e oppone inoltre “resistenza” (ancora in senso psicoanalitico) a far uso dei mezzi (teorico-pratici) forniti da Steiner per un suo sviluppo (noetico ed etico) superiore? Stando così le cose, non ci sarebbe piuttosto da pensare che il mondo sia ragionevolmente preoccupato (e proprio per questo si ribelli) del maleficio che potrebbe arrecargli l’unione “materialistica” (o astrattamente – e quindi falsamente – “idealistica”) della “stoltezza” europea con la “forza” americana?
Dice l’autore che la “malattia” dei nostri tempi è rappresentata dal “contrasto tra ciò in cui il mondo è già unito e ciò in cui è ancora diviso” (p.19). E’ vero, il mondo è già unito (o globalizzato) sul piano economico (materiale), ma non ancora su quello politico (animico) e su quello culturale (spirituale). Ma a cosa è dovuto questo, se non al fatto che l’evoluzione del pensare e del sentire è stata di gran lunga sopravanzata da quella del volere (o del fare)? Non è difficile osservare, ad esempio, che mentre l’odierna economia non ha più nulla a che fare con quella dell’antichità, la cultura e la politica attuali continuano a rifarsi (nei modi più diversi) alla filosofia greca e al diritto romano. E non è da qui che discende la perdurante e paralizzante frattura tra la cultura “umanistica” (luciferica) e quella “scientifica” (arimanica) e, quindi, uno dei più gravi ostacoli al riconoscimento della scienza dello spirito?
Afferma René Maheu (citato da Padoa-Schioppa): “Se ci s’interroga sull’universalità del concetto dei diritti umani, direi: no, questo concetto non è stato universale. Ma l’essenziale è che dappertutto si coglie un’esigenza fondamentale: qualcosa è dovuto all’essere umano per il fatto che è un essere umano” (p.100).
Già, ma cos’è che rende “umano” un essere umano? E come si può rispondere a un interrogativo del genere se non si dispone di un'”antroposofia”: ossia, di una scienza capace di far riemergere dalle tenebre dell’incoscienza la realtà spirituale dell’Io?
Per Steiner – ricorda Simonne Rihouet-Coroze – “il nome antroposofia era già carico (…) di un lungo passato ed incarnava uno scopo di vita contemplato sin dall’adolescenza: porre le basi di una scienza umana dello spirito, assumere una piena “coscienza di quel che è l’umano in sé”” (Rudolf Steiner – La vita e l’opera del fondatore dell’antroposofia – Nardini 1989, p.191)
Si rifletta: dice Maheu che il “concetto” dei diritti umani “non è stato universale”. Ma perché non lo è stato? Per la semplice ragione che è stato finora una rappresentazione, e non appunto un concetto. “La rappresentazione – spiega infatti Steiner – non è altro che un’intuizione riferita ad una determinata percezione, un concetto che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione (…) La rappresentazione è dunque un concetto individualizzato”, e, come tale, sta “in mezzo fra percezione e concetto” (La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, pp.89-90). La rappresentazione sta dunque fra la percezione e il concetto, così come l’anima sta fra il corpo e lo spirito.
“Sei generazioni fa – dice al riguardo Padoa-Schioppa – c’era la schiavitù in America. Quattro generazioni fa non c’era il suffragio universale” (p.118). Ebbene, ciò non prova appunto che il concetto dell’uomo era “rappresentato”, nel primo caso, dagli individui di pelle bianca, nel secondo, da quelli di sesso maschile, e in entrambi i casi, dunque, in modo “particolare”, e non “universale”? Non è qui il caso, ovviamente, di inoltrarsi in questa via. Basti perciò ricordare che, in base ai risultati della ricerca scientifico-spirituale, una cosa è l’ego (l’io riflesso che “campa – come si dice – una volta sola”), altra l’Io reale (che passa, quale essenza dell’individualità, di vita in vita), altra ancora l’Io universale (l'”umano in sé”) che lo inabita. Un conto, dunque, è considerare ogni individuo (ogni Io reale) quale creatura e veicolo dell’universale (dell'”Io sono”), altro è ignorare tanto il primo che il secondo e “proiettarli” (come facilmente accade – secondo la psicoanalisi – con i contenuti inconsci) su un qualsiasi particolare (su una nazione, ad esempio, o una religione, un partito, una razza, una classe, un sesso o quant’altro), per privilegiarlo così (in quanto gruppo “eletto”) a scapito degli altri.
“Trarre dalla diversità delle culture argomento – afferma Jeanne Hersch (citata sempre dall’autore) – per rifiutarsi di riconoscere l’universalità dei diritti umani non è altro che un cattivo pretesto” (p.100). D’accordo, ma per accettare la “diversità delle culture”, accettando al contempo “l’universalità dei diritti umani”, è necessario appunto distinguere la realtà dei livelli di sviluppo raggiunti dalle anime da quella spirituale dell’Io. Quale valore può avere, del resto, il riconoscimento “formale” (giuridico) dell’universalità di tali diritti se non si è convinti di quello “sostanziale” (spirituale) dei loro portatori? Se non si è convinti, ossia, che in ogni Io individuale viva realmente l’Io universale, o che l’homme – per dirla con Pascal – passe l’homme? Di quali mai diritti potrebbero essere infatti portatori degli esseri che la scienza attuale ci presenta o come dei “motori – meccanici, termici, chimici o elettrochimici – che prendono dall’ambiente circostante energia di buona qualità e gliela restituiscono degradata”, o come degli “psicozoi”, o come degli “informivori”, o, in tutti i casi, come dei casuali e “congelati incidenti” evolutivi? (Cfr. nota: Il cervello, la mente e l’anima, 15 gennaio 2002).
Con ciò – sia chiaro – non abbiamo voluto far altro che ricordare (soprattutto ai giovani cui si rivolge Padoa-Schioppa) che un mondo migliore sarà possibile soltanto se saranno possibili dei pensieri migliori.
Durante la prima guerra mondiale – ricorda in proposito la Rihouet-Coroze – Steiner “si sforza di recare conforto e prima di tutto di far capire cosa sta accadendo. Se la prende con la paralisi del pensiero, a causa della quale la violenza sta avendo il sopravvento nel mondo. Non ci si accorge nemmeno che la parola libertà, brandita come uno stendardo per il quale ci si batte, è il contrario della vera libertà. La situazione che regna lo porta a porre di nuovo l’accento sul pensiero, giacché “sono i falsi pensieri che generano gli atti falsi”. Lotta contro il male aggredendolo alla radice: la menzogna” (op.cit., p.259).
E’ possibile un mondo migliore?
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