Vito Mancuso apre il libro (Il dolore innocente – Mondadori, Milano 2002) con questa domanda: perché i portatori di handicap “nascono così?” (p.5), e lo chude con questa risposta: “Perché ci sia la libertà, perché gli esseri umani possano essere liberi. Agli uomini alcuni dei loro figli nascono così perché essi sono liberi; ma liberi vuol dire fragili, esposti al nulla. L’handicap è il prezzo che si paga a una creazione libera, lo stesso prezzo pagato dal Padre con l’immolazione del Figlio ab origine mundi” (p.209).
Ma il problema rimane. Infatti, se tutti gli uomini sono “liberi”, “fragili” ed “esposti al nulla”, perché alcuni nascono “disabili”, e altri no? E per quale ragione, poi, la libertà potrebbe renderli soltanto “fragili” ed “esposti al nulla”, e non anche “forti” ed “esposti all’essere” (o allo spirito)?
Scrive Mancuso: “Filosoficamente parlando (…) Dio non coincide con l’essere, è al di sopra dell’essere” (p.29). Ma non è Dio a dire a Mosè: “Io sono colui che sono” e a comandargli di annunciare agli Israeliti: “Io-sono mi ha mandato a voi” (Es 3,14)? La verità è un’altra: come il mondo antico non vedeva l’essere come io, così il mondo moderno non vede l’io come essere (come spirito).
“Contrariamente alle religioni orientali, – osserva l’autore – le quali si caratterizzano per un’idea di Dio come assoluto impersonale (…) le religioni monoteiste (…) conoscono l’assoluto come soggetto personale” (pp.51-52); e così ribadisce: “A differenza delle religioni indiane, per le quali il divino ultimamente non è una persona ma l’energia dell’universo, il cristianesimo conosce l’assoluto sotto la forma della personalità, della coscienza, del soggetto che dice io” (p.56).
Anche l’uomo, però, e non solo l'”assoluto”, è un “soggetto che dice io“. Certo, una cosa è l’io dell'”assoluto”, altra quello dell’uomo. Ma tale differenza – chiediamoci – è nella natura stessa dell’io o nel tipo di coscienza che l’uomo moderno ne ha? Su quale coscienza dell’io può contare infatti quest’ultimo? E’ presto detto: su quella fisica (corporea) o su quella psicologica (animica).
Ciò che è “fuori discussione – afferma in proposito Mancuso – è che (…) la dimensione corporea e la dimensione psichica non risolvono l’intera realtà dell’uomo, la quale si attinge solo ponendo anche la dimensione spirituale” (pp.135-136). D’accordo, ma dove porre tale dimensione, se non nell’io? Si ha forse timore, così facendo, di annullare la distanza (gerarchica) vigente tra l’io dell'”assoluto” e quello dell’uomo? Ma se tale distanza non si annulla quando si parla, ad esempio, dell’io (dell’essere) degli Arcangeli o degli Angeli, per quale ragione dovrebbe invece annullarsi quando si parla dell’io (dell’essere) dell’uomo?
“Prima (…) di entrare nella dimensione teologica, – dice l’autore – occorre riflettere sul fondamento dell’affermazione della pari dignità ontologica dei portatori di handicap. Certo, si tratta di una nobile asserzione e, in un contesto quale quello odierno dell’Occidente, anche sostanzialmente facile e gratificante per chi la fa. Ma su che cosa si basa? Qual è il pensiero che la fonda? In base a che cosa è possibile affermare che un handicappato, per esempio un soggetto autistico che neppure riconosce sua madre e suo padre, gode dello stesso valore d’essere di ogni altro uomo?” (p.13).
In base al fatto – possiamo rispondere – che si tratta di un io, e che è appunto l’io ad avere lo “stesso valore d’essere di ogni altro uomo”, e a fare quindi “della vita una vita umana” (p.15).
La scienza dello spirito distingue infatti, in ogni essere umano, l’io (lo spirito), l’anima e il corpo. E come un pianoforte difettoso non infirma affatto il valore del pianista, ma gli impedisce soltanto di manifestarsi, così un corpo e un’anima “difettosi” non infirmano affatto il valore dell’io, ma gl’impediscono soltanto di manifestarsi.
Se si pensa di dare così vita a un dualismo, si sbaglia. Si dà forse vita a un dualismo, allorché si distingue, ad esempio, l’acqua dal ghiaccio? No, perché l’acqua non è che ghiaccio allo stato liquido, così come il ghiaccio non è che acqua allo stato solido. Ci sembra importante ricordarlo, perché non si verrà mai a capo di niente finchè si continuerà a parlare di Dio e dell’uomo senza tener conto delle diverse Gerarchie spirituali, o dell’essere e del nulla senza tener conto dei diversi stati.
Mancuso sostiene – come abbiamo visto – che Dio è “al di sopra dell’essere”. E’ vero, ma cosa può esserci “al di sopra dell’essere”, se non un altro essere? E ciò non vuol dire che sarebbe necessario allora distinguere, dell’essere, i diversi stati, livelli o gradi? Cosa accadrebbe, infatti, se, trattando degli elementi, si considerassero il “fuoco” e la “terra”, e non l'”aria” e l'”acqua”: se non si considerasse, cioè, che è il “fuoco” a farsi “aria”, l'”aria” a farsi “acqua”, l'”acqua” a farsi “terra”, e che la “terra” non è perciò che il più basso stato, livello o grado del “fuoco”? Un uomo morto, d’altronde, uno che dorme, uno che sogna e uno che veglia, non sono forse tutti uomini? E in cosa differiscono tra loro? Appunto nei diversi stati, livelli o gradi dell’essere. Una cosa, infatti, è l’essere morto (minerale), altra l’essere vivente (vegetale), altra ancora l’essere sognante (animale), e altra infine l’essere vegliante (umano). In ogni uomo convivono tutti questi “esseri” (detti da Steiner, nell’ordine, “fisico”, “eterico”, “astrale” e “spirituale”); quello spirituale, però, nasce soltanto là dove l’essere approda alla veglia e, con la veglia, alla coscienza di sé: soltanto là, ossia, dove perviene all’autocoscienza (e dice quindi: io).
“Lo spirito – dice Mancuso – è la materia divenuta consapevole di sé” (p.207). Anche questo è vero, ma la materia, per poter assurgere all’autocoscienza, non si è dovuta fare prima “vita” e poi “coscienza”? Non si legge appunto in Giovanni (1,3-5): “In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini”?
“Quando nasce la consapevolezza dell’io, – dice ancora – in quello stesso istante l’io comprende di dover trovare la sua casa, la sua dimora originaria, perché qui, in questo orizzonte del tempo e dello spazio, sente di non essere a casa, o perchè è fatto per l’al di là, oppure perché non si rende conto che la sua casa è proprio il qui e ora, è proprio questo universo interamente divino. Si tratta o di essere salvati dalla morte, come vogliono le religioni monoteistiche, o di essere salvati dalla vita, di uscire cioè dal carcere del ciclo delle esistenze, come vogliono le religioni di origine indiana. Il punto discriminante è l’io, la persona, se l’essere una persona sia un bene oppure un male” (pp.73-74).
Come si vede, vengono qui messi in luce gli opposti caratteri di quelle due entità (o di quei due “serpenti”, come preferirebbe forse dire Mancuso) che Steiner chiama “Lucifero” e “Arimane”, e indica nei due “ladroni” crocifissi, sul Golgota, ai lati del Cristo: quello a destra (Lucifero) “ruba” infatti all’uomo l’al di qua (la vita naturale); quello a sinistra (Arimane) “ruba” invece all’uomo l’al di là (la vita spirituale).
“Il bene – scrive inoltre – non è lo spirito, come dicono gli gnostici, non è lo spirito sic et simpliciter, ma l’unione di natura e spirito, la natura spiritualizzata, lo spirito incarnato (…) Non è vero perciò che più si sale a livello spirituale più si trova Dio. Si può salire a livello spirituale e incontrare Satana, che sa “travestirsi da angelo di luce”” (p.180). E’ vero: si può salire (con gli idealisti) “a livello spirituale e incontrare” Lucifero, così come si può scendere (con i materialisti) “a livello” naturale e incontrare Arimane. Ma ciò tanto più facilmente accade quanto più si procede, nell’una o nell’altra direzione, senza il sostegno di quell’io nel cui cuore è il Cristo e di quel pensiero nella cui vita è lo Spirito di verità.
“Occorre – dichiara Mancuso – leggere spiritualmente la natura, e occorre leggere naturalmente, materialmente, lo spirito” (p.180). Siamo pienamente d’accordo. Ma perché non si accetta allora la scienza dello spirito: ovvero, l’unica “via della conoscenza” che abbia già dimostrato (per esempio, con la medicina antroposofica o l’agricoltura biodinamica) di saper appunto “leggere spiritualmente la natura” e “naturalmente, materialmente, lo spirito”?
“I problemi della nostra vita di uomini, – dice ancora l’autore – i problemi cioè che solo gli esseri umani hanno e possono avere in quanto esseri umani, toccano l’interiorità, ciò che un tempo si conosceva come anima, e come tali non sono di competenza della scienza. O meglio, non della scienza sperimentale, ma di un’altra scienza, la scienza dell’anima” (p.21).
Ma perché quest'”altra scienza” dovrebbe essere una scienza dell’anima (psicologica), e non dello spirito (pneumatologica)? E per quale ragione, inoltre, non dovrebbe essere, anche sul piano interiore, “sperimentale”?
Non si riconosce l’origine della scienza nella vita degli uomini – scrive a questo proposito Steiner – “se si considera l’oggetto al quale la scienza si rivolge, ma la si trova bensì nell’attività dell’anima umana che si manifesta nello sforzo conoscitivo. Occorre appunto concentrare l’attenzione sul comportamento dell’anima, in quanto acquista scienza. Se ci si abitua a mettere in moto tale attività soltanto quando si tratti di oggetti accessibili ai sensi, è facile acquistare l’opinione che l’essenziale sia la percezione sensoria. E si trascura di rilevare che un certo atteggiamento dell’anima è stato per l’appunto applicato solamente alle manifestazioni sensibili. Ma si può andare oltre questa arbitraria autolimitazione, e considerare il carattere dell’attività scientifica, indipendentemente dal caso particolare della sua applicazione. In questo senso si parla qui di una conoscenza “scientifica” di fenomeni non sensibili; e di questi fenomeni l’attività pensante dell’uomo vuole occuparsi, come, nell’altro caso, essa si occupa dei fenomeni che sono l’oggetto della scienza naturale” (La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969, p.31).
“La vita – afferma Mancuso (in un paragrafo significativamente intitolato: Lo scacco del pensiero) – non conosce alcuna ragione pura”. Non ha torto: è infatti la morte a conoscerla, in veste di ragione matematica o geometrica. E’ proprio però questo “Lazzaro”, o pensiero morto (in quanto espressione dell’intelletto vincolato all’apparato neurosensoriale o, per meglio dire, alla neocorteccia) che è chiamato (dal Cristo) a risorgere, per poter conoscere non solo la realtà della morte (quella inorganica), ma anche, e con non minore rigore, quelle della vita, dell’anima e dello spirito.
“Troppo spesso – dice in proposito Mancuso – la forma del pensiero cristiano è stata, ed è, di tipo intellettuale, non mistico; ha perseguito la dimostrazione, non l’unione con Dio; come d’altro lato troppo spesso la mistica e la spiritualità hanno coltivato solo il sentire, non il pensare. Occorre ricercare un pensiero la cui finalità sia quella di trascendersi, di approdare all’unione con Dio; e insieme occorre ricercare un’unione con Dio che continui a esercitare, imperterrita, la dimensione del pensare” (pp.199-200).
Ma questa (lo saprà Mancuso?) è esattamente la finalità del pensiero scientifico-spirituale, e appunto il motivo per cui Steiner esorta a educare e sviluppare, attraverso lo studio e la pratica interiore, quei gradi di coscienza (detti “immaginativo”, “ispirativo” e “intuitivo”) che, stando spiritualmente al di sopra del grado intellettuale (o rappresentativo), corrispondono rispettivamente a quelli del sogno, del sonno e della morte che ne stanno naturalmente al di sotto.
Quale altro pensiero, del resto, è oggi in grado di fronteggiare l’attacco che l’infero connubio fra le forze luciferiche e quelle arimaniche sta con sempre maggior forza portando, tanto sul piano teorico che su quello pratico, alla coscienza e alla vita degli uomini?
Ci spiace dirlo, ma proprio Mancuso prova che non c’è ormai teologia o filosofia che si mostri immune da tale contaminazione. Egli infatti, pur non trascurando di mettere lucidamente e acutamente in rilievo i limiti della scienza materialistica, finisce però col mutuarne il concetto di “caso”: ovvero (e con buona pace di Monod), la “foglia di fico” con la quale tale scienza ricopre, in specie per quel che riguarda l’uomo, la propria ignoranza (cfr. nota: Il cervello, la mente e l’anima, 15 gennaio 2002).
“Ogni secondo – scrive ad esempio – nascono un milione di cellule nel nostro corpo. Tra questi milioni e milioni di mitosi cellulari avviene una mutazione, che una cellula cioè non replichi se stessa in modo corretto. Il più delle volte queste cellule mutate vengono distrutte dal sistema immunitario. Un giorno però può accadere che le cellule mutate abbiano la meglio, che siano loro, e non i globuli bianchi, a vincere la battaglia. E’ l’inizio del cancro. Ed è solo un esempio, tra gli infiniti che si possono fare, che illustra le condizioni di pericolo sotto le quali costantemente viviamo. Siamo in balia del caso. E qui non è Dio che ci può guarire, ma solo gli uomini” (p.159).
Ma è forse così – domandiamo – che si legge “spiritualmente la natura” e “naturalmente, materialmente, lo spirito”? “Della natura in sé – ammette – la teologia non sa più parlare” (p.40). Non è però che non ne “sappia” più parlare; è che sa di non “poterlo” più fare astrattamente o lucifericamente. Ed è di questo che la scienza approfitta per parlarne allora materialmente o arimanicamente.
Ma perché saremmo “in balia del caso”? Perchè – spiega Mancuso – “Dio non agisce nella natura ma solo nella dimensione dello spirito, la quale non è ontologicamente diversa dalla dimensione naturale ma è la stessa dimensione naturale giunta alla coscienza e alla libertà” (p.191).
Se la “dimensione dello spirito” non è però “ontologicamente diversa” da quella della natura, in quanto “è la stessa dimensione naturale giunta alla coscienza e alla libertà”, anche il Dio che agisce nella dimensione dello spirito non è allora “ontologicamente diverso” da quello che agisce nella dimensione della natura, in quanto è lo stesso Dio giunto “alla coscienza e alla libertà”. La qualcosa ben illustra, peraltro, il carattere “Uno e Trino” del Dio cristiano. E’ infatti il Padre ad agire nella dimensione (incosciente e necessaria) della natura, è invece lo Spirito Santo ad agire in quella (cosciente e libera) dello spirito, ed è infine il Figlio a mantenere in vivo e reciproco rapporto (nell’anima) queste due opposte realtà: a far sì, ossia, che la dimensione naturale possa trasformarsi, senza posa e senza limiti, in quella spirituale.
“Dio, Dio Padre, – dice ancora Mancuso – è assente. E’ l’assente” (p189). Ma in tanto è “assente” dalla normale coscienza di veglia, in quanto è appunto presente nella sfera della natura (del corpo), e quindi in quella dell’incoscienza o del sonno (nella sfera, cioè, in cui s’intesse il destino). Si potrebbe anche dire, volendo, che il cammino evolutivo dell’uomo risale, nel suo primo movimento, dal Padre (dal volere), attraverso il Figlio, allo Spirito Santo (al pensare), per discendere poi, nel secondo, dallo Spirito Santo (“sia santificato il tuo nome”), attraverso il Figlio (“venga il tuo regno”), al Padre (“sia fatta la tua volontà”), e che solo al compimento di questo secondo movimento si avrà la “resurrezione della carne”: ossia, la redenzione, la spiritualizzazione o l’umanizzazione della terra (“come in cielo, così in terra”).
Alcune idee di Mancuso sono comunque assai vicine a quelle di Steiner. Una concerne, ad esempio, la necessità di distinguere il Dio-Padre dal Dio dell’Antico testamento (che, alla luce dell’indagine scientifico-spirituale, risulta essere un’entità della seconda Gerarchia e, più precisamente, una “Dominazione” o uno “Spirito della forma”). Scrive infatti: “Ma è veramente ancora possibile, come si è fatto per secoli senza la minima criticità, continuare a identificare Dio Padre, sorgente della vita trinitaria, con il Dio d’Israele?” (p.192).
Un’altra concerne invece gli “attributi” divini dell’onnipotenza, dell’onniscienza e dell’amore. “Dei tre attributi costitutivi della divinità – scrive appunto – (bontà, conoscibilità, onnipotenza) possono essere messi in questione la conoscibilità e l’onnipotenza, ma in nessun modo la bontà” (p.85). Dice infatti Steiner che Dio ha accettato di condividere con Lucifero l’onniscienza e con Arimane l’onnipotenza, ma ha conservato per sé l’amore.
Ancora un’altra concerne infine il carattere stesso del Cristianesimo. “Cristo – afferma infatti – non salva attraverso il suo insegnamento, ma attraverso la sua morte in croce (…) Non c’è nessuna dottrina, c’è un evento” (p.76). Ebbene, anche se sarebbe stato più opportuno dire che il Cristo salva “attraverso la sua morte in croce” e la sua resurrezione, tale affermazione ci ricorda comunque che Steiner, a uno dei suoi libri più importanti, ha dato appunto questo titolo: Il cristianesimo come fatto mistico e i misteri antichi (Antroposofica, Milano 1988).
Ma è tempo, ormai, di tornare al problema dell’handicap. E’ infatti in rapporto ai suoi portatori, all’idea del karma e a quella della reincarnazione che Mancuso fa il suo unico ed esplicito riferimento a Steiner. “Una moderna ritrascrizione di queste idee – scrive – si ha negli scritti di Rudolf Steiner, il fondatore dell’antroposofia nonché curatore degli scritti scientifici di Goethe, secondo il quale “l’indagine scientifico-spirituale ci indica che nella forma di un corpo umano, che entra con la nascita nell’esistenza, possiamo vedere all’incirca quali azioni l’uomo abbia compiuto in una vita precedente”. Il concetto di karma, in tutti coloro che ammettono la reincarnazione, garantisce il più perfetto ordine cosmico, perché non c’è nulla di ingiusto che non trovi, in questa o nelle vite successive, il meritato castigo. Di cui la malattia Karmica dell’Handicap è un’esemplare manifestazione” (p.51).
Orbene, il riferimento è sostanzialmente corretto, salvo due particolari. Basta infatti consultare le pagine che Steiner dedica all’argomento in Teosofia (Antroposofica – Milano 1957) per accorgersi di essere di fronte a ben altro che non a una mera e “moderna ritrascrizione” delle antiche idee dell’induismo, del giainismo, del buddhismo, del sikhismo, della qabbalah o, in ambito cristiano, dei carpocraziani, del “grande Origene” o dei catari (pp.48 e 51). Non solo, ma consultando tali pagine e tutto quanto Steiner ha scritto e detto al riguardo, sarà molto difficile trovare un passo in cui egli parli del karma come di un “meritato castigo”.
Perché Mancuso ne parla allora in questi termini?
Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro e ricordare – con le sue stesse parole – quanto insegna il Cattolicesimo riguardo alla nascita di ogni essere umano: “l’uomo costituisce il momento privilegiato della creazione, dove è in gioco l’immagine e la somiglianza con Dio. La sua anima è creata dal nulla direttamente da Dio, al momento stesso del concepimento o subito dopo”; il Catechismo della Chiesa Cattolica così infatti compendia tale insegnamento: “La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è prodotta dai genitori – ed è immortale; essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della resurrezione finale” (p.127).
Orbene, tralasciamo il problema della creazione “dal nulla”, che è stata già messa peraltro in discussione, e con fondati motivi, da Emanuele Severino (cfr. Il mio scontro con la Chiesa – Rizzoli, Milano 2001), e limitiamoci a osservare che, alla luce di un siffatto insegnamento, la nascita di un handicappato – come rileva Mancuso – può unicamente avvenire: o perché Dio la vuole per punire, insegnare o salvare; o perché Dio non la vuole, ma la permette o non può impedirla. E abbiamo già visto, nella conclusione del suo lavoro, che egli opta per la seconda di queste due ipotesi, essendo convinto che Dio si sia “ritirato” dalla creazione (dalla natura), e l’abbia lasciata per ciò stesso libera e “in balia del caso”. “La libertà – scrive infatti – è il prezzo che lo Spirito paga per il suo anelare alla nascita dello spirito. La creazione, quindi, è la posizione della libertà, ma la libertà, a sua volta, dato che è veramente tale, è la posizione della contraddizione, di una natura cioè che genera, casualmente, sia il bene che il male” (p.161).
Ci sarebbe anche qui da discutere sul “casualmente”, ma lasciamo stare. Cerchiamo piuttosto di capire per quale ragione Mancuso escluda che Dio possa volere la nascita di un handicappato per punire o insegnare.
In effetti, se si parte dal presupposto che Dio crea l’anima dell’handicappato dal nulla, e “al momento stesso del concepimento o subito dopo”, la salvezza potrebbe ancora riguardare il nascituro, mentre la punizione e l’insegnamento devono per forza avere di mira qualcun’altro. Non si vede, infatti, quale punizione possa meritare un essere che viene creato dal nulla, e di quale insegnamento possa beneficiare un essere che, a causa del suo stato, non sembra in grado (almeno a prima vista) di apprendere alcunché.
Appunto per questo, Mancuso mette in rapporto la punizione e l’insegnamento, non con l’handicappato, ma con coloro cui questa creatura si “mostra” (tanto da ricordare che “l’originario carattere rivelativo sotteso alla parola mostro (…) deriva dal verbo monstrare“) (p.65). Con i genitori, anzitutto, affinché, mediante un figlio del genere, “scontino” i loro peccati (ed ecco la punizione) oppure si ravvedano e si convertano (ed ecco l’insegnamento). In tutti e due i casi, però, l’handicap – come non manca di rilevare Mancuso – può vantare un senso per gli altri, ma non per il suo portatore (che viene ridotto anzi a “mezzo”).
La salvezza – come si è detto – potrebbe invece riguardarlo, poichè – spiega l’autore – “chi soffre, soprattutto se non merita di soffrire, è unito a Dio come nessun altro, perché Dio ha rivelato sommamente se stesso nella croce di Cristo, cioè, per l’appunto, nel vertice della sofferenza innocente” (p.80).
Qui la cosa si fa ancor più delicata, in quanto, parlando del Cristo, non si dovrebbe mai omettere di sottolineare che la “sofferenza innocente” e la morte sono, non solo l’imprescindibile presupposto della resurrezione, ma anche il frutto, a beneficio dell’uomo e del mondo, di una libera scelta d’amore. Il che non vale, purtroppo, per la sofferenza del portatore di handicap. A maggior ragione, poi, se la si ritiene senza “senso” (p.204), in quanto frutto di un “casuale” errore di natura.
Fatto si è che Mancuso, riuscendo a concepire la “malattia karmica” soltanto come un “meritato castigo”, si preclude ogni possibilità d’intenderla, per così dire, “pedagogicamente”: ovvero, come un insegnamento che (nel quadro – ovviamente – delle ripetute vite terrene e dello spirito cristiano) discende unicamente da una volontà d’amore (analoga a quella che anima, ad esempio, ogni ammaestramento, anche severo, dato dai genitori ai figli).
A sostegno della tesi che il Cristo escluda “il pensiero di vite precedenti”, “l’idea buddhista delle malattie karmiche” (p.142) e il “nesso malformazione-peccato” (p.143) Mancuso riporta il seguente passo del Vangelo: “E passando vide un uomo cieco fin dalla nascita. E i suoi discepoli gli domandarono: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, per esser nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui, né i suoi genitori hanno peccato, ma è così, perché si manifestino in lui le opere di Dio” (Gv 9,1-3).
Ebbene, se è convincente che il Cristo, con tale risposta, abbia inteso escludere che la malformazione fosse un “meritato castigo”, non è invece convincente che abbia voluto anche escludere – come sostiene Mancuso – il “nesso malformazione-peccato”. Dicendo: “Né lui, né i suoi genitori hanno peccato”, non viene infatti escluso che possa aver peccato qualcun’altro. Certo, se si parte dal presupposto che ovunque ci sia un peccato c’è una punizione, e che ovunque ci sia una punizione c’è un peccato, è allora logico che, negando la punizione, si neghi anche il peccato. Ma per quale ragione ovunque ci sia un peccato non potrebbe esserci, anziché una punizione, un caritatevole soccorso o un’amorevole correzione? Si rifletta: “Nè lui, né i suoi genitori hanno peccato”. Ma che bisogno ha il Cristo, riguardo al “lui”, di fare un’affermazione tanto ovvia? Non sta infatti parlando di un essere “cieco dalla nascita”, e quindi di un essere che non può di sicuro aver peccato in questa vita? E quando allora (essendo improbabile che possa averlo fatto durante la vita intrauterina), se non in una precedente? In una vita precedente, infatti, “lui”, in quanto ego (personalità storica o, se si vuole, “fenomeno”), non era “lui”, ma un altro, pur al contempo restando, in quanto Io (entità spirituale o, se si vuole, “noumeno”), sempre lo stesso (non diciamo altro, perchè abbiamo già trattato di questo nella nota dedicata all’Hegel teologo)
Dice al riguardo Mancuso: “Se è chiarissima la parte negativa del pensiero di Gesù, se non vi possono essere dubbi su quanto viene da lui escluso (vale a dire, la punizione e il peccato – nda), non è però altrettanto chiara la parte positiva del suo pensiero” (p.143). Quali “opere di Dio” – si chiede appunto – si manifestano nel cieco nato? Almeno due, crediamo di poter rispondere: opera di Dio (mediata dalle Gerarchie) è infatti l’elaborazione e l’attuazione del karma, e opera di Dio è il potere conferito al Cristo (all’amore) di scioglierlo e superarlo (e di essere così – come dice Steiner – “il Signore del karma“).
Per quale ragione, Mancuso non adotta dunque questa prospettiva? Perché preferisce affidarsi al caso piuttosto che al karma? Lo dice egli stesso: “L’esistenza del male, Dio come creatore, Dio come amore, l’unicità di questa vita: questi sono i quattro presupposti, tutti irrinunciabili, tenere insieme i quali appare molto difficile, forse impossibile. Come pensare infatti che Dio, che è amore, possa volontariamente creare l’unica esistenza di un essere umano così segnata irrimediabilmente dal male?” (p.137).
Ma perché tali presupposti sono “irrinunciabili”? Lo sono – inutile dirlo – perchè rinunciando anche a uno solo di essi (come insegna, peraltro, la già ricordata vicenda di Severino) non si sarebbe più in linea con la dottrina della Chiesa cattolica, e quindi non si avrebbe più speranza di salvezza (ove valesse, naturalmente, il principio dell’extra Ecclesia, nulla salus). Ma cosa significa questo? Significa che, in fondo (ci perdoni Mancuso, ma ci permettiamo di dirlo proprio perché animati da fraterna comprensione per il suo travaglio di cattolico e di padre), siamo portati a pensare più a noi stessi che al fenomeno che ci sta davanti. Per comprendere davvero un fenomeno (sia pur esso quello del portatore di handicap), è necessario però amarlo e, per cominciare ad amarlo, è necessario pensarlo, andando oltre se stessi, in modo libero e spregiudicato. L’unico presupposto invero “irrinunciabile” è infatti costituito (goethianamente) dalla verità o dall’essenza del fenomeno stesso (dal suo “noumeno”).
Dice appunto il Cristo: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,24).
Il dolore innocente
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