“”Logicamente l’uomo sa che cosa è un concetto, ma ignora che cosa esso sia come forza e come nasca e quale il suo potere di compimento nel reale””
Massimo Scaligero
(Tecniche della concentrazione interiore – Mediterranee, Roma 1985, pp.9-10)
Scrive Steiner: “Possiamo comprendere solo ciò che è dotato di contenuto, non ciò che ne è privo. Se dunque dobbiamo afferrare il concetto di volontà, esso deve pure apparirci nel contenuto dell’idea; può apparire soltanto nell‘idea e con l’idea, quale forma del suo manifestarsi, non mai indipendentemente. Quel che esiste deve avere un contenuto; un vuoto essere non può esistere. Perciò Goethe rappresenta l’idea come attiva, efficiente, non più bisognosa di alcuna spinta. Poiché ciò ch’è pieno di contenuto non può e non deve attendere una spinta ad entrare nell’esistenza da qualcosa che sia privo di contenuto. Perciò, secondo Goethe, l’idea va intesa quale entelechia, vale a dire già come un’esistenza attiva; e da questa sua forma di esistenza attiva si dovrebbe prima fare astrazione, se poi si vuole di nuovo ritrovarla sotto il nome di volontà“” (Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.166).
L’idea, in quanto unità di forma e di forza (di contenuto), è dunque una entelechia o una entità. “La realtà – puntualizza infatti Steiner – consiste dappertutto in entità; e ciò che in essa non è entità, è attività che si esplica nella relazione fra un essere e un altro” (Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.106).
Chi divida la forma dalla forza (chi “astragga” cioè l’idea dalla sua “esistenza attiva”), avrà allora, da una parte (da quella dell’intelletto), l’idea come una forma priva di forza (come un non-essere determinato) e, dall’altra (quella della sensibilità), il contenuto della percezione (il percetto) come una forza priva di forma (come un essere indeterminato).
In Kant, troviamo infatti, sul versante dell’intelletto (della “logica trascendentale”), le idee o categorie quali “forme a priori” (ordinanti la realtà fenomenica) e, su quello della sensibilità (dell’”estetica trascendentale”), i contenuti della percezione quali “cose in sé”, ordinate, in prima istanza (immediatamente), dalle “forme a priori” (o “intuizioni sensibili”) dello spazio e del tempo (intesi, quindi, non come modi di essere delle cose, ma come modi in cui il soggetto le coglie sensibilmente).
“”Senza sensibilità – scrive appunto Kant – nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”” (Critica della ragion pura – Laterza, Bari 1966, vol. I, p.94); e aggiunge: “”Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori”” (ibid., p.58).
Le categorie, che erano per Aristotele attributi, predicati o determinazioni ultime dell’essere dell’oggetto, non sono dunque, per Kant, che funzioni intellettuali del soggetto.
“”Per la metafisica classica – notano appunto Reale e Antiseri – “”trascendentali”” erano le condizioni dell’essere in quanto tale, ossia quelle condizioni togliendo le quali si toglie l’oggetto stesso; ma, dopo la rivoluzione kantiana, non è più possibile parlare di condizioni dell’oggetto in sé, ma solo di condizioni dell’oggetto-in-relazione-al-Soggetto; pertanto il trascendentale si sposta dall’oggetto al Soggetto. In conclusione, “”trascendentale”” è ciò che il Soggetto mette nelle cose nell’atto stesso del conoscerle…”” (Il pensiero occidentale dalle origini a oggi – La Scuola, Brescia 1983, vol. II, p.657).
Come abbiamo visto, Steiner dice che “si dovrebbe prima fare astrazione” dall’idea quale entelechia, “se poi si vuole di nuovo ritrovarla sotto il nome di volontà“”. Ebbene, Kant, facendo appunto astrazione dall’idea quale entelechia (considerandola cioè mera forma), se la ritrova poi di nuovo, non sotto il nome di “”volontà””, ma sotto quello di “”cosa in sé””. Ma i due termini sono sostanzialmente equivalenti. Scrive infatti Schopenhauer: “”Ciò che Kant chiama la cosa in sé, contrapponendola al mondo fenomenico, da me chiamato in modo più deciso rappresentazione, e che egli ritiene puramente e semplicemente inconoscibile, dico, questa cosa in sé, questo sostrato di tutti i fenomeni e quindi dell’intera natura, altro non è che quella realtà a noi ben familiare ed immediatamente nota che nell’interno del nostro proprio io troviamo come volontà“” (La volontà nella natura – Laterza, Roma-Bari 1989, p.28).
Goethe vede dunque la forma nella forza e la forza nella forma (il pensare nel volere e il volere nel pensare), mentre Kant e Schopenhauer vedono la forma fuori della forza e la forza fuori della forma (il pensare fuori del volere e il volere fuori del pensare); e la forma fuori della forza si dà loro quale “rappresentazione”, mentre la forza fuori della forma (e da questa irraggiungibile) si dà loro, rispettivamente, quale “cosa in sé” e “volontà”.
E’ vero: l’entelechia si presenta alla percezione (attraverso il corpo) come una forza priva di forma (come un percetto “reale” e indeterminato) e all’intelletto (attraverso lo spirito) come una forma priva di forza (come un concetto “ideale” e determinato), ma sta appunto all’uomo coniugare, nella propria anima (mediante l’attività del conoscere o del giudicare), la forza tenebrosa (dionisiaca) del percetto con la forma luminosa (apollinea) del concetto: sta all’uomo, ossia, ricostituire o ricreare quella unità originaria del reale che egli stesso ha infranto.