La via d’uscita

L
Tutti sanno che, privando il corpo dell’acido ascorbico, si va incontro all’avitaminosi C: vale a dire, allo scorbuto.
Ma quanti sanno che, privando l’anima dello spirito, si va incontro a malattie ben più perniciose?
Che cosa significa “privare l’anima dello spirito”? Significa: 1) persistere in quella “rimozione” dello spirito (vivente) che, a partire dal XV secolo, ha reso possibile, in Europa e nell’Occidente, la crescita e l’affermazione del moderno individualismo (dell’ego); 2) rifiutarsi di sviluppare una coscienza libera e individuale dello spirito: di sviluppare cioè l’Io muovendo dall’ego, o una viva coscienza spirituale muovendo dalla morta coscienza intellettuale; 3) restare “fissati”, nelle sue molteplici e non sempre esplicite forme, al materialismo
Ogni “fissazione” – come insegna la psicodinamica – comporta però il rischio di una “regressione”. L’ego e la modernità corrono infatti il pericolo di non essere aiutati a progredire e ad andare al di là di se stessi, bensì di essere costretti a regredire: cioè a tornare a un Io “di gruppo” e a una coscienza collettiva, basati sulla trascendenza e sull’autorità.
L’individualismo borghese (egoico), essendosi appunto rifiutato di crescere (nella seconda metà dell’Ottocento), nutrendosi dello spirito (vivente), è andato infatti incontro, durante il secolo successivo, ai “mali” del collettivismo comunista, fascista e nazista: ossia, a dei “mali” che, nonostante la loro diversità, erano accomunati dall’intento di eliminare l’uomo borghese per crearne uno “nuovo”.
“Sono stato predestinato dalla Provvidenza – affermava ad esempio Hitler – a diventare il più grande liberatore dell’umanità. Libero l’uomo dalla costrizione di una ragione diventata fine a se stessa; lo libero dagli sporchi ed avvilenti tormenti interiori di chimere chiamate coscienza e morale, e dalle esigenze di libertà e d’indipendenza personale, di cui solo alcuni sanno essere all’altezza. Alla dottrina cristiana che proclama l’importanza infinita della singola anima umana e della responsabilità personale, io oppongo con lucida chiarezza la dottrina della nullità e insignificanza dell’individuo e della sua sopravvivenza nell’immortalità visibile della nazione. Al posto del dogma della sofferenza e della morte di un Salvatore divino che si immola per la salvezza dell’umanità, propongo la vita e l’azione del Fuhrer, del nuovo legislatore, che libererà la massa dei credenti dal fardello del libero arbitrio” (1).
Si noti che Hitler dichiara qui di voler liberare l’uomo, ancor prima che dalla coscienza, dalla morale, dalla libertà e dall’indipendenza personale, da una “ragione diventata fine a se stessa”. Ma a questa, che è appunto l’astratta e formale “ragione” borghese, espressione di un pensare vuoto di volere, il nazismo ha forse opposto una diversa e superiore “ragione”? No, le ha soltanto opposto un volere vuoto di pensare.
“Dobbiamo diffidare dell’intelletto e della coscienza – asseriva appunto Hitler – e avere fiducia negli istinti. Dobbiamo riconquistare una nuova ingenuità. Veniamo etichettati come nemici dell’intelletto, Sissignore, lo siamo.” (2); e aggiungeva: “Non amo Goethe, ma a causa di una frase che ha detto, sono disposto a perdonargli molto: “All’inizio era l’azione” (…) Ho sempre imparato moltissimo dai miei avversari. Ho studiato la tecnica rivoluzionaria leggendo Lenin e Trozki e altri marxisti. E dalla Chiesa cattolica come dalla Massoneria ho ricavato dei suggerimenti che non avrei potuto avere in nessun altro luogo (…) Ho imparato soprattutto dall’Ordine dei Gesuiti. Del resto lo ha fatto anche Lenin, per quanto mi ricordo” (3).
Anche il fascismo ha condiviso questa “fiducia negli istinti” (nella volontà), a scapito della coscienza e del pensiero.
In una lettera al figlio, dell’aprile 1944, Giuseppe Bottai così confessa: “Noi fummo tratti a fidare soprattutto in noi; il che vuol dire sulla nostra volontà, che ci fece ritenere illimitata la nostra potenza creatrice, più che sulla nostra coscienza, che ce ne avrebbe mostrati i limiti. Di qui, il nostro “volontarismo”, il nostro “arditismo”, il nostro “combattentismo”, il nostro “ducismo”, che, ottimi moti in sé a contrastare l’inerzia della vecchia Italia postrisorgimentale, ci dettero una fiducia smodata nei mezzi più estrinseci e immediati dell’azione politica…Il nostro fare diventò, così, uno strafare; e sdegnosi di quella formula dei padri, secondo la quale la politica è l’arte del possibile, operammo come se la politica fosse l’arte dell’impossibile, del meraviglioso, del miracoloso” (4).
Basti infine ricordare la celebre formula gramsciana: “pessimismo del pensiero, ottimismo della volontà”, per realizzare che anche il comunismo, a dispetto della sua presuntuosa facciata scientistica e intellettualistica, ha privilegiato la volontà, l’azione o la “prassi”, a tutto detrimento della coscienza e del pensiero (puntando perciò sulla politica – per dirla con Bottai – come sull’”arte dell’impossibile, del meraviglioso, del miracoloso”).
Ebbene, l’Europa e l’Occidente hanno fatto forse tesoro della tragica lezione impartita loro dal Novecento? Hanno cominciato forse ad aprie le loro anime allo spirito (vivente), o il pensare al volere? O a partorire dal seno stesso dell’intelletto una nuova e moderna coscienza dello spirito? Niente affatto.
Come dunque l’individualismo borghese (egoico), essendosi rifiutato di assolvere tale compito nella seconda metà dell’Ottocento, ha patito, nel corso del Novecento, il collettivismo politico-ideologico comunista, fascista e nazista, così lo stesso, perseverando in quel rifiuto, rischia oggi di riprendersi la malattia in forma d’Islamismo: in forma, cioè, di un collettivismo politico-religioso che – guarda caso – è totalmente imperniato sulla volontà (e quindi sull’obbedienza) (5).
Con ciò – sia chiaro – non vogliamo dire nulla contro l’Islam, né tantomeno sostenere che rappresenti di per sé una “malattia”; intendiamo solo dire che la diverrebbe nel momento in cui venisse trapiantato in quelle anime europee e occidentali che sono già approdate alla distinzione (concettuale) tra la sfera della legalità e quella della moralità, e, per ciò stesso, alla libertà individuale e alla democrazia (6). Va osservato, inoltre, che tali anime, abbracciando l’Islam, non salirebbero, in campo noetico ed etico, da una spiritualità “particolare” a una spiritualità “universale” (tale quindi da accogliere e armonizzare le religioni delle “singole anime di popolo”), ma si limiterebbero, senza fare alcun salto di qualità, a sostituire una “particolarità” con un altra “particolarità”.
Ma per quale ragione tutte queste “malattie” hanno in comune il collettivismo? Perché il collettivismo non è – a ben vedere – che l’autoritaria contro-immagine (politica, ideologica o religiosa) di quella fraternitas che sorgerebbe spontanea ove le anime europee e occidentali s’impegnassero a integrare, individualmente e liberamente, l’esistenza nell’ego e nella coscienza intellettuale (per i quali l’altro è naturalmente un oggetto) con quella nel “Sé spirituale” e nella “coscienza immaginativa” (per i quali l’altro è spiritualmente un soggetto)
Abbiamo ritenuto opportuno dire queste cose perché il Giornale (7 dicembre 2002) ha pubblicato un articolo (a firma di Gian Micalessin e titolato: “L’Islam prepara la “marcia su Roma“) in cui si legge: “”Conquistare Roma e convertire l’Europa”. Il grido, sopito da secoli riecheggia, si riverbera, si propaga. Il fenomeno ha inizio ai primi di dicembre quando sul sito internet www.islamonline.net lo sceicco Al-Qaradhawi, considerato uno dei più ascoltati interpreti sunniti del Corano firma quella che ha tutto il tono di una fatwa. “Maometto, quando gli venne chiesto se sarà conquistata prima Costantinopoli o Roma, rispose Costantinopoli. L’altra città Roma rimane…e noi ancora speriamo…questo significa – spiega Al-Qaradhawi – che l’Islam ritornerà in Europa come conquistatore e vincitore dopo esservi stato espulso due volte”. Ribadendo concetti simili espressi in varie apparizioni negli studi di Al Jazira Tv, la televisione affermatasi come la Cnn del mondo arabo e musulmano, Al-Qaradhawi precisa che la conquista dell’Europa questa volta non sarà affidata alla spada bensì “alla preghiera e alla ideologia” (…) “L’Europa – secondo Al-Qaradhawi – capirà di soffrire a causa della sua cultura materialistica e cercherà una via d’uscita. A quel punto realizzerà che non vi è altra salvezza se non il messaggio dell’Islam e la parola del muezzin. L’Islam dunque ritornerà in Europa e gli europei si convertiranno” (…) Ma gli accenni più preoccupanti ad un’inevitabile conquista di Roma promessa dal profeta Maometto arrivano dalla Moschea di Al Aqsa di Gerusalemme. Qui il tema dell’allargamento dell’Islam fino alla piazza di S.Pietro è stato affrontato con toni altrettanto profetici dallo sceicco Yousef Juma’a Salameh. Le sue parole sono rimbombate sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme durante un sermone del venerdì seguito da migliaia di fedeli palestinesi considerati, solitamente, ben più moderati dei loro correligionari sauditi o dei frequentatori dei siti internet schierati su posizioni radicali. “Oggi Roma è la capitale d’Italia e Costantinopoli è Istanbul. La grande Costantinopoli è già stata conquistata e dopo quella vittoria molti hanno pensato all’inizio di una decadenza dell’Islam, ma – ha spiegato ai suoi fedeli Salameh – hanno dimenticato che l’Islam non ha ancora raggiunto il suo fine perché quel fine verrà raggiunto soltanto quando si spegnerà il Sole” (…) Passando per Gerusalemme la “nouvelle vague” islamica ispirata ad una profetica conquista di Roma e dei luoghi sacri del Vaticano è scesa fino alle piazze di Khartum. Qui è toccato allo sceicco sudanese Muhammad Abd Al-Kharim riempire di speranze espansioniste i cuori dei fedeli. “Gran parte di quanto il profeta ha raccontato si è già avverato portando i musulmani a conquistare la Persia e Bisanzio. Poi i musulmani hanno attaccato l’India spingendosi fino ai confini della Cina. In futuro l’Islam si allargherà ancora ed allora anche Roma verrà conquistata””.
Inutile dire che, dal nostro punto di vista, come non è auspicabile un “allargamento dell’Islam fino a piazza S.Pietro”, così non è auspicabile un “allargamento” del Cattolicesimo fino a La Mecca (7). E’ auspicabile, piuttosto, un “allargamento” della coscienza che l’uomo ha di se stesso (dell’autocoscienza), sicché, ad esempio, un cattolico possa vedere in un musulmano prima l’uomo (l’Io) e poi il “musulmano”, e un musulmano possa vedere in un cattolico prima l’uomo (l’Io) e poi il “cattolico”. Questo – s’intende – non in modo astratto, sentimentale o moralistico, bensì in modo realistico o “scientifico-spirituale”.
Al-Qaradhawi afferma che “l’Europa capirà di soffrire a causa della sua cultura materialistica e cercherà una via d’uscita”. Uno sceicco sunnita ha dunque capito quello che gli intellettuali o gli uomini di cultura europei ancora non sanno o non vogliono capire. Ma perché lo stesso afferma che “non vi è altra salvezza”, per l’Europa, “se non il messaggio dell’Islam e la parola dei muezzin”? Per la semplice ragione che le religioni e le chiese europee, essendo intrise come tutto il resto di materialismo, non possono certamente rappresentare una “via d’uscita”.
L’Europa e l’Occidente, dunque, se non vogliono illudersi di “uscire” dal loro materialismo attraverso l’antico spiritualismo (teocratico), non possono far altro che riallacciarsi a quell’aureo filone di pensiero e di cultura che Steiner chiama “goetheanismo”, e del quale l’universalismo della scienza dello spirito (o dell’antroposofia) non rappresenta che il frutto più maturo e prezioso.
“Il goetheanismo – osservava appunto Steiner nel 1918 – non è nazionale, non è tedesco (…) Esso si è nutrito di Spinoza, di Shakespeare, di Linneo, e nessuno dei tre era tedesco. Goethe stesso disse che quei tre spiriti influirono su di lui più di qualsiasi altro, e certamente in questo non si sbagliava. Chi conosce Goethe sa d’altronde quanto sia giustificata questa sua affermazione. Goethe comunque è esistito, e il goetheanismo è potuto sorgere; quest’ultimo potrebbe agire in ogni campo del pensiero umano, nella vita religiosa, in ogni ramo della scienza, potrebbe agire sugli organismi sociali della convivenza umana, e anche nella vita politica; il goetheanismo potrebbe agire dappertutto (…) Si può servire la propria epoca in tutti i modi, anche con un’attività infima, elementare; basta soltanto avere il coraggio di passare al goetheanismo che, a sua volta, si pone come un’Universitas liberarum scientiarum, accanto alle altre università antidiluviane, oggi da tutti idolatrate, ed in primo luogo dai socialisti più accesi” (8).


Note:

01) H.Rauschning: Colloqui con Hitler – Tre Editori, Roma 1996, pp. 206-207;
02) ibid., p.206;
03) ibid., pp.205 e 219;
04) G.B.Guerri: Giuseppe Bottai, fascista – Mondadori, Milano 1996, pp.221-222;
05) per questo, presumibilmente, Essad Bey, nel 1935 e nella prefazione all’edizione italiana della sua biografia di Maometto, arrivò a scrivere: “Il fascismo può, in un certo senso, esser chiamato l’Islam del secolo ventesimo” – cit. in Gino Cerbella: Fascismo e Islamismo – Maggi, stampatore editore in Tripoli 1938, p.11;
06) “l’illusione fatale, il grande peccato – insegnano invece i Sufi – è l’individualità” – G.F.Moore: Storia delle religioni – Laterza, Bari 1961, vol.II, p.483;
07) a proposito di “allargamenti”, il Giornale (10 dicembre 2002) riferisce, in un breve articolo dal titolo: Chiesa cattolica più pericolosa dell’Islam per la sicurezza nazionale della Russia, che una parte della bozza di un recente documento “elaborato da funzionari governativi ed esperti russi”, intitolata: “Valutazioni delle minacce alla sicurezza nazionale in relazione all’estremismo religioso”, è “corredata di una lista al primo posto della
quale figura la Chiesa cattolica”;
08) R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, pp.165 e167.

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Di Francesco Giorgi
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