Del “disgusto” di Dio

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In due delle nostre “noterelle”, avevamo commentato, tra il serio e il faceto, il fatto che don Oreste Benzi avesse pubblicato un libro intitolato: Ho scoperto perché Dio sta zitto (1).
Ma la cosa si è fatta adesso più seria poiché anche il Papa ha parlato del “silenzio di Dio”. Scrive infatti Andrea Tornielli: “L’umanità piagata dalla fame, sconvolta dalle carestie e dalle epidemie, ferita dalle guerre in atto e terrorizzata da quelle in preparazione, deve fare i conti con “una tragedia ancora maggiore”, quella del “silenzio di Dio”. Un Dio che “non si rivela più, e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dall’agire dell’umanità”. Giovanni Paolo II, nella consueta catechesi del mercoledì, spiega un brano di Geremia e parafrasando le parole del profeta conosciute come “Lamento del popolo in tempo di fame e di guerra” parla di Dio che appare muto e nascosto agli occhi degli uomini (…) Nella seconda parte della catechesi” Giovanni Paolo II approfondisce il tema, spiegando che questo “silenzio” di Dio è provocato dal rifiuto dell’uomo. Nel seguito del Cantico di Geremia, infatti, accade una svolta: “Il popolo ritorna a Dio e gli rivolge un’intensa preghiera”. “Riconosce innanzitutto il proprio peccato – dice il Papa – con una breve ma sentita confessione della colpa. Il silenzio di Dio era, dunque, provocato dal rifiuto dell’uomo. Se il popolo si converte e ritorna al Signore, anche Dio si mostrerà disponibile ad andargli incontro per abbracciarlo”” (2).
Anche il Papa è dunque convinto che sia Dio a essere diventato “muto”, e non l’uomo a essere diventato “sordo”. Il “rifiuto” di Dio da parte dell’uomo – afferma infatti – provoca il “silenzio” di Dio.
Ma chiediamoci: questo Dio “disgustato”, “muto e nascosto”, che “non si rivela più, e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo” è forse un Dio cristiano? O non appunto quello di Geremia? Ovvero un Dio che in tanto appariva “muto”, “nascosto” e “rinchiuso nel suo cielo” in quanto non si era ancora “fatto carne”, e quindi “rivelato”?
“Se il popolo si converte – dice il Papa – e ritorna al Signore, anche Dio si mostrerà disponibile ad andargli incontro per abbracciarlo”. Ma si può immaginare che il Cristo, cioè il Dio che si è reso tanto “disponibile” da farsi “uomo”, e che è andato “incontro” all’uomo tanto da lasciare il cielo per la Terra e da vivere nel cuore di ogni essere umano, si “disgusti”, ci ripensi e faccia marcia indietro (3)? No, non si può. C’è da immaginare, piuttosto, che “l’umanità piagata dalla fame, sconvolta dalle carestie e dalle epidemie, ferita dalle guerre in atto e terrorizzata da quelle in preparazione” perseveri diabolicamente nel crocifiggerlo e nell’infliggergli pene e dolori.
Già qualche anno fa, d’altronde, il teologo cattolico Bruno Forte apriva un suo lavoro chiedendosi: “Il Dio dei cristiani è un Dio cristiano? Questa domanda, in apparenza paradossale, nasce spontanea se si considera il modo in cui molti cristiani si raffigurano il loro Dio” (4). Orbene, se è già sconcertante che molti cristiani non si raffigurino il loro Dio in modo cristiano, ancor più sconcertante – ne converrà Bruno Forte – è che non se lo raffiguri così neanche il Papa. A ben vedere, infatti, la raffigurazione che ci viene proposta non è più quella del “Padre” dell’Antico Testamento, in quanto ha per oggetto il Cristo, ma non è ancora quella del “Figlio” del Nuovo Testamento, in quanto il Cristo viene rappresentato al modo del “Padre” dell’Antico Testamento. E che cos’è allora? E’ presto detto: una rappresentazione in “stile” vetero-testamentaria del Dio neo-testamentario (5).
Lo sconcerto raggiunge poi il culmine allorché ci si arriva a chiedere, come fa Vito Mancuso (un altro teologo cattolico): “E’ veramente ancora possibile, come si è fatto per secoli senza la minima criticità, continuare a identificare Dio Padre, sorgente della vita trinitaria, con il Dio di Israele? (…) Occorre porre la questione con coraggio e fermezza di spirito: la figura di quel Dio che per salvare l’israelita uccide l’egiziano, che per innalzare Israele fa strage delle nazioni circostanti, in che senso ha ancora a che fare con il Dio del NuovoTestamento? Come tenere insieme il Dio-amore che dà la sua vita con il Dio-forza che toglie la vita altrui?” (6).
Ma “come tenere insieme”, allora, il Dio “disgustato”, “muto e nascosto”, che “non si rivela più, e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo”, con il “Dio-amore” che si è invece “rinchiuso” nella nostra Terra e nei cuori umani senza mai cessare, benché inosservato e inascoltato, di rivelarsi?
Osserva a quest’ultimo proposito Steiner: “Il Cristo ha detto anche: Io sono con voi tutti i giorni, fino alla consumazione dei secoli (Mt, 28,20). Questa non è una vuota frase, è una verità. Il Cristo non si è rivelato solo tramite i Vangeli: il Cristo è presso di noi e si rivela di continuo. Dobbiamo avere orecchi per prestare ascolto a ciò che di nuovo Egli rivela in tempi sempre nuovi” (7). Allo stesso riguardo (ma in altra sede), lo stesso Steiner rammenta inoltre che Goethe, riferendosi al libro di Jacobi, intitolato: Delle cose divine e della loro manifestazione, così osservava: “ Come poteva essermi ben accetto il libro di un amico diletto in cui dovevo veder sostenuta la tesi che la natura nasconda Iddio? Con la mia pura, profonda, innata, sperimentata concezione, che mi aveva appreso a vedere infallibilmente Dio nella natura e la natura in Dio, sicché questa maniera di rappresentazione formava la base della mia esistenza, non doveva un’espressione così strana, unilateralmente limitata, allontanarmi per sempre, nello spirito, dal più nobile uomo il cui cuore devotamente amavo?” (8). Poco prima di rammentare queste parole di Goethe, aveva infatti spiegato: “Il Dio di Spinoza è il contenuto ideale del mondo, il principio motore che tutto spinge, sostiene e guida. Ora questo si può rappresentare in modo da presupporlo come un essere indipendente, per sé stante, separato dagli esseri finiti, che ha accanto a sé queste cose finite e le domina e pone in azione reciproca. Oppure ci si rappresenta questo essere effuso nelle cose finite, sì da esistere non più sopra o accanto ad esse, ma solo in esse. Questa concezione non nega affatto quel principio primordiale, lo riconosce pienamente, ma considerandolo effuso nel mondo. La prima delle due concezioni considera il mondo finito come manifestazione dell’infinito, ma questo infinito rimane sussistente nel proprio essere, non prodiga nulla di sé. Non esce da se stesso, rimane ciò che era prima della sua manifestazione. La seconda concezione considera pure il mondo finito come una manifestazione dell’infinito, solo presuppone che questo infinito, nel suo manifestarsi, sia completamente uscito da se stesso, abbia deposto se stesso, la sua propria essenza e vita nella sua creazione, sicché ormai esista solo in questa. Allora, poiché il conoscere è manifestamente uno scoprire l’essenza delle cose, mentre questa essenza può solo consistere in quella parte che un essere finito ha del principio primordiale di tutte le cose, conoscere significa scoprire quell’infinito nelle cose” (9).
Fatto si è che una cosa è la realtà (cosmica) del Cristo, altra quella della coscienza (umana) del Cristo. E come abbiamo avuto già modo di dire, parlando dell’Hegel teologo dello stesso Mancuso (10), l’attuale coscienza (umana) del Cristo “non assume, in genere, che una di queste tre forme: o quella di una semplice negazione; o quella di trascendenza e di estraneità tra un uomo, dimentico di essere un “dio”, e Dio; o quella d’immanenza e di solidarietà tra un uomo e un Dio che, non essendo più pensato però come tale, viene ridotto a uomo (all’”uomo di Nazaret”)”, oppure – ricordiamolo qui – al “Gesù figlio di Maria” (Ibn Mariam) e “profeta” dell’Islam.
Per questo avevamo poi aggiunto (ci si perdonino le autocitazioni): “Il non poter conoscere Dio ma solo l’uomo – scrive Mancuso – è l’aporia fondamentale, il vicolo cieco della prospettiva moderna”. Già, ma il “non poter conoscere Dio” della “prospettiva moderna” non è cosa diversa – come si è visto – dal “non poter conoscere l’uomo”. L’Ebraismo, ad esempio, conosce il vecchio Adamo, ma non il nuovo, mentre la “modernità” non conosce né l’uno né l’altro: essa, infatti, convinta com’è che l’uomo caduto sia il “vero” uomo, non conosce il Cristo perché non conosce l’uomo, e non conosce l’uomo perché non conosce il Cristo“.
Nel suo articolo, Tornielli ricorda, ad esempio, che “l’8 settembre 1985, Wojtyla aveva detto: “Dov’era Dio ad Auschwitz, a Hiroshima, a Nagasaki? Dov’è Dio quando i bambini muoiono di fame, quando gli uomini e le donne vengono torturati, quando giovani pieni di speranza devono morire?””.
Ma perché domandarsi dov’era allora Dio, e non dov’era l’uomo? Ora come allora, infatti, il Cristo sta sempre nel cuore o nell’Io; è l’uomo, piuttosto, che ora come allora sta invece nella testa (nella mente) o nella pancia (nell’istinto).
Dice in proposito C.S.Lewis: “Petto, Magnanimità, Sentimento: ecco gli indispensabili ufficiali di collegamento tra uomo cerebrale e uomo viscerale. Si può anche dire che è grazie a tale elemento intermedio che l’uomo è uomo: poiché per il suo intelletto è puro spirito e per i suoi appetiti puro animale” (11). Sarà opportuno però precisare che “tale elemento intermedio”, se dal punto di vista animico (e come sostiene Lewis), è il sentire (che sta appunto tra il pensare e il volere), dal punto di vista spirituale (e come sostiene Steiner), è invece l’Io (che sta appunto tra l’io o ego e il non-io o Es).
Al cospetto dei tanti errori e orrori del mondo, l’uomo farebbe bene dunque a chiedersi, non: “Dov’è Dio?”, ma: “Dov’è l’uomo?”. E dov’è l’uomo? Esattamente là dove sta la sua coscienza. E dove sta la sua coscienza? Esattamente là dove l’ha portata una cultura che conosce l’uomo o come un essere “fisico” che nulla ha a che fare con lo spirito (se non in modo astratto), o come un essere “fisico” e “animico” che ha a che fare, sì, con lo spirito, ma solo in termini di trascendenza e di soggezione (cioè a dire, in termini di verità, ma non di libertà).
Al riguardo, in un’altra delle nostre “noterelle”, dedicata alla presunta scoperta, da parte della scienza materialistica, del cosiddetto “gene del tradimento”, abbiamo ritenuto doveroso ricordare che l’uomo non è un essere geneticamente irresponsabile, bensì un essere spiritualmente responsabile. Come però il materialismo (arimanico) mira a responsabilizzare i “geni”, così lo spiritualismo (luciferico) mira a responsabilizzare Dio. “Solo un Dio – dichiara ad esempio Heidegger – ci può salvare”. E’vero: ma può salvarci solo se lo vogliamo: solo, ossia, se ci assumiamo la responsabilità di diventare davvero quegli “uomini” (quegli Io) che crediamo e diciamo di essere. Il Dio che “ci può salvare” è già venuto infatti a noi, ma siamo noi a non essere ancora andati a Lui (con l’anima o, per essere più precisi, col pensare, col sentire e col volere): a non essere ancora penetrati, cioè, nella nostra più intima e vera essenza (ch’è poi quella stessa del mondo). Dice appunto Giovanni (1,9-11): “La luce, quella vera, che illumina ogni uomo, veniva nel mondo. Era nel mondo, e il mondo fu creato per mezzo di lui, ma il mondo non lo conobbe. Venne in casa sua, e i suoi non lo ricevettero”.
Un’ultima considerazione. Come si è visto, il Papa auspica – sulle orme di Geremia – che sia il “popolo”, e non l’”individuo”, a convertirsi e a ritornare al Signore. Ciò conferma dunque che se non si riconosce all’uomo, al di là del corpo e dell’anima, uno spirito (un Io spirituale), è impossibile comprendere che l’Io universale, vale a dire il Cristo o l’Io dell’intera umanità, vive proprio nell’Io individuale.

Note:

01) O.Benzi: Ho scoperto perché Dio sta zitto – Mondadori, Milano 2000;
02) il Giornale, 12 dicembre 2002;
03) rivolgendosi al Signore, chiede infatti Geremia: “Perché ci vuoi dimenticare
per sempre? Ci vuoi abbandonare per lunghi giorni?” – Lam, 5-20;
04) B.Forte: Trinità come storia – Paoline, Cinisello-Balsamo (Mi) 1985, p.13;
05) è probabile che una simile rappresentazione sia in rapporto col fatto che, riguardo alla cosiddetta “processione” dello Spirito Santo, la formula di Atanasio, ex Patre Filioque, prevalse, nel Concilio di Nicea (325), su quella di Ario, ex Patre per Filium; si consideri, a questo proposito, che “per Atanasio, la creazione è il risultato di un atto della volontà di Dio. Mentre il Padre genera per natura il Figlio, a lui consustanziale o della sua stessa natura, egli crea il mondo per un atto di volontà. Al contrario, in Origene e in Ario, manca una distinzione tra volontà di Dio e la sua natura. Contro di loro Atanasio stabilisce proprio tale distinzione. Si tratta di una distinzione in Dio tra la sua essenza trascendente e proprietà divine come la “potenza” e la “bontà”, che esprimono piuttosto la sua esistenza e la sua azione ad extra” – E.G.Farrugia, SJ: Introduzione alla teologia orientale – Pisani, Roma 1997, p.32;
06) V.Mancuso: Il dolore innocente – Mondadori, Milano 2002, p.192;
07) R.Steiner: Come ritrovare il Cristo? – Antroposofica, Milano 1988, p.20;
08) R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.52;
09) ibid., p.51;
10) cfr. l’omonima nota del 20 settembre 2002;
11) C.S.Lewis: L’abolizione dell’uomo – Jaca Book, Milano 1979, p.30.

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Di Francesco Giorgi
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