Il primo numero (gennaio-febbraio 2003) di mente & cervello (“rivista di psicologia e neuroscienze” affiancata al mensile Le scienze), ospita, tra gli altri, un articolo di Gerhard Roth (direttore dell’istituto di ricerca sul cervello dell’Università di Brema e rettore dello Hanse-Wissenschaftskolleg di Delmenhorst) intitolato: “Sincronia nella rete dei neuroni” (p.10).
Ne tratteremo qui brevemente poiché costituisce, suo malgrado, un ulteriore esempio del profondo contrasto che c’è nelle scienze attuali tra la ricchezza dei dati sperimentali e la povertà del pensiero chiamato a interpretarli.
“I neuroscienziati – scrive l’autore – possono indicare, almeno nelle loro linee generali, quali funzioni adempiano i diversi stati di coscienza e in quali condizioni fisiche, chimiche, anatomiche e fisiologiche sorgono gli stati di coscienza nel cervello umano. Con ciò tuttavia, non è stata ancora spiegata né la natura fisica né la natura fisiologica della coscienza. Dobbiamo considerare la coscienza, come nel XIX secolo, alla stregua di una sorta di sostanza prodotta dalle cellule cerebrali, così come il fegato secerne la bile? Lo possiamo senz’altro escludere, sia perché tale sostanza andrebbe innanzitutto scoperta, sia perché la sua semplice esistenza non spiegherebbe molto. Dobbiamo piuttosto indagare su quegli stati dinamici che producono gli stati di coscienza” (p.19).
Gli stati di coscienza vengono dunque considerati, non più dei prodotti “sostanziali” delle cellule cerebrali, bensì dei prodotti degli “stati dinamici” del cervello. Uno “stato dinamico” altro non è però che un processo: vale a dire, un’attività che gli organi di senso (fisici) possono osservare solo in modo indiretto, attraverso le sue manifestazioni o i suoi effetti sensibili.
Allorché si decide di indagare, non più sulle “sostanze”, ma sui “processi”, si distingue quindi, di fatto, il cervello, quale realtà anatomica (o sostanziale), dall’attività cerebrale, quale realtà fisiologica (o dinamica). Rimane tuttavia da stabilire se tale attività appartenga al cervello e si manifesti quale processo cosciente (o, per essere più precisi, quale processo “pensante”), oppure appartenga alla coscienza e si manifesti quale processo cerebrale: ovvero, se tale attività sia del cervello o si svolga nel cervello; se il cervello, insomma, ne sia il soggetto o l’oggetto.
Ma che cosa si dovrebbe fare per stabilirlo? Quello che pochissimi sono disposti purtroppo a fare: ossia, educare, sviluppare e trasformare sé stessi per poter così esperire in modo diretto la natura extrasensibile (o sovrasensibile) dell’attività pensante. E’ dunque vano (se non fuorviante) affrontare il problema della natura (qualitativa) della coscienza se non si è prima affrontato quello della natura (vivente) del pensare.
“I neuroscienziati – dice Roth – possono indicare (.) in quali condizioni fisiche, chimiche, anatomiche e fisiologiche sorgono gli stati di coscienza nel cervello umano”. Ma per quale ragione non potrebbero viceversa indicare “in quali condizioni” di coscienza “sorgono” determinate strutture anatomiche o determinati processi fisici, chimici e fisiologici?
Dice inoltre: “Anche se ancora non si conoscono tutti i passaggi dei processi che nel cervello si accompagnano al fenomeno coscienza, è evidente che questa è indissolubilmente legata a determinati processi fisici, fisiologici e chimici che avvengono a livello cerebrale”(p.17). D’accordo, ma a che titolo vi è “indissolubilmente legata”? A titolo di effetto (e quindi appunto di “fenomeno”) o a titolo di causa (e quindi, per così dire, di “noumeno”)?
Sempre Roth fa quest’esempio: “supponiamo – dice – di dover identificare il più rapidamente possibile, all’interno di una scena complessa, un certo oggetto. All’inizio ci dovremo concentrare intensamente; con le nostre apparecchiature potremo così assistere a un corrispondente dispendio energetico a livello delle regioni temporali od occipitali del cervello. Per la precisione dovrà essere modificata la forza delle connessioni sinaptiche fra gruppi di neuroni, o addirittura si dovranno sviluppare altre sinapsi, fino a che non si sia trovata la soluzione del problema. Dopo alcune ripetizioni dell’esercizio, però, questo lavoro di adattamento delle connessioni nella corteccia cala e – al contempo – riusciamo a eseguire questo tipo di compito con molto minor dispendio mentale. A questo punto, una PET (tomografia a emissione di positroni – n.d.a.) o una fMRI (risonanza magnetica funzionale – n.d.a.) del nostro cervello non evidenzierà quasi più alcun incremento di attività degno di nota, perché le reti di neuroni interessate si attivano in maniera sempre più efficiente e non hanno bisogno di rifornimenti aggiuntivi di glucosio e ossigeno” (p.16).
Ma tutto questo avviene – ci si dovrebbe pur domandare – perché noi, in qualità di soggetti abbiamo deciso (attivando così la nostra attenzione e la nostra volontà) di concentrarci e di “identificare il più rapidamente possibile, all’interno di una scena complessa, un certo oggetto” o perché una involontaria modificazione della “forza delle connessioni sinaptiche fra gruppi di neuroni”, se non addirittura lo sviluppo di “altre sinapsi”, ci costringe, in qualità di oggetti, a concentrarci e a “eseguire questo tipo di compito”?
Che un interrogativo del genere sia tutt’altro che “impertinente” lo dimostra il fatto che Roth, a un certo punto, scrive: “Nonostante tutta la sua importanza funzionale, l’Io cosciente non esercita un ruolo decisivo sulle azioni che considera prodotte autonomamente, ma ha solo un compito consultivo. In questo senso il “libero arbitrio” non è la suprema istanza che controlla la nostra condotta” (p.14).
Anche in questo caso, ci si dovrebbe tuttavia domandare: queste parole sono state scritte liberamente da Roth, o gli sono state dettate (quasi medianicamente) dalle aree della sua “corteccia cosciente” che sono influenzate dai “centri sottocorticali” pilotati, a loro volta, dal sistema limbico? Mentre è infatti plausibile (e umano) che il soggetto (l’Io), per scrivere qualcosa, debba – come dice Eccles – “controllare il suo cervello” (cfr. J.Eccles: Come l’Io controlla il suo cervello – Rizzoli, Milano 1994), e mettere perciò in movimento (seppure inavvertitamente) tutta una serie di processi (fisici, chimici e fisiologici), è viceversa ben poco plausibile (e ben poco umano) che sia il sistema limbico a prendere (non si sa perché) una simile iniziativa, e a portarla a termine – come detto – pilotando i centri sottocorticali e influenzando, mediante questi, la corteccia cosciente.
Certo, dietro la singolare (ma sintomatica) sensazione di molti moderni neurofisiologi di non godere del “libero arbitrio”, di disporre di un Io che “non esercita un ruolo decisivo”, e di non essere quindi i veri soggetti delle loro azioni, c’è sicuramente una qualche profonda e occulta verità.
Per scoprirla, però, non basta far leva sulla scienza naturale (tanto più se materialistica), ma occorre servirsi, piaccia o meno, della scienza dello spirito.
Uomini o medium?
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