Induzione e deduzione

I

Questa breve nota può essere considerata una sorta di appendice a quella intitolata: “Del “moto pendolare vivente”“, datata 1 marzo 2003 e pubblicata nella sezione “studi gnoseologici” di questo “osservatorio”. Per intendere quella, questa non è indispensabile; per intendere questa, quella è invece necessaria. In essa, abbiamo infatti cercato, sulla traccia di alcune indicazioni di Steiner, di mettere in luce come l’Io, oscillando alternativamente tra i poli del corpo e dello spirito (e attraversando sempre quello dell’anima), dia origine a un movimento ascendente, afferente o di “inalazione” e a uno discendente, efferente o di “esalazione”. Analizzando il fenomeno (in relazione al processo della cosiddetta “cognizione sensibile”), abbiamo portato in primo piano due fatti: uno di ordine dinamico; l’altro di ordine qualitativo. Dinamico o vivente è infatti il movimento stesso dell’Io, mentre qualitativa è l’enantiodromia: ovvero, quel rovesciamento nell’opposto che permette, in fase di “inalazione”, all’individuale di farsi universale (com’è palese nel conoscere) e, in fase di “esalazione”, all’universale di farsi individuale (com’è palese nel creare).
Ebbene, vogliamo riprendere qui l’argomento per evidenziare ancora due cose: 1) che tale movimento implica un occulto legame tra l’attività conoscitiva e quella morale; 2) che la fase in cui si ascende dall’individuale all’universale sottende il procedimento logico dell’induzione, così come la fase in cui si discende dall’universale all’individuale sottende quello della deduzione.
Per quanto riguarda il primo punto, occorre riflettere sul fatto che, come l’esalazione presuppone un’inalazione e l’inalazione un’esalazione, così l’attività morale ne presuppone una conoscitiva e quella conoscitiva una morale. Con la notevole differenza, però, che quanto è presupposto sul piano fisiologico è esplicito o palese, mentre quanto è presupposto sul piano spirituale è implicito o nascosto. Ciò che viene creato nel mondo sensibile viene infatti occultamente conosciuto (intuito) in quello spirituale, e ciò che viene conosciuto nel mondo sensibile viene invece occultamente creato (ri-creato) in quello spirituale.
Nascendo il bene dalla verità e la verità dal bene (come il male dalla menzogna e la menzogna dal male), è dunque importante capire che l’uomo moderno, essendo ormai pervenuto all’intellettualità, all’autocoscienza e alla libertà (alla libertà “da”), non può più godere della verità godendo del bene, come ai tempi (lontanissimi) in cui il pensare era ancora unito al volere, ma deve, per poter godere del bene (della volontà), conquistare la verità (del pensiero), e muovere da questa (dice al riguardo il Vangelo: “Chi non entra nell’ovile per la porta, ma vi sale da altra parte, è ladro e assassino” – Gv10,1). Cos’altro fanno infatti i cosiddetti “buonisti” se non preoccuparsi di essere “buoni” senza prima preoccuparsi di essere “veri”? Non si usa dire, appunto, che “le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”? Quanti oggi lamentano una “perdita dei valori”, farebbero bene dunque a ricordare che, essendo anche la verità un valore, dove non ci sono più valori, vuol dire allora che non c’è più verità.
Per quanto riguarda il secondo punto, occorre invece realizzare che senza il “moto pendolare vivente” di cui parla Steiner non avremmo né induzione né deduzione. Una cosa sono infatti (in sé) l’induzione e la deduzione, altra il tipo (o il livello) di consapevolezza che ne abbiamo. Infatti, l’ordinaria coscienza intellettuale (o rappresentativa), ignorando e il movimento e l’enantiodromia, in tanto le conosce in quanto le estrapola o astrae dal vivo insieme di cui sono momenti, le isola e le contrappone (in ossequio alla logica analitica e al principio d’identità).
Dice lo Zingarelli che l’induzione consiste “nel ricavare da osservazioni ed esperienze particolari i principi generali in esse impliciti”, mentre la deduzione consiste “nel derivare, da una o più premesse date, una conclusione che ne rappresenta la conseguenza logicamente necessaria”. Come si vede, è detto che l’induzione consiste, non nel fare dell’individuale un universale, bensì nel “ricavare da osservazioni ed esperienze particolari i principi generali in esse impliciti”.
Ma perché è detto così? Perché il procedimento deduttivo ha caratterizzato l’antica metafisica, mentre quello induttivo caratterizza la scienza moderna. E la moderna induzione scientifica ha appunto sostituito l’universalità con la generalità, e la necessità con la probabilità.
L’antica metafisica, fondandosi unilateralmente sulla deduzione (logica), alterava però il rapporto dell’uomo con il mondo (sensibile) della percezione, così come la scienza moderna, fondandosi unilateralmente sull’induzione (empirica), altera il rapporto dell’uomo con il mondo (spirituale) del pensiero.
Osservare per ricercare l’idea (la legge) oggettiva che è nel fenomeno è cosa infatti ben diversa dall’osservare per congetturare od opinare soggettivamente sul fenomeno (muovendo dal dogmatico presupposto che la sua essenza o non esista o sia irraggiungibile). In Goethe – osserva ad esempio Bruno Maffi – “da una visione del mondo che è insieme partecipazione poetica e presa di possesso razionale partono i grandi fasci di luce che lo guidano nella selva “delle esperienze e degli esperimenti”, ma l’idea non si sovrappone meccanicamente ai fatti; se ne nutre, si sviluppa e si articola a contatto col mondo reale; è insieme il punto di partenza e il punto di arrivo dell’osservazione” (1). In tanto è tale, tuttavia, in quanto è appunto attraverso l’idea che si manifesta (nell’anima umana) l’essenza (l’entelechia) del fenomeno. “L’essenziale nell’idea – afferma infatti Steiner – non è il fatto ch’essa si manifesti nel soggetto umano, ma che appaia inerente all’oggetto spirituale, come il colore è inerente a un oggetto sensibile; e che l’anima umana – il soggetto – percepisca in quello l’idea, come l’occhio percepisce il colore nell’essere vivente”(2).
Sia perciò chiaro che, dell’attuale procedimento scientifico, stiamo mettendo qui in discussione non il momento (per così dire, “a-posteriori”) della verifica sperimentale dell’idea, bensì quello (per così dire, “a-priori”) dell’idea.
Che idea ha infatti dell’”idea” l’odierno scienziato? Forse quella fornitagli dalla neurofisiologia o dalla neurobiologia? E cioè di una specie di “cosa”? Oppure quella fornitagli dalla cibernetica? E cioè di una mera “informazione”?
Fatto sta che una cosa sono le idee della scienza (ossia, la coscienza), altra è la scienza delle idee (ossia, l’autocoscienza).
E’ significativo, del resto, che oggi la cosiddetta “comunità scientifica” si preoccupi molto degli aspetti strumentali e finanziari della “ricerca”, ma assai meno delle idee che dovrebbero ispirarla, guidarla e orientarla.
E la cosa è preoccupante, poiché quanto più la scienza (galileiana) si allontana dalla realtà inorganica per inoltrarsi, con immutata forma mentis, in quella organica (e, a maggior ragione, in quella animico-spirituale), tanto più va incontro al rischio, dopo essere passata dall’universalizzare al generalizzare, di passare dal generalizzare al procedere – come si usa dire – a “tentoni” o alla “cieca”.
Come la metafisica – ha detto una volta Steiner – finisce col perdere di vista i fatti, così la scienza può finire col perdersi tra i fatti. Oggi, tuttavia, anche alcuni rami della Fisica moderna, quali ad esempio la “Cosmologia” o la “Fisica delle particelle elementari”, hanno finito – al pari della metafisica – col perdere di vista i fatti, per librarsi in un iperuranio di carattere matematico. Mentre in alcuni casi, quindi, il pensiero allontana dalla realtà sensibile, in altri la realtà sensibile allontana dal pensiero. Ed è appunto in questi che si finisce con lo smarrirsi tra i fatti e col cadere nell’empiria: ovvero, nella posizione di chi si affida all’esperienza, non per ricavarne – come sarebbe legittimo – la conferma o la smentita di un’idea, ma per stare semplicemente a vedere, a prendere atto e a registrare quel che succede. O, peggio ancora, per perseguire fini utilitaristici (più o meno personali). Se qualcuno pensa che stiamo esagerando, ascolti allora quel che scrive, al riguardo, Riccardo Chiaberge (parlando del libro Cloni di Gina Kolata): “Quello che più impressiona, in queste pagine, è il ritratto impietoso di una comunità scientifica divorata dall’ambizione e dal business. Una comunità che ha smarrito ogni bussola morale, che non sa più qual è il suo ruolo nella società” (3).
Ma non è che la comunità scientifica non sappia “più qual è il suo ruolo nella società”, è che non sa più quale sia il ruolo della conoscenza e della scienza nella vita degli esseri umani. E non lo sa, perché non sa più, o non sa ancora, che cos’è un essere “umano”.
Scrive al riguardo Steiner: “Ogni scienza sarebbe solo soddisfacimento di inutile curiosità, se non tendesse a elevare il valore dell’esistenza della persona umana. Le scienze acquistano il vero valore solo mostrando l’importanza umana dei loro risultati. Scopo finale dell’individuo non può essere la nobilitazione di una singola facoltà dell’anima, ma lo sviluppo di tutte le facoltà che sono latenti in noi. Il sapere ha valore soltanto se fornisce un contributo per lo sviluppo complessivo di tutta la natura umana” (4).
Si tenga oltretutto presente che, ove si cadesse nell’empiria, si dovrebbe per ciò stesso rinunciare a una delle caratteristiche proprie della scienza: vale a dire, al suo potere di previsione. Il che – superfluo dirlo – risulterebbe oltremodo inquietante in un momento – come quello presente – in cui gli scienziati sono arrivati a investigare e manipolare perfino la realtà genetica.

Note:

01) B.Maffi: nota introduttiva a Scritti scientifici in J.W.Goethe: Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol.V, p.3;
02) R.Steiner: La mia vita – Antroposofica, Milano 1992, p.71;
03) R.Chiaberge: prefazione a Gina Kolata: Cloni – Da Dolly all’uomo? – Cortina, Milano 1998, pp. XV-XVI;
04) R.Steiner: La filosofia della libertà – Mondadori, Milano 1998, p.240.

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Di Francesco Giorgi
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