Pensiero cristiano e anticristiano

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In un suo recente editoriale (1), Ferdinando Adornato ricorda la Pacem in Terris: la celebre enciclica di Giovanni XXIII della quale ricorre, quest’anno, il quarantesimo anniversario. La ricorda in quanto vi si riconosceva – a suo dire – “che la parola pace si fonda sulla parola libertà, non viceversa. Che la libertà è un prius, una precondizione necessaria per poter raggiungere una vera pace”. In quella enciclica – scrive – si dichiarava infatti che “la pace in terra, anelito profondo di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio”, e che “il primo principio di quest’ordine è quello per cui “ogni essere umano è persona, soggetto di diritti e di doveri, diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili””.
E’ importante rammentarlo – dice poi – “perché, nel tempo, un’errata recezione di quell’enciclica ha portato diversi movimenti cattolici a una sostanziale alterazione della Pacem in Terris, lasciando in secondo piano, rispetto al supremo messaggio antibellico, le fondamenta morali sulle quali l’enciclica basava qualsiasi idea di pace: appunto, la verità, la giustizia, l’amore e la libertà, assieme alla difesa della dignità dell’uomo, proclamando che non può esserci vera pace laddove venga offesa, come accade nelle dittature, la libertà dell’uomo e la centralità della persona”.
Tale “errata recezione” – dice ancora – sarebbe in parte dovuta, a suo parere, ad altri contenuti della medesima enciclica e, in particolare, “alla famosa distinzione tra errore ed errante”. Domanda infatti: “Uno stato totalitario (sostenuto da tanti “erranti”) cos’è, l’errante o l’errore?”.
In ogni caso, tutto ciò lo porta a concludere che il “pacifismo assoluto, se portato alle estreme conseguenze, diventa in fondo un pensiero anticristiano” perché “contravviene al principio capitale del cristianesimo, che pure campeggia nella Pacem in Terris, che vede la libertà e la dignità umana come unici possibili comuni denominatori di tutto il genere umano” e “contraddice, in sostanza, l’idea stessa che la democrazia e la libertà siano valori universali, fondativi della convivenza umana”.
Ci piacerebbe – lo confessiamo – soffermarci sui concetti di verità, giustizia, amore, libertà, dignità umana e centralità della persona, sul problema della universalità di questi valori, quali “unici possibili comuni denominatori di tutto il genere umano” e, in specie, sulla distinzione fatta dall’enciclica tra l’errore e l’errante. Non si vede, infatti, quale efficacia possa avere una distinzione del genere ove sia operata da chi è materialisticamente convinto – come lo sono oggi i più – che l’errante sia reale (in quanto sensibilmente percepibile), mentre l’errore sia astratto (in quanto sensibilmente impercepibile).
Tralasceremo tuttavia di occuparci di queste cose, per affrontare una questione che ci sembra non meno importante: ovvero, quella del “pensiero anticristiano”.
Consideriamo, tanto per cominciare, che Adornato, pur riconoscendosi – come tutti i liberali – “nominalista”, molto probabilmente non si ritiene “materialista”.
“So benissimo – osserva però Steiner – che vi sono pensatori, come il citato T.Ziehen, che non si considerano affatto materialisti; tuttavia, nella prospettiva indicata in questo libro, essi devono venir compresi in quel concetto. Non importa se qualcuno dice che per lui il mondo non è limitato all’esistenza materiale, e che quindi egli non è un materialista. Bisogna vedere se egli sviluppa concetti che sono applicabili solo a un’esistenza materiale” (2).
Il problema è costituito dunque dal come e non dal cosa si pensa: è costituito, cioè, dalla modalità o dalla qualità del movimento del pensiero, e non dal suo oggetto o dal suo contenuto. Come è infatti possibile (e corretto) pensare “materialisticamente” la materia, così è possibile (ma scorretto) pensare “materialisticamente” la vita, l’anima e lo spirito. Tant’è che nella nota intitolata: Europa, paura e vergogna (3) – ma anche in una delle nostre “noterelle” – ci siamo occupati del libro di Salvatore Natoli che reca appunto questo titolo: Il cristianesimo di un non credente (4).
Ma cerchiamo di essere più precisi. Cosa significa pensare “materialisticamente” la materia? Significa portarle incontro un tipo di pensiero che, corrispondendole qualitativamente, sia in grado di aderirvi, e quindi di comprenderla.
E qual è questo tipo di pensiero? Quello intellettuale o – come si preferisce dire oggi – “computazionale”.
“La matematica – scrive a questo proposito Steiner – conservò per me tutta la sua importanza anche come base della mia ricerca filosofica; essa dà infatti un sistema di concetti acquistati indipendentemente da ogni esperienza sensibile esterna. “Eppure – mi ripetevo senza posa in quel tempo (nei suoi anni giovanili – nda) – queste vedute e questi concetti si possono applicare alla realtà sensibile; anzi per loro mezzo troviamo le leggi che la governano”. Attraverso la matematica si impara dunque a conoscere il mondo, ma bisogna prima di tutto far sorgere la matematica dall’anima umana (…) Il pensiero dell’epoca, ch’io m’ero assimilato, mi sembrava atto a formarsi delle idee solo sulla natura inanimata; lo consideravo impotente ad accostare con le forze della conoscenza la natura vivente. Mi dicevo: “Per acquistare idee che possano dare la conoscenza dell’organico è necessario anzi tutto vivificare gli stessi concetti razionali adatti alla natura inorganica”, poiché questi mi apparivano privi di vita, e quindi capaci di comprendere solo ciò ch’è privo di vita (…) Nella conoscenza dell’inorganico, un concetto viene allineato accanto all’altro, per abbracciare con lo sguardo il nesso tra le forze che producono un effetto nella natura. Per l’organico è necessario invece far sì che i concetti si sviluppino l’uno dall’altro, in modo che, nella loro progressiva vivente trasmutazione, sorgano immagini di ciò che in natura appare nell’aspetto di esseri formati” (5).
Come si caratterizza dunque il pensiero intellettuale? Come un pensiero che, proprio per il fatto di essere privo di vita e di qualità, è in grado di aderire a ciò che nel reale è meramente quantitativo e, aderendovi, di comprenderlo.
Ebbene, per tornare a noi, è forse questo un pensiero “anticristiano”? No, non lo è. Va infatti considerato che l’intelletto, secondo la tradizione cristiana, è uno dei “doni” dello Spirito Santo, ma, soprattutto, che un pensiero in grado di oggettivare e comprendere ciò ch’è morto ha già compiuto un primo passo sulla via che potrebbe restituirlo alla vita.
Riferendosi a una sua particolarissima e personale esperienza, così scrive infatti Steiner: “Mi si rivelava, direttamente dal mondo spirituale, l’importanza del pensiero scientifico; e potei constatare che questo pensiero, in sé, non allontana necessariamente da una visione spirituale” (6): che non ostacola e non pregiudica, ossia, quello sviluppo del pensiero e della coscienza cui allude ad esempio Paolo con le seguenti parole: “Ora noi parzialmente conosciamo e parzialmente profetiamo. Ma quando sarà venuta la cognizione di Dio perfetta, sparirà ciò che è parziale. Come anch’io, quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino e ragionavo da bambino, ma quando son diventato uomo, ho smesso le cose proprie del bambino. Noi ora vediamo, infatti, come per mezzo di uno specchio, in modo non chiaro; allora invece vedremo direttamente in Dio” (Cor 9-12).
Ma quand’è dunque che il pensiero scientifico “allontana” da una visione spirituale? Quando è “scientistico”, e non più “scientifico”: allorché pretende, cioè (come purtroppo fa oggi), di riportare e ridurre al proprio livello quantitativo tutto ciò che nel mondo è vivente, animato e spirituale.
Solo un pensiero che avanzi questa pretesa può essere quindi definito “anticristiano”. Fatto si è che il Cristo, col farsi uomo e con l’affrontare per ciò stesso l’esperienza della morte, ha fatto Suo anche il pensiero intellettuale (o, per così dire, “gesuologico”). Lo ha però fatto Suo, quale pensiero del “Venerdì Santo”, unicamente in vista del pensiero “pasquale” o di “resurrezione”, e dunque in vista di un suo superamento e di una sua redenzione.
E’ perciò vero – come dice Adornato – che la “libertà è un prius, una precondizione necessaria per poter raggiungere una vera pace”, ma altrettanto è vero che l’emancipazione del pensiero (dal vincolo dei sensi) è un prius, una precondizione necessaria per poter raggiungere una vera libertà. Anche la libertà e la pace possono essere infatti “non-cristiane” o “anticristiane” (vale a dire, “non-umane” o “antiumane”) ove non vengano concepite dal pensare “cristiano” (vale a dire, “umano”), e altro non rappresentino, dunque, che degli astratti “pensati” messi più o meno inconsciamente al servizio della forza delle brame, degli egoismi, delle paure o delle viltà che abbondano nell’”uomo del sottosuolo”: ovvero, nell’inferiore natura di ogni essere umano.

Note:

01) il Giornale, 26 marzo 2003;
02) R.Steiner: La filosofia della libertà – Mondadori, Milano 1998, p.160;
03) Europa, paura e vergogna, 14 febbraio 2003;
04) S.Natoli: Il cristianesimo di un non credente – Qiqajon, Comunità di Bose 2002;
05) R,Steiner: La mia vita – Antroposofica, Milano 1992, pp.48, 85 e 86;
06) ibid., p.221.

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Di Francesco Giorgi
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