In queste note, abbiamo avuto più volte occasione di occuparci delle cosiddette manipolazioni genetiche, delle biotecnologie e della mentalità “matematico-ingegneristica” di cui sono frutto, sostenendo che si tenta, mediante queste, di ridurre la realtà biologica che non si capisce a quella tecnologica che si capisce (1): che ci si sforza, cioè, non di elevare la coscienza al livello della vita, bensì di abbassare la vita al livello dell’attuale coscienza; al livello, appunto, di quella coscienza intellettuale o “matematico-ingegneristica” che dà il meglio di sé fintantoché è alle prese col mondo inorganico, ma che dà viceversa il peggio di sé allorché pretende di occuparsi (in modo teorico e pratico) di quello organico (“All’ingegnere – osserva appunto Horkheimer – non interessa capire le cose per amore di esse o per amore di una profonda visione del mondo, bensì solo per poterle inserire in uno schema, non importa quanto estraneo alla loro intima struttura”) (2).
Non avremmo perciò ripreso l’argomento, se non fosse apparsa su il Giornale, a cura di Stefano Lorenzetto (3), una lunga intervista a Sergio Dompé, presidente di Assobiotec (l’Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie), che – stando a quanto confidato da “un giornalista scientifico” a Lorenzetto – “è l’italiano che sugli Ogm ne sa più di tutti”.
Al giornalista che comincia domandandogli: “Che cos’è la biotecnologia?”, Dompé risponde: “E’ la conoscenza dei meccanismi che sono alla base dei processi naturali”, e, in risposta a una successiva domanda, così aggiunge: “Vedere il Dna come qualcosa di sacrale è sbagliato. Stiamo arrivando a capire in che modo è progettato l’uomo dal punto di vista ingegneristico”.
Orbene, queste affermazioni non potevano non ricordarci le seguenti parole di Steiner: “Ogni volta che non espelliamo i dèmoni mediante il contenuto della nostra anima, ogni volta che non riusciamo a render sacre le azioni meccaniche esteriori, noi crocifiggiamo il Cristo. Questo deve essere il punto di partenza della nostra educazione al vero cristianesimo. Quel che veniva praticato simbolicamente negli antichi culti della cristianità deve afferrare il mondo intero; quel che si compiva sull’altare deve ora afferrare il mondo intero. L’umanità deve imparare a trattare la natura come gli dei stessi hanno trattato la natura; deve imparare a non costruire delle macchine in modo indifferente, bensì a compiere ogni azione come un servizio divino, deve imparare a conferire carattere di sacralità ad ogni cosa (…) Considerare la realtà secondo le concezioni propugnate dalla scienza moderna (e siamo nel 1916! – nda) è qualcosa di non cristiano, di profondamente non cristiano” (4).
Superfluo dire che, dal punto di vista del “vero cristianesimo” (cioè dell’”Ecce homo”), una scienza profondamente non-cristiana è per ciò stesso una scienza profondamente non-umana, alla quale sarebbe urgente e salvifico contrapporre, non un astratto umanesimo, bensì un’altra scienza.
Per cavalleria, non commenteremo la dichiarazione che Dompé fa di non aver mai mangiato cibi transgenici, ma di essere pronto a darli ai suoi figli, né ci soffermeremo sul fatto che, alla domanda: “In natura esistevano già degli Ogm prima di questo cancan?”, risponda: “Ma certo. Tutto ciò che esiste intorno a noi ha subito modifiche genetiche spontanee. La natura è organizzata così”. Ci siamo infatti già occupati (5) del tentativo operato da Boncinelli di mettere sullo stesso piano una mutazione naturale e una artificiale (“l’Ogm – spiega Dompé – è un organismo in cui è intervenuta una modifica genetica. In genere si toglie o si aggiunge un gene per conferirgli caratteristiche specifiche”). Neppure discuteremo, infine, l’idea che l’uomo e lo scimpanzé non sono granché diversi tra loro perché “il Dna degli scimpanzé è per il 98,4% identico al nostro”. Sarebbe come dire, infatti, che un’opera di Raffaello e la crosta di un qualsiasi imbrattatele non sono granché diverse tra loro perché il secondo ha usato il 98,4% dei colori utilizzati dal primo.
Preferiamo osservare, piuttosto, che il Dompé che chiude l’intervista dicendosi preoccupato “che l’Italia non riesca a esprimere le sue grandi potenzialità per colpa dei pregiudizi indotti nell’opinione pubblica da una propaganda talebana”, è lo stesso che, poco prima, alla domanda: “C’è un rischio cancro negli Ogm?”, risponde, in modo non proprio galileiano: “Non esiste per definizione”; e che, alla replica di Lorenzetto: “Cavie nutrite con patate transgeniche hanno sviluppato tumori, malattie intestinali e calo delle difese immunitarie: lo afferma Piero Perrino, direttore dell’Istituto del germoplasma di Bari che fa capo al Cnr”, si limita ad aggiungere: “Probabilmente mette insieme tutte le evidenze negative uscite dalle sperimentazioni che sono state stoppate. E’ una riprova della severità dei controlli”.
Ma veniamo a quel che più c’interessa.
“Come cattolico – afferma Dompé – sono totalmente contrario alla clonazione umana, sia dal punto di vista etico che scientifico. Non demonizzerei invece l’utilizzo terapeutico di materiale vivente da embrioni”. Al che Lorenzetto gli chiede: “Chi un giorno sarà uomo non è già uomo anche da embrione?”, e lui risponde: “In termini cristiani sì, è già uomo. Bisogna trovare la strada più giusta.Si potrebbero usare i milioni di ovuli congelati che sono comunque destinati a morire”.
Come si vede, nemmeno lo sfiora l’idea che, “in termini cristiani”, sia un’aberrazione, non solo pensare che l’uomo sia stato “progettato dal punto di vista ingegneristico”, ma anche trafficare con gli ovuli o con la realtà della vita (ossia con quella che “In principio” – com’è detto nel prologo del Vangelo di Giovanni – era nel Verbo o nel Logos) così come si traffica con la realtà morta delle macchine.
Insistiamo su questo perché è inutile (se non ipocrita) scandalizzarsi per quello che tali ricercatori fanno, ma non per quello che pensano o, più precisamente, per come pensano.
Non si è infatti “materialisti” perché ci si crede o ci si professa tali, ma perché si pensano la vita, l’anima e lo spirito nello stesso modo (fisico–chimico) in cui si pensa la materia. Oggi, d’altro canto, è più che arduo far intendere che c’è anche un’immoralità del pensare o del conoscere, e ch’è in questa che s’invera la “bestemmia” o il peccato “contro lo Spirito Santo” (Mt 3,29).
Confessa Dompé: “Io temo una sola accusa: quella d’aver fatto troppo poco per salvare tante vite. Ogni volta che muore un bambino, mi sento colpevole perché so già che fra due, cinque o sette anni si sarebbe potuto salvare e allora mi dico: perché non hai spinto di più i tuoi ricercatori? Perché non hai usato meglio i mezzi che avevi a disposizione? Ed è un sentimento di frustrazione terribile”.
D’accordo, ma fino a qual punto sarebbe lecito salvare la vita di un animale riducendolo a vegetale? E fin dove è lecito salvare una vita umana (sempre ammesso che la si salvi) riducendola a una “tecnovita”: vale a dire, a un corpo che potrà anche sopravvivere, ma che non si sa in quale misura sarà ancora in grado di servire un Io umano? Non si diceva forse, un tempo: “E’ meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora”? E perché, poi, temere l’accusa di aver “fatto” troppo poco e non quella di aver “pensato” magari troppo poco (sempre cioè allo stesso modo), o di non aver “spinto di più” i propri ricercatori ad ampliare i loro orizzonti, usando “mezzi” diversi dagli unici che hanno oggi a disposizione?
Osserva Lorenzetto: “Ci sarà un motivo se la natura ha previsto che i pomodori maturino in tot settimane”; e Dompé replica: “Capisco l’obiezione. La natura è grande. Però l’uomo si è sempre difeso dalla natura. Si è abituati a lodare le mirabilia della natura. Io invece ne considero i capricci, le mostruosità. I batteri più terribili sono naturali. Le carestie sono naturali. Le malattie sono naturali. Anche il freddo è naturale. Ma l’uomo non ha detto: bon, fa 15 sotto zero, sto qui a crepare all’addiaccio come ha previsto la natura. S’è costruito una casa in cui rifugiarsi. Ora mi vengono a dire che non devo applicare alla zucchina ciò che va bene per l’uomo? Non ha senso”.
Non ce ne voglia Dompé, ma a noi sembra – a meno che non si stiano costruendo case per le zucchine – che sia proprio il suo discorso a non avere senso. Una cosa, infatti (per rimanere nei termini dell’esempio), è un uomo che, lasciando essere il freddo quello che è, pensi a ripararsene, altra è un uomo che si metta invece in testa di agire sul freddo per modificarlo.
Orbene, ove immaginassimo che manipolando il freddo si riuscisse a mitigarlo, perché non fare allora la stessa cosa col caldo? Se operazioni del genere fossero possibili, non avremmo più dunque né il freddo né il caldo, ma sempre e soltanto un tiepido stato intermedio.
Dice Dompé che, della natura, preferisce considerare i “capricci” e le “mostruosità”, che “i batteri più terribili sono naturali”, che “le carestie sono naturali” e che “le malattie sono naturali”.
Mentre dunque a Leopardi, universalmente considerato un pessimista, riusciva di vedere la “quiete” insieme alla “tempesta”, a Dompé non riesce invece di vedere la regolarità insieme ai “capricci”, la bellezza insieme alle “mostruosità”, gli esseri benefici insieme a quelli “malefici”, l’abbondanza insieme alle “carestie” e la salute insieme alle “malattie”.
Ignoriamo le ragioni di cotanto pessimismo, ma sta di fatto che esso finisce con l’imporre una visione delle cose non meno unilaterale di quella di un ottimista che, della natura, preferisse considerare la regolarità, la bellezza, gli esseri benefici, l’abbondanza e la salute.
Questo – sia chiaro – non è un gioco. L’uomo, infatti, in questa fase della propria evoluzione, si apre la propria strada, vive la propria vita, lavora al proprio sviluppo e crea sé stesso, affrontando appunto, con coraggio e dignità, tanto quello che la natura e il destino gli offrono di positivo (il bene) quanto quello che gli offrono di negativo (il male): non solo quindi la regolarità e i capricci, la bellezza e le mostruosità, gli esseri benefici e quelli malefici, l’abbondanza e le carestie, la salute e le malattie, ma anche la nascita e la morte.
Va perciò detto, tornando a quanto avevamo immaginato in rapporto al freddo e al caldo, che il tiepido e costante stato intermedio, artificialmente prodotto, equivarrebbe alla creazione di un uomo altrettanto artificiale, e per ciò stesso a un non-uomo.
Recita, non a caso, l’Apocalisse: “Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Oh fossi tu pur freddo o caldo! Così, perché sei tiepido, e non sei né freddo né caldo, io ti vomiterò dalla mia bocca” (3,15).
Note:
01) Del “bioboom”, 13 gennaio 2002;
02) M.Horkheimer: Eclisse della ragione – Einaudi, Torino 1969, p.131;
03) il Giornale, 14 settembre 2003;
04) R.Steiner: Il karma e le professioni in relazione alla vita di Goethe – Antroposofica, Milano 1976, pp.217-218;
05) Ogm? Una volta li chiamavamo incroci, 4 giugno 2001.