Lavoro e valore

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La nota che qui presentiamo è un estratto (rielaborato dall’autore) dello scritto di Lucio Russo Aspetti della questione sociale che insieme a L’anima cosciente e la modernità e Pensare il novecento è stato pubblicato nel 1999 in un volumetto a cura dell’Associazione culturale Source.

 

Marx è convinto che “la grandezza di valore di una merce non rappresenta che la quantità di lavoro in essa contenuta” (1), in quanto giudica il lavoro un “logorio della macchina umana” (2) e il valore un “accumulatore di forza umana” (3).
E’ dunque da questa concezione quantitativa del valore che egli ricava quella del “plusvalore”: ovvero, della quantità di lavoro che non verrebbe pagata al lavoratore, ma trattenuta dal datore di lavoro in forma di profitto.
Ma proviamo a osservare più da vicino questa teoria.
Detto D il denaro ed M la merce, se l’antico baratto può essere espresso dalla formula: M -> M, la moderna circolazione delle merci può essere invece espressa dalla formula: M -> D -> M (vendere per comprare).
Nel caso in cui si abbia formazione di capitale (a prescindere da quella “accumulazione originaria” che Marx fa risalire ai secoli XVI e XVII), quest’ultima formula va invertita, e si ha quindi: D -> M -> D (comprare per vendere).
La circolazione della merce comincia dunque con la vendita e finisce con l’acquisto, mentre quella del denaro comincia con l’acquisto e finisce con la vendita. “Il circolo M -> D -> M – dice infatti Marx – ha per punto iniziale una merce e per punto finale un’altra merce che non circola più e cade nella consumazione (4).
Nel primo caso, quindi, il denaro è mezzo e la merce è fine; nel secondo, la merce è mezzo e il denaro è fine: nel primo caso, cioè, si vende una merce che non serve per avere il denaro necessario a comprare una merce che serve, e che, consumandosi, verrà eliminata dal processo economico; nel secondo, invece, comprando una merce per rivenderla, alla fine del processo si avrà, sotto il profilo della qualità, la stessa cosa che si aveva all’inizio. Il processo non può dunque aver prodotto che una differenza quantitativa.
Secondo Marx, si dovrebbe infatti distinguere D da D’, e formulare quindi il “comprare per vendere” in questo modo: D -> M -> D’; e dal momento che D’ equivale a D + d, ecco quindi che d viene a rappresentare quel “plusvalore” che genera, accumulandosi, il capitale.
In questa teoria, dunque, si sovrappongono e confondono due elementi: 1) uno oggettivo, relativo al fatto che il processo economico mostra di creare valore; 2) uno soggettivo, relativo all’interpretazione di tale creazione quale frutto di una illecita appropriazione da parte dei padroni (che non lavorano) di una “fetta” della retribuzione spettante agli operai (che lavorano).
Osserva appunto Steiner: “Tutto quanto si riferisce a un concetto come “remunerazione non lavorativa” non deriva da pensieri di economia politica, ma solo da risentimenti verso chi percepisce tali “entrate non lavorative”, in fondo viste come le entrate di chi non lavora, di chi non fa niente. Così si introduce fraudolentemente nel pensiero economico, un concetto giuridico, o persino moralistico” (5).
Dal punto di vista puramente economico, il “plusvalore” altro non è, in effetti, che il profitto realizzato da una sana impresa produttiva. Una impresa che non fosse in grado di realizzarlo non sarebbe infatti un’impresa “economica”.
Ben si vede, in questa luce, come il problema non sia dunque quello di contrastare il profitto (ossia, la creazione della ricchezza), bensì quello di contrastare l’individuale e indebita appropriazione di una ricchezza che, in virtù della divisione del lavoro, è stata creata collettivamente o socialmente.
Ma c’è di più. Per Steiner, infatti, la creazione di valore da parte del processo economico, anziché essere – come ritiene Marx – il risultato di una “sottrazione” (viziosa), è piuttosto il prodotto di una “moltiplicazione” (virtuosa) o, più propriamente, dell’interazione di due diversi fattori: da un lato, del valore-volontà (o – come lo chiama Steiner – del “valore-natura”), che scaturisce dalla trasformazione della natura da parte del lavoro; dall’altro, del valore-pensiero (o – come lo chiama Steiner – del “valore-capitale”), che scaturisce dalla trasformazione del lavoro da parte dello spirito (6).
Questa tesi, avanzata da Steiner nel 1922, è oggi pienamente confermata dai fatti. “I sociologi Martin Kenney e Richard Florida – scrive ad esempio Jeremy Rifkin – parlano di nuove “fabbriche leggere” che sono più cerebrali che fisiche nell’aspetto (…) L’emergere della digitalizzazione fa aumentare l’importanza dell’intelligenza astratta nella produzione e quindi richiede che il lavoratore si impegni attivamente in quelle che in passato venivano considerate attività intellettuali” (7).
Fatto si è che Marx – stando a quanto scrive Luigi Firpo (citando Georges Sorel) – “ben conosceva l’assurdità del suo principio, ma volutamente lo bandì per usarlo, con tutte le conseguenze sistematiche, quale potente leva di agitazione sociale: l’identità di valore e lavoro non è un concetto, ma una creazione fantastica, un mito sociale destinato ad avere immensa forza emotiva sopra le masse proletarie” (8).
La riduzione quantitativa del valore al lavoro, esposta nel primo volume de Il capitale, viene inoltre contraddetta da quanto si trova affermato nel terzo volume (9). Ancora Firpo scrive appunto: “Una soluzione in sì aperta contraddizione con il postulato iniziale da suscitare la delusione più completa (…) Proprio il terzo volume de Il capitale demolisce quella riduzione di valore a lavoro, che era il postulato basilare dell’intera opera” (10).
Nel primo volume, si sostiene infatti che il “plusvalore” costituisce la legge che regola lo sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico, mentre nel terzo – come riporta Nicolao Merker – si sostiene invece che il “plusvalore” continuerà a esistere anche “dopo l’eliminazione del modo di produzione capitalistico” (11).
Anche Umberto Cerroni riconosce che “le categorie del plusvalore assoluto e del plusvalore relativo risultano scientificamente insufficienti per la comprensione del capitalismo moderno“; e che “l’indagine di Marx è sbilanciata verso l’enfatizzazione della percezione del plusvalore assoluto e cioè della lotta fra le classi per la determinazione legislativa della durata della giornata lavorativa” (12).
Ove si consideri, tuttavia, che – per Marx – il “plusvalore assoluto” dipende dal “prolungamento della giornata di lavoro”, mentre quello “relativo” dipende, in virtù di un aumento della produttività dovuto al progresso organizzativo e tecnologico, dalla sua “riduzione” (13), non è difficile avvedersi che nell’idea del “plusvalore relativo” (“trascurata” – nota Cerroni – da Marx) è implicita quella di Steiner del “valore-pensiero” o del valore derivante dalla trasformazione del lavoro da parte dello spirito.
Il “plusvalore”, ove dipendesse dalla quantità di lavoro svolta, ma non retribuita, dovrebbe del resto risultare tanto più elevato quanto maggiore è il numero dei soggetti cui viene sottratta tale parte di retribuzione: dovrebbe insomma aumentare all’aumentare della manodopera e diminuire alla sua diminuzione.
Nel modello fordista – ricorda appunto Giorgio Cremaschi – la potenza industriale era calcolata in termini di occupazione. Le imprese più potenti venivano misurate dal numero dei dipendenti, le stesse statistiche erano costruite con questo indicatore. Le dimensioni dell’esercito del lavoro che si aveva alle proprie dipendenze davano la misura della propria potenza e del proprio grado d’efficienza (14).
Come si è accennato, l’attuale fenomeno della cosiddetta “produzione leggera” (di matrice giapponese) ci presenta però una realtà ben diversa.
Sempre Cremaschi così la caratterizza: “Quando Wall Street punisce le imprese che assumono e premia, in termini di valore attribuito alle azioni, quelle che riducono il numero di occupati, fornisce un giudizio di valore e di efficienza; e il criterio dell’efficienza è la riduzione del numero degli occupati” (15).
Se tale riduzione costituisce addirittura un indice di efficienza, ciò vuol dire allora che non equivale a una riduzione del “plusvalore” o del profitto. Alla luce del criterio di Marx, un fenomeno del genere risulta inspiegabile; alla luce di quello di Steiner, viene invece a indicare che alla redditività dell’attuale impresa va contribuendo sempre più il “valore-pensiero” (legato allo spirito) e sempre meno il “valore-volontà” (legato alla natura).
Tra i tanti che si ostinano a voler risolvere la “questione sociale” senza abbandonare il materialismo, e a non voler quindi considerare la realtà dello spirito, figura anche Wilhelm Reich. Nella forza-lavoro umana, egli vede infatti una “merce vivente” che ritiene di dover distinguere dalla ordinaria “merce inerte”.
Il lavoro – dice ad esempio – è una fondamentale attività biologica, caratteristica anche degli organismi viventi primitivi. Per quanto concerne la funzione lavorativa, l’uomo non si differenzia dagli altri animali inferiori, per il fatto che egli lavora (tutte le creature viventi lo devono fare per poter vivere). Egli si differenzia per il fatto che ha cercato di organizzare meglio le sue funzioni lavorative, inventando strumenti (16).
Orbene, pur volendo prescindere dal fatto che resta ancora da stabilire se l’uomo si differenzi dagli animali perché ha inventato degli strumenti o se, viceversa, abbia inventato degli strumenti perché si differenzia dagli animali, è certo, comunque, che una cosa è il lavoro come pura attività o come puro dispendio di energia, altra il lavoro come momento o fattore del processo economico.
Chiunque, ad esempio, si arrampichi su un pesco, ne colga un frutto e lo mangi, pur avendo svolto un’attività (magari anche faticosa), non ha però ancora svolto, in senso propriamente economico, un “lavoro”. Perché si realizzi quest’ultimo è infatti necessario che la pesca non venga mangiata, bensì messa sul mercato (quale “valore di scambio”), e per ciò stesso inserita nel processo economico.
Ebbene, si è mai osservato qualcosa di simile nel mondo animale?
Non lo si è mai osservato, e mai lo si osserverà, poiché tanto la forza creatrice del “valore-natura” (la volontà) quanto quella del “valore-capitale” (il pensiero) non hanno natura “biologica”, bensì spirituale. Osserva appunto Adam Smith: “L’inclinazione allo scambio, al baratto e alla permuta di una cosa per un’altra, è comune a tutti gli uomini, e non si trova in nessuna altra razza di animali” (17).
Sarebbe decisivo realizzarlo, in quanto Steiner, come invita a distinguere, nell’attività teoretica, il pensare dal pensato, così invita a distinguere, in quella pratica, il produrre dal prodotto.
E’ infatti la vivente (e spirituale) attività del produrre (del volere) a esaurirsi o coagularsi nelle cose prodotte (volute): e la vita economica – secondo Steiner – dovrebbe riguardare (e perciò “mercificare”), non il produrre, bensì sempre e soltanto le cose prodotte.
E’ nella natura del capitalismo – osserva in proposito Luciano Barca – tendere a fare di ogni cosa, di ogni bene, una merce (18).
E’ vero. Si dovrebbe però specificare che tale tendenza in tanto appartiene al “capitalismo” in quanto questo non è appunto che il frutto della patologica egemonia della vita economica sulla vita politico-giuridica e su quella spirituale-culturale.
Non si vede – precisa infatti Steiner – che è una caratteristica della vita economica stessa quella di dare, a tutto ciò che vi si incorpora, il carattere di merce. La vita economica consiste infatti nella produzione e nell’adeguato consumo di merci. Perciò non è possibile togliere al lavoro umano il carattere di merce, se non si trova la possibilità di svincolarlo dal processo economico (19).
Ciò che non si vuole veder ridotto a merce (il lavoro, la giustizia, la cultura) deve pertanto essere sottratto, non al “capitalismo”, bensì all’organizzazione economica, e quindi affidato a una libera organizzazione spirituale-culturale e a un’autonoma organizzazione politico-giuridica.
L’organismo sociale triarticolato, immaginato da Steiner, prevede infatti che la vita economica sprigioni liberamente le proprie energie all’interno di un campo delimitato, da un lato, dalla natura e, dall’altro, dal diritto. L’un limite le è posto dalle caratteristiche dei luoghi e dei tempi in cui si svolge (dalla maggiore o minore ricchezza, ad esempio, delle risorse naturali) e, l’altro, dall’organizzazione politico-giuridica, a tutela della dignità di ogni membro della comunità sociale (e in accordo con i rappresentanti dell’organismo economico e di quello spirituale-culturale).
Prima di concludere, proviamo però a riprendere le formule di Marx per osservare quel che succede allorché al capitale industriale si viene a sostituire quello finanziario.
In questo caso, si ha la formula: D -> D’. Come si vede, è una formula che ricorda quella antica del baratto: con la differenza che quella non contemplava la mediazione del denaro, mentre questa non contempla la mediazione della merce.
E’ qui che – secondo Steiner – l’attività economica viene presa totalmente in pugno dalle forze arimaniche.
Con l’attività finanziaria (e, a maggior ragione, con quella speculativa), il denaro non solo si scorpora o si sgancia dai beni che dovrebbe limitarsi a rappresentare, venendo così ad assumere una sorta di carattere “spettrale”, ma induce anche quanti vi si dedicano (detti “gnomi” dal genio del linguaggio) a nutrire sempre meno interesse per il processo economico oggettivo: cioè a dire, per il lavoro, per le merci e per il mercato (extrafinanziario). “Quello che a loro interessa, – osserva appunto Viviane Forrester – e che lascia nell’ombra tutti gli altri fenomeni, sono i capitali, i giochi finanziari – quelle speculazioni, quelle transazioni inedite, quei flussi impalpabili, questa realtà virtuale oggi più influente di qualsiasi altra” (20).
Come, dunque, il pensiero astratto, una volta ghermito dalla volontà di Arimane, diviene ossessivamente e medianicamente potente, così il denaro (la merce astratta), una volta catturato dalla stessa entità, diviene ossessivamente e medianicamente potente nella forma impersonale e innaturale del capitale finanziario.
Sarà opportuno ricordare, al riguardo, che – a detta di Steiner – l’occultismo orientale è in prevalenza “fisiologico” (basato, ad esempio, sulla respirazione), mentre quello occidentale (in specie “anglo-americano”) è in prevalenza “medianico”; e che egli così precisa: “In tutto l’esteso campo delle manifestazioni spiritistiche non vi sono altri spiriti se non quelli arimanici” (21).

Note:

01) C.Marx: Il capitale (estratti) – Reprint, Palermo 1993, p.24;
02) ibid., p.15;
03) ibid., p.16;
04) ibid., p.105;
05) R.Steiner: Come si opera per la triarticolazione dell’organismo sociale – Antroposofica, Milano 1988, p.105;
06) cfr. R.Steiner: I capisaldi dell’economia – Antroposofica, Milano 1982;
07) J.Rifkin: La fine del lavoro – Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp.170-171;
08) L.Firpo: prefazione a K.Marx: Il capitale – UTET, Torino 1946, p.XXVIII;
09) dopo la morte di Marx (1883), sarà Engels a dare alle stampe, nel 1885, il secondo volume de Il capitale e, nel 1894, il terzo;
10) L.Firpo: op.cit., pp.XXXVI e XXXV;
11) N.Merker: Karl Marx 1818-1883 – Editori Riuniti, Roma 1983, p.133;
12) U.Cerroni: Il pensiero di Marx – Editori Riuniti, Roma 1972, p.27;
13) G.Trevisani: Piccola enciclopedia del socialismo e del comunismo – Cultura nuova, Milano 1948, p.47;
14) M.Revelli-G.Cremaschi: Liberismo o libertà – Editori Riuniti, Roma 1998, pp.67-68;
15) ibid., p.68;
16) W.Reich: Individuo e Stato – Sugarco, Milano 1978, p.85;
17) Cit. in G.Pugnetti: I venditori ambulanti nel cammino della civiltà – Istituto Editoriale Regioni Italiane, Milano 1978, p.17. In verità, anche quella biologica è una realtà spirituale (eterica). Si è tuttavia costretti a opporre la seconda alla prima in quanto la realtà biologica viene presentata, dai naturalisti, quale negazione di quella spirituale;
18) L.Barca: Da Smith con simpatia – Editori Riuniti, Roma 1997, p.45;
19) R.Steiner: I punti essenziali della questione sociale – Bocca, Milano 1950, p.27;
20) V.Forrester: L’orrore economico – Ponte alle Grazie (Fi) 1997, p.34;
21) R.Steiner: Esigenze sociali dei tempi nuovi – Antroposofica, Milano 1971, p.138.

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Di Lucio Russo
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