L’uomo da creatura a creatore

L

La nota che segue nasce dalla revisione e dall’aggiornamento, a cura di Lucio Russo, di una sua dispensa del maggio 1996.


 

L Ciao, come va?
Z Bene, e tu?
L Bene, grazie. Cosa stavi leggendo?
Z Questa Breve storia del pensiero scientifico. La conosci?
L No, chi l’ha scritta?
Z Charles Singer. Stando a quanto si dice nel libro, pare si tratti di uno studioso di fama mondiale. Ha insegnato nelle Università di Londra e Oxford ed è stato anche presidente della Società britannica e di quella internazionale per la storia della scienza.
L Insomma, un’autorità…E’ vivente?
Z No, è morto nel 1959.
L E il libro com’è?
Z Non posso dirti granché, l’ho cominciato da poco.
L E non hai trovato ancora nulla d’interessante?
Z Beh, a dire la verità, proprio all’inizio, c’è un’affermazione che può far pensare.
L Quale?
Z Che la scienza non è un “corpo statico di conoscenze”, ma un “processo in atto” che si sviluppa nel corso della storia. Secondo Singer, in altre parole, la scientificità implica il “farsi della conoscenza”, ed è quindi estranea a qualsiasi corpo di dottrine che non sia “in sviluppo” o “in fieri” (1).
L La scienza sarebbe dunque un divenire, e non un divenuto?
Z Esatto.
L E quando sarebbe cominciato tale divenire?
Z Questo, dichiara Singer, non lo si sa, né lo si può sapere.
L E perché?
Z Se vuoi, posso leggerti il passo in cui risponde proprio a questa domanda.
L Va bene.
Z Eccolo…dice così: “Di nessuna delle grandi scoperte che resero possibile la vita sociale è giunto a noi il nome dello scopritore. Gli inventori e i successivi sperimentatori dei procedimenti per accendere il fuoco, della ceramica, della ruota, del cuneo, dell’arco, dei metalli e della loro lavorazione fecero progredire l’umanità lungo il sentiero che conduce alla scienza: i loro nomi, le loro date, persino i loro legami tribali sono andati tuttavia completamente perduti. Così è stato anche per i primi pensatori. Possediamo ampie testimonianze delle intuizioni religiose ed etiche dei popoli del mondo antico, ma poche di quel prodotto tipicamente individuale dell’intelletto umano che nel suo successivo sviluppo chiamiamo “filosofia” e di cui la scienza costituisce una parte. Non sappiamo nulla di coloro che per primi si dedicarono al compito essenziale del filosofo, che è di spiegare se stesso e il suo mondo. Anche quando il profeta o il sacerdote cercano di diffondere un messaggio, sempre essi sottolineano che non proviene da loro ma da altri e generalmente da un essere che è al di fuori della nostra vista perché abita i luoghi superni” (2).
L Mi sembra francamente ingenuo.
Z Perché?
L Per varie ragioni.
Z Beh, se ti va, perché non provi a espormene qualcuna?
L D’accordo. Tanto per cominciare c’è il problema del divenire.
Z Che cos’è che non ti convince?
L Mi sta bene che la scienza non possa essere ridotta a un divenuto, ma non mi convince che la si riduca per questo a un divenire.
Z Perché “riduca”?
L Perché se non è lecito ridurre il verbo a oggetto, non è neppure lecito ridurre il soggetto a verbo.
Z Quale soggetto?
L Ma quello appunto che diviene! Il vero problema, infatti, sarebbe quello di capire chi è che diviene la cosa. Se in primavera, ad esempio, si osservano crescere, l’uno accanto all’altro, un geranio e un garofano, si vedrà che è uno stesso divenire a produrre due cose diverse. Attraverso il divenire, sono le qualità a prendere corpo nelle cose.
Z Ma se le qualità non sono delle cose né un divenire, cosa sono allora?
L Le essenze delle cose.
Z Il soggetto è dunque un’essenza?
L Ma certo! Il soggetto è un’idea che, in veste appunto di forma o qualità, si manifesta prima, nel tempo, come divenire e poi, nello spazio, come divenuto o cosa.
Z La scienza sarebbe allora una qualità?
L Proprio così! Si dovrebbe infatti definire “scientifica” soltanto una specifica qualità del rapporto che l’uomo instaura con se stesso e col mondo.
Z Mi fai venire in mente che la psicoanalisi si occupa in special modo della qualità del rapporto che il soggetto ha con se stesso e col mondo. Distingue, ad esempio, il rapporto basato sul cosiddetto “principio del piacere”, che chiama “narcisistico”, da quello basato sul cosiddetto “principio della realtà”, che chiama “oggettuale”.
L Dal momento che hai tirato in ballo la psicoanalisi, considera allora che le perversioni, le nevrosi e le altre malattie mentali altro non rappresentano, in sostanza, che una distorsione o una negazione più o meno grave del rapporto “oggettuale” che dovremmo avere con noi stessi e col mondo.
Z In effetti, basterebbe pensare al feticismo per convincersene.
L Tieni conto, tuttavia, che dire ”oggettualità” significa dire “oggettività”, e che proprio questa è la specifica qualità del rapporto scientifico del soggetto con se stesso e col mondo.
Z Ma se la scienza è qualità, allora non è neanche “metodo”?
L Infatti è la scienza a creare il metodo, e non viceversa.
Z Singer sostiene però che la scienza usa diversi metodi per ricercare e scoprire, ma ne usa uno solo per dimostrare (3).
L Questa proprio non la capisco. La scienza è una, mentre i metodi possono essere molteplici. E’ in virtù della varietà dei metodi che un solo spirito scientifico riesce infatti ad adeguarsi alla varietà degli oggetti indagati. Ciò implica, tuttavia, che anche i metodi di verifica debbano essere adeguati a quelli dell’indagine.
Z Come pretendere, d’altro canto, che quanto è stato ricercato e scoperto dall’occhio venga poi verificato dall’orecchio, o viceversa? Ma mi piacerebbe leggerti quello che dice Schelling a questo proposito.
L Perché, che dice?
Z Se hai un attimo di pazienza, prendo il libro e te lo leggo.
L Prego, fai pure. Che libro è?
Z La Filosofia della mitologia.
L Non l’ho letto.
Z Ecco…senti qua: “Dunque non è in questione, quale opinione debba assumersi del fenomeno, affinché esso, reso conforme ad una qualsivoglia filosofia, possa essere agevolmente spiegato, ma viceversa, quale filosofia si richieda, affinché, cresciuta con l’oggetto, ne sia all’altezza. Non come debba essere rigirato il fenomeno, reso unilaterale, ridotto, affinché sia comunque giustificabile a partire da principi che ci siamo prefissi una volta per tutte di non travalicare, bensì: fino a che punto i nostri pensieri devono ampliarsi, per essere in rapporto con il fenomeno” (4).
L Sarebbe una vera fortuna se decidessero di attenersi a un principio del genere tutti quelli che oggi, invece di ampliare i loro pensieri, riducono i fenomeni vitali, animici e spirituali a quelli materiali.
Z Per Schelling, farebbero comunque meglio a star zitti. Senti come prosegue: “Chi tuttavia abbia sempre provato motivi di avversione di fronte a tale ampliamento del pensiero, questi, invece di abbassare ed appiattire il fenomeno sui suoi concetti, dovrebbe essere perlomeno così avvertito di porlo nel numero delle cose, di cui ce ne sono tante per ogni uomo, nel numero delle cose che non comprende; e se non è capace di elevarsi in conformità del fenomeno, dovrebbe quantomeno guardarsi da asserzioni da esso del tutto difformi” (5).
L Parole sante! Quando, anziché elevare il pensiero, si abbassa e appiattisce il fenomeno, si viene infatti meno all’oggettualità o all’oggettività. A questo proposito, vorrei però soffermarmi su una questione che viene quasi sempre trascurata.
Z Quale?
L Vedi, noi diciamo, sì, “oggettualità” od “oggettività”, ma non ci domandiamo, né tantomeno ci spieghiamo, come faccia l’uomo a realizzarla: come riesca, cioè, portandosi, in se stesso, oltre se stesso, ad afferrare l’essenza dell’oggetto o del fenomeno.
Z E tu come lo spieghi?
L Per provare a farlo, dovremmo riprendere il problema dall’inizio e osservarlo da un diverso punto di vista.
Z Facciamolo!
L Va bene. Avrai dunque notato che Singer, nel passo che hai letto, afferma che la filosofia e la scienza sono un “prodotto tipicamente individuale dell’intelletto umano”. Orbene, se questo è vero, vuol dire allora che il problema della loro origine o della loro storia è quello stesso dell’origine o della storia dell’individualità umana e dell’intelletto.
Z Intendi dire che, per comprendere l’origine della scienza, bisognerebbe comprendere l’origine del particolare tipo di coscienza che la caratterizza, se non addirittura l’origine o la storia della coscienza stessa?
L Proprio così. Lo stesso Singer, del resto, riferendosi esplicitamente a “sacerdoti” e “profeti”, ma in specie a “esseri” che abitano, come dice, “luoghi superni”, non volge forse lo sguardo verso la soglia che divide la storia dalla preistoria?
Z E come “dateresti” tale soglia?
L Poiché la storia si fa con i documenti, ossia con le testimonianze scritte, si potrebbe grosso modo far coincidere la sua origine con quella della scrittura, nel 3000 a.C..
Z All’epoca degli Egizi?
L All’incirca nell’epoca in cui, secondo quanto ricordano lo storico egizio Manetone ed Erodoto (6), dopo i “re divini”, il primo “re-uomo”, Menes o Manes, inaugura, con la prima e la seconda dinastia, il periodo tinita della civiltà egizia.
Z Gli uomini, un tempo, avevano dunque guide divine?
L Certo, e appunto da tali guide provenivano quei “messaggi” diffusi poi, come dice Singer, da sacerdoti e profeti.
Z La guida divina era quindi indiretta.
L Vedi, se paragonassimo le fasi di sviluppo dell’umanità a quelle di un bambino, il periodo nel quale gli Dei guidano direttamente l’umanità potremmo associarlo a quello della gestazione, mentre quello nel quale cominciano a guidarla indirettamente potremmo associarlo alla nascita. Naturalmente, col crescere dell’umanità, la guida divina si rende via via meno necessaria, fino a cessare del tutto allorché gli uomini raggiungono la loro prima maturità.
Z E quando avrebbero raggiunto questa prima maturità?
L Senz’altro, nell’epoca greco-latina.
Z E saresti in grado d’indicarmi qualche grande guida delle epoche precedenti?
L Certo: per l’India pre-vedica, puoi pensare ai sette santi Rishi; per l’antica Persia, a Zoroastro; per l’Egitto, a Ermete.
Z A proposito dell’epoca greco-latina e del venir meno della guida divina, sai cosa mi hai fatto ricordare?
L No, cosa?
Z Quella stupenda pagina de Il tramonto degli oracoli in cui Plutarco riferisce, in modo misterioso e inquietante, della morte di Pan. La conosci?
L La conosco, ma ti confesso che mi farebbe piacere riascoltarla. Ce l’hai il libro?
Z Certo che ce l’ho…Eccolo! Come vedi, ci ho lasciato un segno. Dice dunque Plutarco: “Io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l’Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo. All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell’uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con tono più alto disse: “Quando sarai a Palode, annuncia che il grande Pan è morto”. A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l’ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infine arrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un’onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: “Il grande Pan è morto”. Non aveva quasi finito di dirlo che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore” (7).
L E’ una pagina veramente straordinaria. Ancor oggi dà un certo brivido.
Z Nella sua introduzione al testo, Dario del Corno parla infatti dell’età di Plutarco come della “età dell’ansia”: dell’ansia che attanagliò allora il mondo antico e lo spinse a chiedersi: “Muoiono gli oracoli, muoiono i demoni, morirà anche il mondo?” (8).
L Eppure anche gli oracoli e gli Dei, come fa il Sole, tramontano da una parte per sorgere da un’altra.
Z Che vuoi dire?
L Rifletti: non è proprio al tempo della morte di Pan che si compie il Mistero del Golgotha?
Z Anche per te c’è dunque un nesso tra la morte di Pan e la nascita di Gesù?
L Perché, chi altri ne parla?
Z Beh, ad esempio, lo stesso del Corno nota che per una religione che muore un’altra ne nasce, e ricorda che, stando ad alcuni commentatori, un nesso tra la morte di Pan e la nascita di Gesù era stato già colto “profeticamente” da Virgilio, nella quarta Bucolica, e suggerito, in epoca più recente, da Milton, nell’Inno sul mattino della Natività di Cristo (9).
L Non lo sapevo.
Z Ma se lo spirito tramonta o muore nella natura per sorgere o nascere nell’uomo, il rapporto del soggetto con l’oggetto viene allora a ribaltarsi.
L Proprio così. L’uomo antico è infatti un soggetto passivo che ascolta un soggetto attivo, e dunque una sorta di “oggetto” guidato da un soggetto. Parlano infatti gli Dei, gli oracoli, i sacerdoti, i profeti, e parla, in quanto vivente e animata, perfino la natura: soltanto l’uomo ascolta.
Z Poi però, mi sembra di capire, tutto pian piano ammutolisce e il solenne silenzio del mondo viene rotto, per la prima volta, dal verbo o dalla parola dell’uomo.
L Tutto in effetti si rovescia. Ora è l’uomo a parlare e interrogare ed è la natura ad ascoltare e rispondere.
Z Non mi è comunque facile immaginare questa penetrazione dello spirito nell’essenza dell’uomo.
L Prova allora a rappresentarti un triangolo isoscele con il vertice in alto, e a tracciare idealmente una linea, parallela alla base, che unisca i punti medi dei due lati uguali.
Z Ebbene?
L Ebbene, hai così un triangolo diviso in tre parti: una inferiore, che va dalla base alla linea che hai tracciato, e che può rappresentare il corpo; una superiore, che va da tale linea al vertice, e che può rappresentare l’anima; e infine il vertice, che può rappresentare l’ego.
Z E allora?
L E allora puoi cominciare, con l’aiuto di questa figura, a farti un’idea di che cosa significhi essere un ego. Essere un ego vuol dire infatti essere una realtà divenuta, creata, finita, e per ciò stesso “chiusa”: una realtà, insomma, che, non avendo ancora accolto il Logos, ossia l’Essere di tutte le essenze, ha conseguito il proprio stato, ed è pertanto prigioniera e del proprio passato e di se stessa.
Z E’ per questo allora che l’ego, recluso com’è nella propria anima e nel proprio corpo, si sente non solo separato dal mondo e dagli altri, ma anche incapace di vincere la propria solitudine, andando al di là di se stesso?
L Come risponde infatti il Battista ai sacerdoti e ai leviti che, inviati dai Giudei, gli chiedono cosa dica di sé?
Z Se ben ricordo, risponde: “Io sono la voce d’uno che grida nel deserto”.
L La voce appunto dell’ego, il precursore dell’Io!
Z Sai, credo di capire perché hai detto, poc’anzi, che dovremmo stupirci del fatto che l’uomo, allorché conosce scientificamente od oggettivamente, mostra di avere la capacità di portarsi, in se stesso, oltre se stesso. A un ego come quello rappresentato dal vertice del triangolo un simile autotrascendimento sarebbe di certo impossibile.
L In quanto chiuso in un’anima, chiusa a sua volta in un corpo, non avrebbe infatti modo di travalicare la sfera della soggettività o dell’opinione.
Z La matematica, però, non è un’opinione!
L Ma non lo è proprio perché, nella sua applicazione scientifica alla conoscenza dello spazio e del mondo inorganico, è anch’essa frutto dell’incarnazione del Logos.
Z In ogni caso, non mi hai ancora illustrato come penetri il Logos nel chiuso mondo dell’ego.
L Non è difficile, basta ritoccare di poco la figura.
Z E in che modo?
L Prolungando i due lati uguali del triangolo oltre il vertice.
Z Ma così si ottiene la figura dei cosiddetti “angoli opposti al vertice”!
L Esatto, proprio quella!
Z E allora?
L E allora, dal momento che i due angoli opposti hanno il vertice in comune, siamo al cospetto di un autentico paradosso.
Z Sarebbe a dire?
L Al paradosso di un punto che è, insieme, chiuso e aperto, morto e vivo, ultimo e primo, fine e principio; al paradosso, insomma, di un Dio che si fa uomo e di un uomo che si fa Dio, di un creatore che si fa creato e di un creato che si fa creatore o di un Io che si fa ego e di un ego che si fa Io.
Z In effetti, Dio dice a Mosè: “Dirai così ai figliuoli d’Israele: l’Io sono m’ha mandato da voi”.
L E’ però solo in grazia dell’incarnazione del Logos che l’Io sono penetra nell’ego, conferendogli così la facoltà di riprendere la propria evoluzione e di portarsi, senza uscire da se stesso, oltre se stesso. Aprendosi all’Io sono che lo inabita, e che gli è quindi immanente, l’ego può allora superare la propria finitezza o solitudine e immettersi sulla via di una libera e cosciente reintegrazione dell’originaria comunione col mondo.
Z Giacché identifichi l’Io sono biblico col Figlio, come vedi allora le altre due Persone della Trinità?
L Non dimenticare che stiamo parlando di un Essere che è, insieme, Uno e Trino. In tutti i modi, nella Persona del Padre vedo l’Io sono quale passato o Essere della natura e, in quella dello Spirito Santo, l’Io sono quale futuro o Essere dello spirito.
Z E nella Persona del Figlio?
L In questa, vedo appunto il Logos o il Verbo: ovvero, l’Io sono quale presente o Essere dell’anima e del divenire.
Z Del “divenire”?
L Ma certo! E’ in virtù dell’Essere del divenire che l’Essere della natura, si trasforma nell’Essere dello spirito. Si tratta, come ha intuito ad esempio Gioacchino da Fiore, di una vicenda a un tempo cosmica e terrestre, divina e umana.
Z Se il Logos non si fosse incarnato, l’uomo sarebbe rimasto dunque una creatura o un creato?
L Una creatura, un creato o un divenuto: ovvero, non un’essenza viva e in divenire, bensì un’essenza “caduta” o uno stato.
Z Non vi è dubbio che un divenuto o uno stato può riprendere a divenire soltanto se gli viene inoculata la vita o la forza del divenire stesso. L’ego, però, può anche non aprirsi a quell’Io sono che lo inabita, ma che gli è sconosciuto.
L E’ vero. Il Vangelo di Giovanni dice infatti: “E la luce risplende fra le tenebre; ma le tenebre non l’hanno ricevuta”; e aggiunge: “Era nel mondo, e il mondo fu creato per mezzo di lui, ma il mondo non lo conobbe. Venne in casa sua, e i suoi non lo ricevettero”. Ma proprio questa è la prova della libertà. Senza una cosciente e volontaria iniziativa del soggetto umano, tutta la grazia potenziale del Soggetto divino non può attuarsi. Sempre il Vangelo dice appunto: “Bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato”.
Z E come si fa a “bussare” e “chiedere”?
L Cominciando, ad esempio, a educare e sviluppare, mediante il pensare, la coscienza e l’autocoscienza. Come abbiamo detto, l’uomo, quale ego, è un essere finito o morto. Benché tale, l’ego si sente però vivo perché s’identifica inconsciamente con la natura che è in lui, ma che non è lui.
Z E immagino paventi allora la vita del Logos, credendo ingenuamente che voglia dargli la morte.
L Bravo! E’ appunto perché s’illude di essere vivo che l’ego avverte la vita del Logos come morte.
Z Resta vero, comunque, che proprio la croce sta a indicare che nel Figlio qualcosa muore.
L Hai ragione: nel Figlio, muore la morte! Per illustrare questo aspetto vorrei però tornare, se non ti dispiace, alle due nostre precedenti figure.
Z Non mi dispiace affatto.
L Abbiamo detto, ricorderai, che il vertice del triangolo rappresenta quell’ego che ha sotto o dietro di sé, quale passato, l’anima e il corpo e, sopra di sé o davanti a sé, quale futuro, il nulla. E’ quindi l’horror vacui a spingere l’ego a pascersi del passato e della propria natura inferiore, tanto da assomigliare a un calice rovesciato in cui di continuo risalgono le forze del sentire e del volere personali: che è come dire, del narcisismo e dell’egoismo
Z Sono questi gli ego che si sentono “pieni di sé”?
L Certo! E ricordi cosa dice ancora il Battista a questo preciso proposito? ”Bisogna che Egli cresca e io diminuisca”.
Z Dunque, più cresce l’ego più diminuisce l’Io, e viceversa.
L Fatto si è che l’ego, per diminuirsi, dovrebbe avere il coraggio di rovesciarsi di nuovo e affermarsi, al pari di una negazione della negazione, quale Io spirituale. Il vero Io umano è infatti un calice in cui di continuo discendono e si riversano la vita, la luce e il calore del Logos; è da questo calice che la traboccante forza d’amore dell’Io sono si riversa poi nella natura inferiore, trasformandola e redimendola.
Z Mi viene in mente la moglie di Lot che, per essersi appunto volta all’indietro a guardare la distruzione di Sodoma e Gomorra, fu tramutata in una statua di sale.
L E infatti l’ego, se vogliamo, non è che un Io divenuto una statua di sale. Il medesimo motivo è peraltro presente anche nella storia di Orfeo ed Euridice.
Z Se non ti dispiace, tornerei però a noi. Hai detto, poco fa, che per “bussare” e “chiedere” bisogna cominciare a educare e sviluppare, mediante il pensare, la coscienza e l’autocoscienza. Cosa comporta, questo, per il pensiero scientifico?
L Ma vedi, anche il pensiero scientifico può essere, come l’ego, “chiuso” o “aperto”.
Z Non capisco.
L Prendi, ad esempio, il cosiddetto “principio d’inerzia” così come viene solitamente enunciato: “A causa dell’inerzia un oggetto non sottoposto all’azione di forze esterne mantiene il suo stato di quiete o, se è in moto, continua a muoversi in linea retta e con velocità costante” (10). Ebbene, un principio del genere spiega il comportamento del mondo inorganico, ma non quello del mondo organico. Una pianta, ad esempio, non ha alcun bisogno di modificare il proprio stato facendo intervenire delle forze esterne, poiché sa farlo da sola. In tale enunciato, quanto è valido per il solo mondo minerale viene dunque esteso, arbitrariamente, a tutta la realtà.
Z E come dovrebb’essere enunciato, allora?
L Magari, così: “Ogni corpo che non è capace di modificare il proprio stato di quiete o di moto per forza propria, si dice inerte” (11).
Z Devo ammettere che questo secondo enunciato include il primo, mentre il primo esclude il secondo.
L Ma appunto per questo è un enunciato “aperto”, e non “chiuso”. Il primo, in quanto “chiuso”, non è dunque un enunciato scientifico, bensì dogmatico.
Z Le cose che hai detto mi ricordano un passo del Vangelo di Matteo che mi ha sempre molto colpito.
L Quale?
Z Quello in cui il Cristo dice: “Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti che avete preso le chiavi della scienza e non ve ne servite che per chiudere agli uomini il Regno dei Cieli: voi non vi entrate e impedite agli altri di entrarvi”.
L E’ davvero di straordinaria attualità. Proprio oggi siamo chiamati infatti a scegliere se chiuderci o arroccarci nella sola e morta dimensione della materia e dello spazio o se aprirci, muovendo da quella, alle superiori dimensioni della vita, dell’anima e dello spirito.
Z Non si tratta dunque di rifiutare la scienza, quanto piuttosto di scegliere tra una scienza per l’uomo o umana e una scienza contro l’uomo o disumana.
L Considera, tuttavia, che la vera scienza può darsi soltanto nell‘uomo e per l’uomo.
Z Vuoi forse dire che la scienza contro l’uomo non è una vera scienza?
L Ma ricorda ciò che dice ancora il Vangelo: “Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. La scienza, come peraltro l’arte e la religione, sono fatte per l’uomo; ove siano fatte per se stesse, o contro l’uomo, non sono allora vera scienza, vera arte e vera religione. E’ comunque la scienza a dover cominciare a essere vera, e quindi umana.
Z E in che modo?
L Prendendo anzitutto coscienza di sé: riconoscendo, cioè, la sua vera essenza.
Z La scienza non ha coscienza di sé?
L Certo che no! Una cosa è infatti la coscienza, altra l’autocoscienza. Non dice appunto il Cristo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”?
Z E così si torna al problema iniziale della qualità.
L Giusto! Chi crede che la scienza sia una “cosa” o un “metodo”, o chi crede invece, come Singer, che sia un “processo in atto”, dimostra solo di non aver ancora afferrato la qualità o l’essenza della scienza stessa.
Z Penso che le conseguenze negative di questo stato d’incoscienza si palesino, oltreché sul piano noetico, anche su quello etico.
L Si è formato infatti un divario sempre più ampio, e sempre più denunciato e deprecato, tra il progresso scientifico e quello morale.
Z E al quale si tenta di sopperire sottoponendo l’attività scientifica alla tutela di “comitati etici”.
L L’esigenza di una estrinseca tutela “etica” comprova però che la scienza, alla stessa stregua di un minore, non ha ancora raggiunto la maturità: ovvero, l’autocoscienza. Il progresso morale dipende infatti dal progresso dell’autocoscienza, e non da quello della coscienza. Una scienza che fosse pienamente consapevole di sé non avrebbe sicuramente bisogno di un’esteriore vigilanza etica.
Z Sono comunque convinto che, laddove non si dia un progresso, si dia prima o poi un regresso.
L Hai ragione. La scienza attuale, infatti, in tanto è regredita al materialismo in quanto, abbacinata com’è dagli oggetti delle sue indagini, si è resa cieca nei confronti della sua stessa attività: di quell’attività, intendo dire, che si estrinseca in primo luogo nel percepire e nel pensare e che le consente di conoscere obiettivamente gli oggetti o i fenomeni. Sai cosa dice Rudolf Steiner dell’origine della scienza?
Z No, cosa dice?
L L’ho qui annotato…te lo leggo?
Z Magari.
L “Non si riconosce tale origine, quanto all’essenza della scienza stessa, se si considera l’oggetto al quale la scienza si rivolge, ma la si ritrova bensì nell’attività dell’anima umana che si manifesta nello sforzo conoscitivo. Occorre appunto concentrare l’attenzione sul comportamento dell’anima, in quanto acquista scienza” (12).
Z La qualità dell’attività scientifica è dunque quella del soggetto che la svolge…Dico bene?
L Benissimo! Un soggetto che sappia di sé solo come corpo fisico o come spazio può conoscere solo quanto nel mondo è esteso ed inerte. Nel Faust, è detto infatti: “Tu somigli allo spirito che comprendi”.
Z In parole povere: “Dimmi che fai e ti dirò chi sei!”
L Oppure, ma non in senso banalmente psicologico: “Dimmi chi sei e ti dirò che fai”. Tieni conto, tuttavia, che la scienza del mondo inorganico, quella, per capirci, che si basa legittimamente sulla matematica, rappresenta già un superamento della morte.
Z E cioè?
L Pensaci bene: qualora ti fosse dato, ad esempio, di osservare il tuo cadavere, la cosa che osserveresti sarebbe morta, ma non saresti morto tu che, proprio in quanto vivo, saresti in grado di osservarla.
Z Sbaglio o è lo stesso principio per il quale si sostiene che un matto che riconosca la propria follia non è un matto?
L Sì, è lo stesso. Ogni cosa, del resto, per poter essere resa cosciente, deve venire oggettivata: ossia, separata dal soggetto e postagli di fronte. Quando la morte è di fronte a noi, noi ne siamo perciò fuori.
Z La cosa è però tutt’altro che evidente.
L Ma è tutt’altro che evidente proprio perché, ti dicevo, si è tanto attenti all’oggetto che si percepisce e si pensa quanto si è viceversa disattenti alle attività del percepire e del pensare e al soggetto che le svolge. Tale è il grado della disattenzione, che si finisce poi col ribaltare il rapporto tra soggetto e oggetto: non ci si sforza più infatti di spiegare l’oggetto per mezzo del soggetto, bensì il soggetto per mezzo dell’oggetto.
Z Non più il cervello, ad esempio, per mezzo dell’Io, bensì l’Io per mezzo del cervello. Se ho ben capito, il soggetto vivo, volendosi conoscere per mezzo dell’oggetto materiale o morto, finisce allora col conoscersi quale soggetto materiale o morto.
L Proprio così!
Z La nascita della scienza sarebbe insomma un effetto postumo dell’incarnazione del Logos e la manifestazione, nel pensiero umano, del Suo potere di resurrezione. Lo dico anche perché ho letto da poco un libro in cui l’autore dichiara apertamente di non sapere donde la scienza tragga il suo potere.
L Di che libro si tratta?
Z Aspetta, te lo mostro…eccolo qua: s’intitola La scienza e il dominio dell’Occidente e l’autore si chiama Kurt Mendelssohn.
L Non lo conosco. Chi è?
Z Ha studiato fisica con Max Karl Planck ed Albert Einstein ed è stato il primo a liquefare l’elio. Dal 1951 è membro della Royal Society e pare abbia scritto molti altri libri importanti.
L E in questo cosa dice?
Z Vuoi ascoltarne qualche passo?
L Volentieri.
Z Proprio all’inizio, dice ad esempio: “Cinquecento anni fa quando le navi di Enrico il Navigatore si spinsero lungo la costa dell’Africa, nei primi passi verso il dominio del mondo, l’Europa era terribilmente povera in confronto alle grandi civiltà dell’Oriente, e presto sarebbe stata ulteriormente impoverita da guerre ed epidemie. Ma in quel momento erano state gettate le basi della futura ricchezza dell’Europa: le sue radici affondano in un’unica idea filosofica che oggi chiamiamo scienza e che è descritta in modo migliore dal suo vecchio nome di “filosofia della natura”” (13).
L Sono lieto di constatare che questo autore, diversamente da Singer, non solo colloca la sua nascita fra il XV e il XVI secolo, ma riconosce pure che la scienza, in ultima analisi, non è che un’idea.
Z In effetti sostiene, a chiare lettere, che la scienza, nella sua moderna accezione, non è “mai esistita prima”, essendo venuta alla luce “come qualcosa di totalmente nuovo”, come “una rivoluzione che ha plasmato la vita degli individui molto di più di qualsiasi altra idea precedente, comprese le grandi religioni” (14).
L Non c’è che dire, è così.
Z Tuttavia, se Singer si è detto in difficoltà circa il “quando” della scienza, circa cioè la data della sua nascita, Mendelssohn si dice invece in difficoltà circa il suo “perché”. Ascolta, ad esempio, quanto dice qui: “Ci si è chiesti spesso perché le grandi civiltà dell’Oriente non hanno sviluppato la scienza e la tecnologia. La risposta a questa domanda è stata data una volta da Einstein, il quale fece notare che si tratta di una domanda sbagliata. Il miracolo, egli disse, non era tanto che l’Oriente non fosse riuscito a creare la filosofia sperimentale quanto che l’Occidente lo avesse fatto. Comunque, perché ciò sia accaduto, resta un enigma che non è mai stato risolto: ad essere sinceri, semplicemente non lo sappiamo” (15).
L Viva la faccia della sincerità! Comunque non è facile, come abbiamo visto, rispondere a un interrogativo del genere.
Z Me ne sono ben reso conto!
L Come è possibile d’altronde digerire senza avere alcuna cognizione dei processi e delle leggi che regolano la digestione, così è possibile svolgere un’attività scientifica senza avere alcuna cognizione delle forze e delle leggi che ci consentono di farlo.
Z E come mangiando, per riprendere il tuo esempio, si è attenti piuttosto al cibo che non ai processi dell’alimentazione, così, indagando scientificamente, si è attenti piuttosto all’oggetto che non alle forze interiori che ne consentono appunto l’indagine.
L Sappi comunque, se t’interessa, che Steiner colloca la nascita della scienza tra il 1440, anno in cui viene pubblicato il De docta ignorantia di Nicola Cusano, e il 1543, anno in cui viene invece dato alle stampe il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico (16).
Z Anche per Steiner, dunque, la scienza, nella sua moderna accezione, non è mai esistita prima.
L E non è mai esistita prima perché non sono mai esistiti prima l’intelletto, con la sua coscienza rappresentativa, e la coscienza dell’io. Secondo Steiner, infatti, la nascita della scienza coincide con quella dell’“anima cosciente”: cioè a dire dell’autocoscienza.
Z Anche Mendelssohn sostiene un qualcosa del genere
L Ah sì, interessante!
Z Te lo leggo…ecco qui: “Le idee e i concetti scientifici sono fondamentalmente opera di singoli individui piuttosto che frutto dello sforzo collettivo di molti, e il successo del nostro mondo dipende, ormai, da secoli, dalle realizzazioni di geni isolati”.
L Ha ragione.
Z Senti ancora: “Uomini come quelli la cui vita e le cui opere costituiscono l’argomento di questo libro non sono mai esistiti in Oriente perché l’Oriente non avrebbe dato loro alcun incoraggiamento” (17).
L Oddio, non è che un Galilei, dall’Occidente, sia stato molto incoraggiato! Comunque capisco, battute a parte, in che senso Mendelssohn faccia tale affermazione e mi trovo d’accordo con lui. La forza dell’individualità è infatti quella dell’Io.
Z Penso che per convincersene, basterebbe leggere le due famose pagine dedicate a Leon Battista Alberti dal Burckhardt, nel suo La civiltà del Rinascimento in Italia (18).
L Lo penso anch’io. Ricordo, ad esempio, che proprio Burckhardt dice che “il secolo XV è innanzitutto e per eccellenza il secolo degli uomini dotati di una grande versatilità” (19).
Z Anche in quest’altro libro, si sostiene che “valore dell’individuo e spinta alla creatività sono tutt’uno”…Lo conosci?
L No, di chi è?
Z Di Raffaele Carboni e, guarda caso, s’intitola: Occidente; senti che dice: “La nascita del pensiero scientifico moderno è dovuta al fatto che nella civiltà cristiana la spinta della creatività ha superato la pressione sociale di conformità al dogma, fino al punto d’elaborare ed enunciare una metodologia, quella della verifica sperimentale delle conclusioni raggiunte, come criterio di verità indipendente dalle affermazioni fideistiche; e non è facile capacitarsi di quanta libertà spirituale e quanto sforzo di pensiero ciò abbia richiesto” (20). Comunque non divaghiamo. La forza dell’individualità, hai detto, è quella dell’Io. Bene, e come si manifesta sul piano scientifico?
L Come potere di oggettivazione.
Z E cioè?
L Vedi, l’uomo dei primordi aveva a che fare con gli Dei, non con le cose. Grazie a un’istintiva ispirazione, ne udiva la parola e ne seguiva il dettato; oppure, in virtù di una veggenza altrettanto istintiva, ne aveva delle immagini viventi.
Z Quelle stesse di cui è intessuta la mitologia?
L Esatto. In una fase successiva, che s’inizia all’incirca nell’VIII secolo a.C., e che fiorisce con Socrate e Platone, gli Dei cominciano però a presentarsi in forma diversa.
Z Ossia?
L In forma d’idee o concetti viventi.
Z Vuoi forse dire che laddove una volta si vedeva magari Poseidone si vede invece l’idea o il concetto del mare?
L Certo! Non però un’idea o un concetto come quelli che pensiamo astrattamente o nominalisticamente noi, bensì un’idea o un concetto sperimentati in modo vivo e realistico. Non dimenticare che Socrate e Platone, proprio contemplando la realtà delle idee o dei concetti, sperimentavano l’estasi.
Z E a noi si presentano ancora gli Dei?
L Sicuro che si presentano!
Z E in che forma?
L In forma di percezioni: in forma, cioè, di oggetti esteriori o interiori che, in prima istanza, accogliamo appunto quali dati percettivi.
Z Se non ho capito male, la cosiddetta “caduta degli Dei” è allora una caduta che, dall’ispirazione originaria, attraverso l’immaginazione, conduce infine alla percezione?
L Ovvero, agli Dei in rebus, per quel che riguarda le percezioni sensibili, e agli Dei in animo e in anima, per quel che riguarda invece la percezione dei pensieri, dei sentimenti e degli impulsi della volontà.
Z Animus est quo sapimus, anima qua vivimus?
L Certo.
Z Ed è questa la forza dell’oggettivazione?
L E’ questa! E’ essenziale però rammentare che questa forza è stata finora esercitata solo in rapporto agli Dei in rebus, e che, in sé, altro non è che il necessario complemento di quella della soggettivizzazione.
Z Del costituirsi, cioè, della coscienza di sé?
L Sì, della coscienza dell’Io o dell’autocoscienza.
Z A ben vedere, nel momento in cui l’Io ha coscienza dell’Io, si ha di fatto un’oggettivazione del soggetto da parte del soggetto stesso o, per meglio dire, un’auto-oggettivazione.
L Il vero soggetto, tuttavia, è sempre quello che oggettiva, e mai quello oggettivato.
Z Comunque sia, una dinamica del genere testimonia di un’attività che non è di sicuro più quella dell’antico e passivo soggetto “creaturale”. L’oggettivazione di sé, quale autocoscienza, e quella del mondo, quale coscienza dell’oggetto, si sviluppano dunque di concerto?
L Pensa a Cartesio che, mentre divide da una parte il mondo tra res extensa e res cogitans, dall’altra formula, riflettendo su di sé, il celeberrimo cogito.
Z Devo ammettere che è una coincidenza davvero significativa. Tutta questa vicenda, in quanto riguarda il soggetto, la coscienza e l’autocoscienza, non può comunque non riguardare anche il pensiero.
L Ma certo. La qualità della scienza altro non è, in definitiva, che la qualità del pensiero che l’invera. Se avessi immaginato che avremmo parlato di questo, avrei portato con me Il pensiero italiano del Rinascimento di Giovanni Gentile.
Z Ma guarda che mi pare proprio di averlo!
L Davvero?
Z Penso proprio di sì. Di Gentile non ho molto, ma questo mi sembra di ricordarlo.
L Guarda se lo trovi.
Z Se c’è sta qui, dove tengo i testi di filosofia.
L Allora?
Z Eccolo…che ti avevo detto?
L E che altro hai di Gentile?
Z Ho la Teoria generale dello spirito come atto puro e il Sistema di logica come teoria del conoscere.
L Prendi anche questo, ci servirà.
Z Ecco intanto quello che mi avevi chiesto…leggi pure.
L Diciamo, tanto per cominciare, che è con l’Umanesimo e il Rinascimento che il soggetto, secondo Gentile, prende a risvegliarsi dall’inerzia e dal torpore del pensiero antico e medioevale, a rivendicare la propria autonomia e a sprigionare la propria forza creatrice. Senti appunto cosa dice qui: l’umanista “ha fiducia nel proprio sapere e nell’ingegno, ossia nella personalità” (21); l’umanità così “si scioglie dalle contingenze della vita, in cui l’uomo non può essere immediatamente padrone di sé, vincolato com’è al costume e alla legge, che egli trova già in essere quando deve conformarvisi; vincolato alla realtà della natura, in cui egli nasce e muore per un destino che non è in lui; e in cui vive stretto incessantemente dalla necessità di adattarsi col pensiero e con l’azione a dati di fatto meccanicamente posti a limitare dentro determinate condizioni l’attività dello spirito umano. Se ne scioglie, attratto da una realtà che è tutta una conquista dell’uomo, dottrina sua e frutto di una propria acquisita esperienza; ond’egli si eleva al di sopra dell’uomo comune, e si riscatta da’ i suoi limiti e dalle sue miserie, e afferma quindi la propria indipendenza, che è potere infinito, creatività e cioè libertà” (22).
Z Non a caso, è in questo stesso periodo che si prepara il passaggio dall’antico eliocentrismo e teocentrismo al moderno geocentrismo e antropocentrismo.
L Non sempre si valuta, tuttavia, che, essendosi l’Entità solare del Logos “fatta carne”, essendo ossia discesa in Terra e nell’uomo, il geocentrismo e l’antropocentrismo sono ormai logocentrismo, e quindi eliocentrismo e teocentrismo. Nelle sue lezioni Sulla Divinoumanità, Vladimir Soloviev si è servito appunto per questo del termine “Teandria” (23).
Z Non conosco questo autore.
L Peccato! Se vuoi posso prestarti qualcuno dei suoi libri.
Z Magari!
L Te li porto la prossima volta che ci vediamo…Ma riprendiamo il discorso. Anche Gentile appare convinto che l’Umanesimo sia un periodo di preparazione; ascolta, ad esempio, quel che dice qui: “Ci vorrà tempo perché venga a maturità la coscienza che l’uomo deve avere della propria essenza come essenza del tutto; ma il seme di questo processo che riempie la storia dell’uomo moderno è nell’umanesimo” (24).
Z Come non riconoscere, d’altro canto, che la storia del pensiero moderno s’inizia con il cogito cartesiano, e per ciò stesso con il risveglio dell’autocoscienza.
L Un risveglio i cui prodromi sono già in Petrarca, e che, espandendosi poi, nel Quattro e nel Cinquecento, quale Umanesimo vero e proprio, dall’Italia a tutta l’Europa civile, “deve spiegare – dice ancora Gentile – il Rinascimento, la Riforma e la Controriforma, la filosofia empiristica e razionalistica del Sei e Settecento e lo stato liberale; deve spiegarci l’Illuminismo e il Romanticismo e il secolo decimonono. Spiegarci tutto questo, s’intende, in quanto in tutti questi movimenti dell’età moderna ci sono elementi che provengono dal risveglio umanistico dell’uomo” (25).
Z A me sembra, però, che, con la riscoperta dell’antichità classica, questo risveglio si accompagni a un riemergere di tendenze pagane o paganeggianti. Edgar Wind ha trattato in modo documentato e convincente di questo aspetto, nel suo Misteri pagani nel Rinascimento (26).
L E’ vero. Si tratta di un fenomeno in parte regressivo che Gentile, stranamente, prende poco in considerazione.
Z Perché hai detto: “in parte”?
L Perché parte di quanto viene giudicato “pagano” rappresenta invece un primo e positivo tentativo di ricondurre al Logos i contenuti dell’antica saggezza.
Z Il contrasto tra il neoplatonismo rinascimentale e il Cristianesimo aristotelico e scolastico è comunque evidente.
L Ma il vero contrasto non è tra il Cristianesimo e lo spirito moderno, bensì tra il Cristianesimo filosofico o dottrinario dell’anima razionale o affettiva e il Cristianesimo scientifico dell’anima cosciente. Ritengo, peraltro, che Gentile abbia scritto, su questo problema, le sue pagine migliori.
Z Leggimene qualcuna.
L Per apprezzarne appieno il valore, devi però tener presente che, secondo Steiner, nella logica o nella filosofia è soprattutto attivo il sentire nel pensare, mentre nella scienza è soprattutto attivo il volere nel pensare.
Z D’accordo.
L Allora ascolta: “Il germe di vita proprio del Cristianesimo era stato il concetto dello spirito, come una realtà, che non è oggetto di conoscenza, ma di fede e di amore: dello stesso spirito come realtà che l’uomo non presuppone a se stesso, ma realizza, o fa essere nel proprio animo in quanto l’afferma e vuole. Lo spirito non fu più concepito come intelletto, o spirito che conosce il mondo da cui è condizionato; ma volontà, o spirito che non conosce altro mondo all’infuori di quello che esso crea” (27).
Z Sbaglio, o Gentile chiama “intelletto” quello che Steiner chiama invece “anima razionale o affettiva”?
L Non sbagli affatto! Non dimenticare, del resto, che Gentile, per quanto grande, è pur sempre un “filosofo”, e non, come Steiner, uno “scienziato” dello spirito. Se non ti dispiace, vorrei comunque leggerti qualche altro passo.
Z Non mi dispiace affatto, anzi.
L Senti qui: “L’uomo del medio evo si era travagliato in una contraddizione, che si può dire organica, perché ne dipendeva la vita stessa del pensiero. Una contraddizione, i cui termini, se si vuole considerare il processo generale della storia ne’ i suoi grandi tratti, si possono designare come la filosofia greca e la fede cristiana: due termini, che il pensiero tentò per tutte le vie, lungo più di un millennio, di conciliare; ma erano assolutamente inconciliabili sul terreno in cui si era posto. Poiché, a dirla in breve, la sua dottrina, che avrebbe dovuto operare la conciliazione, era tuttavia la filosofia greca, cioè uno dei due termini stessi antagonisti. La filosofia greca è il pensiero che si vede fuori di sé: e si vede perciò o come natura, nella sua immediatezza sensibile, o come idea, che non è atto del pensiero che pensa, ma cosa in cui il pensiero si affissa, e che presuppone come verità eterna e ragione eterna di tutte le cose e della sua stessa cognizione parallela alla vicenda delle cose; in entrambi i casi, realtà che è in se stessa quella che è, indipendentemente dalla relazione in cui il pensiero entra con essa quando la conosce” (28).
Z Proprio l’impulso che avrebbe dovuto superare l’”intellettualismo” della filosofia greca, ci si è dunque sforzati di comprenderlo “intellettualisticamente”: insomma, è come se ci si fosse sforzati di asciugarsi con un asciugamano bagnato!
L E’ così. Per questo, Steiner afferma che il Cristo si è “fatto carne” nell’epoca che meno di ogni altra era adatta a comprenderlo (29) e che perciò il vero Cristianesimo deve ancora nascere: che deve ancora nascere, cioè, una vera coscienza di ciò che, per l’evoluzione della Terra e dell’uomo, ha rappresentato, rappresenta e sempre più rappresenterà l’incarnazione del Logos.
Z Mi rendo conto che una cosa è il pensiero morto che parla della vita del Logos, altra il pensiero che vive della vita del Logos.
L Goethe, ad esempio, parla poco del Logos, ma il Logos vive nel suo pensiero. Ascolta però quanto dice ancora Gentile: “Dentro questa visione si chiude tutta la filosofia greca, e ogni filosofia che, come quella del medio evo, accetta la logica, e la maniera d’intendere la verità, che è propria di Aristotele: questa logica si può definire la logica della trascendenza; o altrimenti, la logica dell’intellettualismo. Per questa logica infatti la verità, termine dell’intelletto, è trascendente, radicalmente superiore all’intelletto stesso; e questo è ridotto a semplice facoltà passiva, contemplatrice e non autrice” (30).
Z Tanto “passiva, contemplatrice e non autrice”, immagino, quanto il suo soggetto: quanto quell’ego, ossia, che è creatura, e non ancora creatore.
L E che persevera nella sua coscienza di creatura di Dio o, in specie oggi, di creatura della materia perché teme inconsciamente di aprirsi al Logos, e quindi alla verità di se stesso. Pensa che sempre Gentile parla del Logos come dell’”uomo stesso nella sua idealità, quale esso dev’essere concepito” (31).
Z Il Cristo, dunque, come archetipo dell’uomo o come rappresentante dell’umanità?
L Precisamente! Senti comunque, per finire, cosa dice Gentile dell’“intelletto”: “Quasi mente, che importa bensì la presenza delle cose da conoscere, ma non dell’uomo, non dello spirito che le conosce; e che ha appunto questo di proprio e di diverso rispetto alle cose: che essa non è cosa da conoscere, anzi l’attività correlativa, che queste presuppongono nel loro concetto di “cose da conoscere”. Mentre, insomma, per essa c’è il mondo, ed essa, per cui il mondo è, non è” (32).
Z Qui c’è davvero da pensare!
L Ma per farlo bene, così da portarsi davvero al di là dell’impostazione meramente filosofica o speculativa del problema, bisognerebbe avere il coraggio di misurarsi con La filosofia della libertà di Steiner (33). Gentile lo ha fatto, ma purtroppo non l’ha capita.
Z E come mai?
L In parte perché si è limitato a leggerla frettolosamente, per recensirla, ma soprattutto perché il carattere sperimentale e logodinamico dell’approccio scientifico-spirituale di Steiner è ben diverso da quello sistematico e dialettico dell’approccio filosofico di Hegel o dello stesso Gentile.
Z Spiegati meglio.
L Prima, però, se mi dai il Sistema di logica come teoria del conoscere, mi piacerebbe leggerti un passo che, a mio avviso, è tra le cose più belle scritte da Gentile.
Z Eccoti il libro.
L Ascolta: “Fiat voluntas tua, dice la nuova preghiera; poiché comincia a vedersi che questa volontà non è già fatta, non è quella natura che, come presupposto dello spirito, è un factum. Ora la volontà divina deve farsi, e farsi in terra come in cielo; farsi nella volontà umana. Il mondo pertanto non è più quello che c’è, ma quello che ci dev’essere; non quello che troviamo, ma quello che lasceremo: quello che nasce in quanto con l’energia del nostro spirito lo facciamo nascere. Questo nuovo spirito non è più intelletto, ma volere (…) Alla conoscenza intellettualistica contemplativa, che era ad Aristotele la cima più alta dell’ascensione spirituale, sottentra una conoscenza nuova, attiva, operosa, creatrice del suo oggetto, cioè di se medesima nel suo spirituale valore” (34).
Z Davvero molto bello!
L In ogni caso, per cercare di spiegarmi meglio, mi servirò dei concetti di “finito” e “infinito”. Come sai, stando alla logica analitica, e in ossequio sia ai principi aristotelici di “non contraddizione” e del “terzo escluso” sia a quello tardo-scolastico di “identità”, l’infinito è l’infinito, e non dunque il finito, e il finito è il finito, e non dunque l’infinito.
Z E allora?
L Allora arriva Hegel che distingue invece “l’infinito della ragione dall’infinito dell’intelletto”, che non è, a suo parere, che un “infinito reso finito” (35). Un infinito separato dal finito, e a questo opposto, è infatti un infinito che, patendo appunto nel finito un limite, non è più un infinito, ma un finito.
Z Non è che la cosa mi sia molto chiara.
L E allora senti, dato che l’ho annotato, come si esprime lo stesso Hegel: “La finità è solo in quanto è un andar oltre di sé; dunque in essa è contenuta l’infinità, l’altro da sé. Parimenti, l’infinità non è che un andar oltre il finito, dunque contiene sostanzialmente il suo altro, perciò c’è in lei l’altro da sé. Il finito non viene superato dall’infinito come da un ente fuori di lui, bensì la sua infinità consiste nel superare se stesso” (36). Come vedi, Hegel giunge all’infinito della ragione immettendo nella logica quel movimento, quella metamorfosi e quell’enantiodromia delle idee che permettono all’infinito di trasformarsi senza posa nel finito e al finito di trasformarsi senza posa nell’infinito. La dialettica, per lui, è appunto il “proprio superarsi” di date “determinazioni” e “il loro passare nelle loro opposte” (37).
Z E qual è dunque la sua conclusione?
L che “l’idea è la sintesi dell’infinito e del finito” (38).
Z E Steiner cosa dice in proposito?
L Steiner lascia invece il piano astratto della logica e della speculazione, per calarsi in quello dell’esperienza; non a caso, sottotitola La filosofia della Libertà: “Risultati di osservazione animica secondo il metodo delle scienze naturali”. Questo gli consente di scoprire che è il conoscere umano a trasformare incessantemente il carattere finito o individuale della percezione in quello infinito o universale del concetto, e che è il creare umano a trasformare incessantemente il carattere infinito o universale del concetto in quello finito o individuale della percezione.
Z Non sono quindi le determinazioni a “superarsi”, bensì è l’uomo a superarle, muovendosi liberamente fra loro?
L Ma certo. La sintesi è nell’Io, non nell’idea: in quell’Io che è il vero, vivo e segreto artefice della trasformazione, mediata dal sentire, del volere nel pensare e del pensare nel volere. L’uomo è nel divenire e il divenire è nell’uomo; è infatti attraversando la prova dell’umanità che l’Essere si fa Spirito. Mi piacerebbe leggerti, a questo proposito, un pensiero di Steiner che pure ho annotato.
Z Prego, fai pure.
L Dice così: l’uomo “vive come essere compenetrato da Dio in un mondo non compenetrato da Dio. In questo mondo vuoto di Dio, l’uomo porterà ciò che è in lui, ciò che in quest’epoca è divenuta la sua entità. L’umanità, evolvendosi, penetrerà in un’evoluzione universale. Il divino-spirituale da cui l’uomo proviene, come entità umana cosmicamente espandentesi, può pervadere di luce il cosmo che oramai esiste solo nell’immagine del divino-spirituale. Non sarà più la stessa entità che fu una volta come cosmo, quella che sorgerà così per opera dell’umanità. Attraversando il gradino dell’umanità, il divino-spirituale sperimenterà un’esistenza che prima non manifestava” (39).
Z Ti ringrazio, perché mi hai dato veramente da pensare.
L Ti ringrazio anch’io perché non è facile incontrare una persona amante, come te, di queste cose. Ora però ti devo salutare; mi si è fatto tardi.
Z Spero comunque di rivederti presto, e di poter riprendere la nostra conversazione.
L Lo spero anch’io.
Z Allora, ciao.
L Ciao.

Note:

01) C.Singer: Breve storia del pensiero scientifico – Einaudi, Torino 1961, p.16;
02) ibid., pp.18-19;
03) ibid., p.241;
04) F.W.J.Schelling: Filosofia della mitologia – Mursia, Milano 1993, p.8;
05) ibid., p.9;
06) Erodoto: Le storie – Mondadori, Milano 2000, vol.1°, p.263;
07) Plutarco: Dialoghi delfici – Adelphi, Milano 1983, pp.82-83;
08) ibid., p.12;
09) ibid., pp.14-15;
10) Enciclopedia della scienza e della tecnologia – De Agostini, Novara 1994, p.600;
11) R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, pp.192-193;
12) R.Steiner: La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969, p.31;
13) K.Mendelssohn: La scienza e il dominio dell’Occidente – Editori Riuniti, Roma 1981, p.5;
14) ibid., p.7;
15) ibid., p.15;
16) cfr. R.Steiner: Nascita e sviluppo storico della scienza – Antroposofica, Milano 1982;
17) K.Mendelssohn: op. cit., p.16;
18) J.Burckhardt: La civiltà del Rinascimento in Italia – Newton Compton, Roma 1994, pp.119-120;
19) ibid., p.118;
20) R.Carboni: Occidente – Edizioni Associate, Roma 2003, p.133;
21) G.Gentile: Il pensiero italiano del Rinascimento – Sansoni, Firenze 1955, p.5;
22) ibid., p.8;
23) cfr. V.Soloviev: Sulla Divinoumanità – Jaca Book, Milano 1971;
24) G.Gentile: op. cit., p.13;
25) ibid., pp.9-10;
26) cfr. E.Wind: Misteri pagani nel Rinascimento – Adelphi, Milano 1971;
27) G.Gentile: op. cit., p.19;
28) ibid., pp.176-177;
29) R. Steiner: Cristo e il mondo spiritualeLa ricerca del santo Gral – Antroposofica, Milano 1980, p.28;
30) G.Gentile: op.cit., p.178;
31) ibid., p.179;
32) ibid., p.178;
33) cfr. R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966;
34) G.Gentile: Sistema di logica come teoria del conoscere – Sansoni, Firenze 1955, pp.33-34;
35) G.W.F.Hegel: Scienza della logica – Laterza, Bari 1974, vol.1°, p.138;
36) cit. in H.Althaus: Vita di Hegel: gli anni eroici della filosofia – Laterza, Roma-Bari 1993, p.227;
37) ibid., p.251;
38) ibid., p.115;
39) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.87.

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Di Lucio Russo
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