Scrive Fabio Giovannini: “Tutta la cultura di destra ha come avversario dichiarato il materialismo, che è il fondamento teorico della impostazione scientista cui prima si accennava (quella di Marx ed Engels – nda). Il fascismo e il nazismo, dal punto di vista culturale, sono filiazioni della borghesia, e in particolare del rapporto tra borghesia e “passato”. Se il marxismo proiettava il suo materialismo e la sua filosofia della storia verso il futuro (e in questo, talora, mitizzando la tecnica e il “quantitativo”) il fascismo era invece rivolto al passato, ai padri, alla “Tradizione”” (1).
Va osservato, tuttavia, che la cultura di destra vorrebbe avere, sì, “come avversario dichiarato il materialismo”, ma, non riuscendo ad avversarlo prima di tutto in se stessa, non fa allora che battersi contro il materialismo razionalistico partorito dall’intelletto e dai nervi in nome del materialismo irrazionalistico partorito dalla volontà e dal sangue.
Hermann Rauschning, ad esempio, parla del nazismo come di una “biologia mistica” (2) e riporta le seguenti ed emblematiche affermazioni di Hitler: “Dobbiamo diffidare dell’intelletto e della coscienza e avere fiducia negli istinti (…) Veniamo etichettati come nemici dell’intelletto. Sissignore, lo siamo (…) Sono grato al mio destino di avermi risparmiato il privilegio statale dei paraocchi forniti da un’istruzione cosiddetta scientifica” (3).
Fatto sta che, essendo il materialismo, nel bene e nel male, un portato della borghesia (un suo stato, per così dire, “ontologico” o “esistenziale”), sarebbe tempo di riconoscere che tanto il comunismo quanto il fascismo e il nazismo, nella misura in cui si sono rispettivamente e antagonisticamente ancorati alla natura morta dell’intelletto e alla natura viva degli istinti, altro non sono stati e non sono, in ultima analisi, che dei fenomeni borghesi.
Giovannini è sul punto di riconoscere questa verità allorché scrive: “C’è un nodo decisivo che ha accomunato capitalismo e comunismo. E’ la condivisione dello stesso paradigma industrialista e scientista. Ciò, in altre parole, vuol dire che tanto i marxisti quanto i capitalisti hanno avuto come obiettivo lo sviluppo industriale, e che hanno utilizzato sostanzialmente la stessa “lente” per interpretare la realtà, per analizzare i fenomeni sociali e naturali (…) La critica che va rivolta al comunismo industrialista, quindi, è di essere stato troppo simile al capitalismo, di aver rinunciato alla sua radicale alterità. Inoltre un pensiero soprattutto “quantitativo” ha finito per affermare la possibilità di una crescita illimitata (…) Comunismo marxista e capitalismo liberale hanno condiviso questo stesso paradigma che era in qualche misura incompleto” (4).
Il comunismo marxista e il capitalismo liberale hanno utilizzato “la stessa “lente” per interpretare la realtà”? Bene, e cosa si aspetta allora a cambiarla? E a cambiarla con una che mostri di essersi davvero emancipata dalla tirannia del pensiero “quantitativo”?
Nel 1919, Steiner già osservava, ad esempio, che l’operaio “vive da proletario, ma pensa da borghese”, che “l’epoca moderna esige non solo che ci si orienti in una vita nuova, ma anche in un ordine di pensieri nuovi”, e che “Marx e i suoi seguaci”, avendo chiamato “alla lotta gli uomini di una data classe sociale”, ma avendo dato “loro soltanto i pensieri che avevano presi dalle classi che volevano abbattere”, non avrebbero creato, in caso di successo, nulla di nuovo, ma semplicemente posto, alla guida del vecchio, “uomini appartenenti a una classe diversa” da quella che aveva fino allora retto il timone (5).
Ma Giovannini preferisce ignorarlo e appellarsi, con una certa enfasi, a una “sostanza forte” dell’ipotesi comunista, che nessuno – dichiara – può illudersi di liquidare facilmente (6).
Non si avvede, tuttavia, che tale “sostanza forte”, laddove esiste, è una “sostanza” del sentimento (sognante) e della volontà (dormiente) ancor oggi in cerca di un tipo o di una qualità di pensiero capace, assegnandole la forma che le compete, di renderle finalmente giustizia (non de-formandola e tradendola, quindi, come ha finora fatto e continua a fare il marxismo).
Che tale “sostanza” abbia natura spirituale o morale lo conferma lo stesso Giovannini, ricordando che il comunismo “è una presenza teorica e politica che non nasce con Marx” (7).
E’ vero. Marx si è limitato infatti a costringere nella “camicia di forza” del materialismo e dello scientismo la “sostanza” morale che aveva in precedenza ispirato, ad esempio, il socialismo o il comunismo “utopistico” di Platone, Tommaso Moro o Campanella, o quello più moderno di Babeuf, Owen, Saint-Simon o Fourier.
Afferma appunto Giovannini: “Il paradigma scientista viene accolto da Marx proprio nell’atto della fondazione di un nuovo comunismo, già negli anni giovanili (…) Sia Karl Marx che Friedrich Engels si erano convinti della debolezza teorica del semplice utopismo, e avevano preso le mosse (già nel 1845-46, quando scrivono le pagine, che non pubblicarono dell’Ideologia tedesca) da una “scientificizzazione” del rapporto tra l’uomo e la natura, e tra l’uomo e la società” (8); e dopo aver ricordato, a titolo esemplificativo, che nell’Abc del comunismo di Bucharin e Preobrazenskij (1919) è detto a chiare lettere che “il comunismo scientifico spiega tutti i fenomeni naturali secondo i risultati delle scienze naturali, che sono in netta antitesi con le favole religiose” (9), così conclude: “La scienza galileiana e newtoniana era meccanica, e anche la politica è stata compartecipe di questo preciso modo di vedere le cose (ad esempio attraverso il filone kantiano). Si tratta, inutile dirlo, di una scienza che ha avuto il gran merito di emancipare il pensiero umano da dogmi religiosi, da superstizioni antiche, da limiti mistici. Ma accanto a questi vantaggi, con il passare dei secoli, quel paradigma ha mostrato anche l’inadeguatezza a cogliere la complessità del mondo” (10).
Si dovrebbe però dire, volendo essere precisi, non che il paradigma meccanico è inadeguato a cogliere la “complessità del mondo”, bensì che è adeguato a comprendere quanto nel mondo è inorganico, ma non quanto in esso è invece vitale, animico e spirituale, e non quindi la viva sostanza morale del socialismo o del comunismo.
Una cosa, infatti, è superare la “debolezza teorica” del socialismo o del comunismo ”utopistico”, “scientificizzando” il rapporto tra l’uomo e la natura, e tra l’uomo e la società, in modo scientifico-spirituale (come ha fatto Steiner), altra “scientificizzarlo” in modo scientifico-naturale (come ha fatto Marx), alterandone o corrompendone in questo modo la natura originaria.
Al riguardo, Steiner non solo chiarisce infatti che “il vero impulso del socialismo consiste nel fatto che gli uomini (…) davvero arrivino a realizzare, nella struttura sociale esteriore, la fraternità nel senso più ampio della parola” (11), ma arriva anche a precisare che, in un’organizzazione sociale triarticolata, l’ideale “socialista” dovrebbe animare la vita economica, così come l’ideale “democratico” e quello “liberale” dovrebbero animare, rispettivamente, la vita giuridica o politica e quella spirituale o culturale.
Fatto si è che non si attuerà mai alcunché di positivo, e di realmente progressivo, fintantochè non si realizzerà che l’uomo si è conquistato la sua prima libertà (la libertà dalla volontà divina) barattando la verità spirituale (il pensiero divino o cosmico) con la verità sensibile (con il pensiero umano o terrestre), e che, per trasformare la libertà asociale dell’ego nella libertà sociale dell’Io, occorrerebbe perciò riconquistare, muovendo da quella sensibile, la verità spirituale.
Nota infatti Steiner: “Il materialismo non è sorto perché nella natura esterna vi sono da percepire solamente oggetti e processi materiali, ma perché l’uomo, nella sua evoluzione, doveva sperimentare una tappa che lo conducesse dapprima ad una coscienza capace di contemplare soltanto delle manifestazioni materiali. L’elaborazione unilaterale di questo bisogno dell’evoluzione umana produsse la concezione della natura dell’epoca moderna” (12).
Occorrerebbe dunque un’iniziativa individuale tesa a sviluppare una coscienza che, portandosi al di là della dimensione materialisticamente concreta e spiritualisticamente astratta in cui ristagna la cultura borghese (e sulla quale si regge il contrasto tra la teoria e la prassi o, gramscianamente, tra il “pessimismo del pensiero” e l’”ottimismo della volontà”), si conquisti la capacità di “contemplare” non solo le “manifestazioni materiali” o sensibili, ma anche quelle immateriali, extrasensibili o sovrasensibili, sperimentando così la libertà nella verità e la verità nella libertà.
Appunto per questo, Steiner dice: “L’antroposofia è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” (13).
Orbene, Giovannini propone qualcosa del genere?
Macché! Alla forza del cosiddetto “egoismo borghese”, e a quella del materialismo, della scienza e della tecnica a esso asservite, egli propone infatti di opporre un comunismo a un tempo “critico” (14) e “conviviale” (15): cioè a dire, un comunismo – secondo quanto lascia intendere – che dovrebbe in qualche modo venir fuori rimestando, nella pentola della “cultura della complessità” (16), gli ingredienti dell’”ecocristianesimo”, dell’”ecomarxismo” e dell’”ecofemminismo” (17).
In realtà, questa sua convinzione sta solamente a dimostrare che, dopo le tragedie del Novecento, tra coloro che non hanno abbandonato l’idea di rinnovare il mondo borghese, la confusione regna sovrana.
Sempre Giovannini, ad esempio, da un lato denuncia i limiti del paradigma scientista o quantitativo e dall’altro così dice della morte: “Un comunismo rinnovato non potrebbe che tendere verso il recupero, politicamente significativo, della “morte naturale”, al termine di una vecchiaia senza solitudine e senza accanimenti terapeutici sul corpo. Il corpo è ciò che distingue una persona dalle altre persone, ricordava Marx. La morte è la fine del corpo e della distinzione dagli altri. La morte, si potrebbe dire seguendo le scarne indicazioni di Marx nei Manoscritti del ’44, socializza forzatamente” (18).
Ma se si è convinti che “la morte socializza forzatamente”, giacché annienta quel corpo che solo distingue (com’era peraltro convinzione di Averroè) una persona dalle altre, non si può non essere allora convinti che ogni socializzazione, forzata o non forzata, comporta un annientamento dell’individualità.
E dov’è dunque la novità?
Il comunismo “critico” e “conviviale” non è, in verità, che l’ennesima versione di quel secolare contrasto tra l’individuale e il collettivo che, non riuscendo a comporsi mediante un superiore grado di sviluppo dell’autocoscienza o di quell’”individualismo etico” di cui parla Steiner ne La filosofia della libertà (19), si è finora risolto mortificando o annientando il collettivo per mezzo dell’individuale (dell’egoismo) oppure mortificando o annientando l’individuale per mezzo del collettivo (del partito, dello Stato o della Chiesa).
Nel comunismo – dice ancora Giovannini – sono finora “convissute due tendenze: una tendenza rigida, dogmatica, statalista, economicistica; e una tendenza di liberazione, pluralista, umanista” (20).
In termini antroposofici, la prima dunque “arimanica” e la seconda “luciferica”; e dal momento che la storia si è incaricata di dimostrare il fallimento della prima, ecco che i nostalgici puntano allora sulla seconda (ad esempio, sui cosiddetti “girotondini”, “movimentisti” o “no-global” che si crede la rappresentino).
Ci si ostina dunque a ignorare che, per liberarsi dall’algido asservimento all’intelletto o ai nervi della prima tendenza e per evitare che la seconda si risolva in un bruciante asservimento alla natura o al sangue, non bastano delle generiche e buone intenzioni (delle quali sono “lastricate – come si sa – le vie dell’inferno”), ma è necessario realizzare una nuova e superiore esperienza culturale: ovvero, la viva esperienza di un pensiero, di una coscienza e di un Io che non si nutrano più dell’opposizione all’oggetto, all’altro o al non-Io, bensì sappiano ritrovare se stessi al di là di quella soglia che il pensiero rappresentativo, la coscienza sensibile e l’ego temono di attraversare per paura di perdersi (quando viene meno l’opposizione all’oggetto, all’altro o al non-Io, l’ordinaria coscienza si perde infatti nel sogno e nel sonno).
L’io inferiore o l’ego non è insomma che il germe o l’embrione dell’Io superiore o dell’Io etico e sociale. Non s’illuda perciò il popolo sedicente “di sinistra”: è solo da una sana, paziente, umile e amorevole autoeducazione dell’ego (fondata su una vera e profonda conoscenza dell’essere umano), e non da una sua più o meno violenta o “conviviale” costrizione, che può venire alla luce l’Io, e per ciò stesso un “mondo migliore”.
Note:
01) F.Giovannini: Se tornasse il comunismo – Il Minotauro, Milano 1996, p.79;
02) H.Rauschning: Colloqui con Hitler – Tre Editori, Roma 1996, p.224;
03) ibid., p.206;
04) F.Giovannini: op. cit., pp.43-44;
05) R.Steiner: I punti essenziali della questione sociale – Antroposofica, Milano 1980, pp.32 e 194;
06) F.Giovannini: op. cit., p.5;
07) ibid., p.11;
08) ibid., p.19;
09) ibid., p.24;
10) ibid., p.81;
11) R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, p.215;
12) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.73;
13) ibid., p.15;
14) F.Giovannini: op. cit., p.47;
15) ibid., p.94;
16) ibid., p.81;
17) ibid., p.82;
18) ibid., p.66;
19) cfr. R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1969;
20) F.Giovannini: op. cit., p.6.