Sofianismo e goetheanismo

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Nel corso di una conferenza tenuta a Stoccarda nel 1919, Steiner disse: “Quando iniziò la rivoluzione russa apparvero come comete i seguaci di Solov’ev. Auspicavano un rinnovamento della sorda, crepuscolare e paralizzata vita spirituale sulla quale era caduta come una notte animica, una morte spirituale, l’uccisione dell’anima con tutti i suoi nessi (…) Dai primi scintillanti raggi della rivoluzione volevano accendere in Russia un movimento spirituale. Al posto di questo si realizza ora quella che appare in Lenin, questo necroforo di ogni vita spirituale, come una sfrenata distruzione di ogni elemento spirituale, in una condizione nella quale viene negato tutto ciò che si era mostrato all’umanità dell’oriente nella grande figura di Solov’ev” (1).
Ebbene, un bel libro di Nina Berberova sulla vita del poeta russo Aleksandr Blok (1880-1921) ci ricorda oggi che tra quei “seguaci di Solov’ev” che “volevano accendere in Russia un movimento spirituale” c’erano anche gli esponenti del “circolo degli Argonauti” o del “simbolismo”: tra questi, oltre appunto a Blok, Andrej Belyj (Boris Bugaev, 1880-1934) e Vjaceslav Ivanov (1866-1949).
Verso il 1898, – ricorda infatti la Berberova – “Blok scopre la poesia di Vladimir Solov’ev, una poesia sgorgata tutta quanta dall’Eterno femminino (…) I versi di Solov’ev cantavano profetici in lui: Sappiate che qui, disceso sulla terra, / E’ l’eterno femminino dal corpo incorruttibile. Azzurra e dorata, Lei appariva nei versi di entrambi i poeti. E’ solo dopo la morte di Solov’ev, nel luglio 1900, che prende in Blok i tratti di Sofia, della Sapienza eternamente giovane (…) La ragazza, la principessa delle favole, la Sapienza, diventa a poco a poco l’Anima universale, la Donna avvolta nel sole” (2).
E’ importante rilevare, tuttavia, che tanto il “simbolismo” propugnato dagli “argonauti” (non soltanto come una “scuola letteraria”, ma anche come una “disciplina di pensiero e di vita”) (3) quanto l’Eterno femminino (la “Bellissima dama”) da essi cantato sono già presenti nel “Coro mistico” che chiude il Faust di Goethe: “Ciò che trapassa / Non è che un simbolo; / L’irraggiungibile / si compie qua; / Ciò ch’è ineffabile / Qui divien atto; / Femmineo eterno / Qui ci trarrà” (4).
Osserva appunto la Berberova: “Questo verso di Goethe (“Ciò che trapassa / Non è che un simbolo” – nda) è sempre stato per la poesia russa qualcosa di suo, come se fosse nato nel suo seno. Ed esso è servito anche come punto di partenza per le esplorazioni della generazione successiva di simbolisti. Fratello amato, non vedi tu / Che tutto ciò che è a noi visibile / Non è che un riflesso, un’ombra / Di ciò che i nostri occhi non vedono? Domandava Vladimir Solov’ev, il loro maestro. Riconoscere ciò che permane nel mondo perituro, riconoscere l’eterno nel temporaneo, l’occulto in ciò che è visibile, è quel che i simbolisti della generazione più giovane consideravano l’intento essenziale di ogni arte” (5).
Secondo Ivanov, infatti, “l’artista non trasfigura la realtà quando trasforma un fenomeno in immagine e un’immagine in simbolo, imponendo così la propria volontà creativa alla superficie delle cose; egli invece scopre e annuncia l’intento segreto di tutte le essenze mettendo a nudo i simboli contenuti nella realtà stessa. A realibus ad realiora, dalla realtà visibile a una realtà nascosta, ancora più reale…” (6).
Ma che cosa sono “i simboli contenuti nella realtà stessa”? Sono, dal punto di vista della scienza dello spirito, la manifestazione immaginativa (eterica) di quelle “essenze” (entelechie o idee viventi) che possono essere colte, in sé, solo sul piano ispirativo (astrale) e intuitivo (dell’Io).
Chi dice: “A realibus ad realiora” indica pertanto un cammino conoscitivo che vorrebbe condurre (grazie proprio all’Eterno femminino che “trae in alto”) dalla realtà delle cose alla realtà delle idee, e quindi dal livello dell’ordinaria coscienza rappresentativa (vincolata al sistema neurosensoriale), attraverso quelli della coscienza immaginativa e ispirativa, al livello della coscienza intuitiva; o, simbolicamente, dal livello di Eva, attraverso quelli di Michele e dell’Ave (Maria), al livello del Logos.
Si tratta di un cammino che non può però essere percorso né dalla sola anima, in modo poetico o mistico, né dal solo spirito, in modo intellettuale o scientifico. Un’anima “senza spirito” è infatti un’anima luciferica (che ben si presta a essere ingannata esteriormente da Arimane), così come uno spirito “senz’anima” è uno spirito arimanico (che ben si presta a essere sedotto interiormente da Lucifero).
Non è dunque casuale che la pura, grande e luminosa anima di Solov’ev (definito da Blok il “cavaliere monaco”) sia stata prevalentemente platonica, molto attenta ai destini “ecumenici” delle Chiese, affetta, seppure in parte, da una qualche propensione per quella cattolica (7) e che quelle di Blok e di Belyj (che oltretutto conosceva bene Steiner e l’antroposofia) abbiano in un primo momento nutrito speranza nella rivoluzione di quel Lenin in cui Steiner, da subito, ravvisò invece non solo il “carnefice della vita spirituale”, ma anche il portatore dello stesso modo di pensare (o dello stesso livello di coscienza) dello Zar che lo aveva preceduto (8).
Va considerato, d’altro canto, che questo limite “affettivo” dell’anima razionale o affettiva russa (dell’anima del “popolo del Cristo” nella quale “vi è senz’altro un’atmosfera da Gral”) (9) ha fatto da pendant al limite “razionale” dell’anima razionale o affettiva mitteleuropea.
Scrive appunto Steiner: “Schiller ha descritto nelle sue Lettere estetiche un uomo ideale che porta in sé l’universo (…) e che lo realizza nell’unione sociale con altri uomini. Ma da dove proviene questa immagine dell’uomo? Essa splende come sole mattutino sulla terra primaverile. Ma nel sentimento umano essa è stata suscitata dallo studio dell’uomo greco. Gli uomini la nutrirono con energico impulso interiore micheliano, ma poterono sviluppare quell’impulso soltanto immergendo lo sguardo dell’anima nei tempi passati. Infatti Goethe, volendo sperimentare in sé l’”uomo”, sentì i più gravi conflitti con l’anima cosciente. Egli lo cercò nella filosofia di Spinoza; e soltanto durante il suo viaggio in Italia, penetrando nell’essere greco, credette finalmente di presentirlo. Dall’anima cosciente che vive in Spinoza, egli ritorna però alla fine verso l’anima razionale o affettiva che si andava spegnendo. Di questa egli non potè che introdurre moltissimo nell’anima cosciente, con la sua vasta concezione della natura” (10).
Ed è appunto dalla “vasta concezione della natura” di Goethe, e quindi dalle sue “opere scientifiche”, che Steiner ha preso le mosse per elaborare l’antroposofia e per permettere in tal modo alle forze spirituali di Michele di collegarsi con quelle dell’intelletto umano. Durante il Rinascimento, – rammenta infatti – “dovunque erompono le forze di Michele: nell’arte, nella conoscenza, nell’interiorità dell’uomo; dovunque, tranne che nelle forze nascenti dell’anima cosciente” (11): tranne, cioè, che “nelle forze nascenti” della mentalità o del pensiero scientifico.
Ancor oggi, del resto, gli uomini – per dirla sempre con Steiner – riescono “a tenere l’intellettualità soltanto nell’ambito del corpo, e in esso soltanto nei sensi” (12). Il che equivale a dire che gli uomini, non appena abbandonano il corpo (o il cervello) e i sensi, abbandonano l’anima cosciente e regrediscono, in una forma o nell’altra, all’anima razionale o affettiva, se non addirittura all’anima senziente.
Ciò sta dunque a significare che possono darsi due diverse forme d’intellettualità: una in grado (in quanto dono dello Spirito Santo) di elaborare una scienza della realtà sensibile “aperta” al cosiddetto “pluralismo scientifico” (che sarebbe però più corretto definire “pluralismo metodologico”): “aperta”, ossia, alle scienze delle realtà extrasensibili della vita, dell’anima e dello spirito; un’altra capace invece (in quanto soggiogata da Arimane) di elaborare solo una scienza della realtà sensibile “chiusa”, e perciò volta a negare qualsiasi altra scienza non adotti il suo stesso metodo, e non riduca quindi la realtà extrasensibile a quella sensibile.
La prima, in quanto “aperta” e davvero “scientifica”, può accogliere l’impulso di Michele, dimostrando così di poter essere – come dice Steiner – “un’espressione del cuore e dell’anima, altrettanto bene quanto lo è della testa e dello spirito” (13); la seconda, in quanto “chiusa” e per ciò stesso “dogmatica”, rimane invece dominio di una testa e di uno spirito che esprimono unicamente se stessi, mortificando così il cuore e l’anima (“Comprendo la relatività con il cervello, – ha detto appunto Heisenberg – ma non con il cuore”) (14).
Si mettano a confronto, ad esempio, la teoria dei colori di Goethe e quella di Newton. Entrambe spiegano in modo scientifico il fenomeno naturale del colore; ma con la prima, in virtù dei molteplici rapporti che s’instaurano tra la “luce” (collegata al pensare) e la “tenebra” (collegata al volere), è possibile passare dal fenomeno fisico del colore al fenomeno animico del sentimento, e viceversa; mentre, con la seconda, quanto si apprende del fenomeno fisico del colore non illumina affatto il fenomeno animico del sentimento, e viceversa.
Con la teoria di Goethe, insomma, scoprendo che il colore è il sentimento visto dall’esterno (con gli occhi del corpo) e che il sentimento è il colore visto dall’interno (con gli occhi dello spirito), si spiega il mondo spiegando l’uomo e si spiega l’uomo spiegando il mondo; con la teoria di Newton, invece, spiegando il mondo non si spiega l’uomo e spiegando l’uomo non si spiega il mondo.
L’intellettualità “chiusa” – come abbiamo altrove osservato – “taglia dunque il “ponte” che collega il mondo esterno (dell’aldiqua o della natura), monopolizzato arimanicamente dalla scienza, con il mondo interno (dell’aldilà o dell’anima e dello spirito), monopolizzato lucifericamente dalla fede, mentre Michele, alla stessa stregua di un Pontifex, aiuta a edificarlo e difenderlo, permettendo così agli uomini di congiungersi nell’anima col Cristo, e di superare quindi il dualismo tra l’aldiqua e l’aldilà: cioè a dire, tra l’immanenza e la trascendenza, tra l’umano e il divino o, per rimanere nell’uomo, tra la testa e il restante organismo” (15).
Facciamo un altro esempio.
Scrive Jung: “Tutto ciò che oggi va sotto il nome profano di “psicoanalisi” ha la sua origine nella pratica medica, ed è per la massima parte psicologia medica. Il gabinetto di consultazione del medico ha impresso a questa psicologia la sua inconfondibile impronta, e lo si vede non soltanto nella terminologia, ma anche nella formazione dei concetti teorici” (16).
La psicoanalisi e la psicologia analitica sono dunque frutto, non dell’astratta speculazione, bensì della “pratica medica”, e per ciò stesso di una riflessione basata sull’esperienza. Piaccia o meno, tanto Freud che Jung sono stati di fatto gli unici a tentare di trasferire l’indagine dell’anima dal campo della filosofia (o della teologia) a quello della scienza, dal piano del pensiero astratto a quello del pensiero fondato sull’osservazione, e dunque dalla sfera dell’anima razionale o affettiva a quella dell’anima cosciente. Certo, l’esito di questi tentativi è stato finora deludente, se non addirittura negativo; ma ciò è dovuto al fatto che le loro riflessioni non sono state all’altezza delle loro osservazioni e delle loro esperienze. Entrambi si sono dati infatti a indagare il “profondo” senza poter fare alcun assegnamento su un pensiero che, grazie a un previo e opportuno sviluppo, fosse divenuto altrettanto “profondo”.
“La psicoanalisi, – sostiene appunto Steiner – costringendo gli uomini a studiare determinati processi animici senza gli strumenti conoscitivi necessari può conquistare solo dei “quarti di verità”: dei quarti di verità che possono però a volte risultare “più pericolosi degli errori”” (17).
Fatto si è ch’è impossibile edificare dei ponti che permettano di passare dalla scienza della realtà inorganica a quella della realtà organica, dalla scienza della realtà organica a quella della realtà animica, e dalla scienza della realtà animica a quella della realtà spirituale, senza avere delle sicure basi gnoseologiche che consentano di mettere di volta in volta a punto i correlativi “strumenti conoscitivi”: senza cioè sviluppare, muovendo dall’ordinaria coscienza rappresentativa, quei superiori gradi di coscienza detti, dalla scienza dello spirito, “immaginativo”, “ispirativo” e “intuitivo” (18).
Proprio Andrej Belyj ha scritto: “Anthroposophy is the union of Sophia with man’s whole being: Sophia becomes love, faith, and hope. Equating the divine wisdom, Sophia, with the intellectual wisdom of the head, has falsified the idea of Sophia. In abstract consciousness, Sophia has been transformed into sophisticism, into the metodology of rational logic (…) The fluid element of thought has dried up and, out of it, have crystallized the methods of rational knowledge (…) In the Sophists, we have, for the first time, an interest in the tecniques of logical argument. For this reason, thinking for them has a concrete character: the head of man is separated from the rest of him” (19). (“L’antroposofia è l’unione della Sophia con tutto l’essere umano: la Sophia diviene amore, fede, e speranza. L’equiparazione della sapienza divina alla sapienza intellettuale della testa, ha falsato l’idea della Sophia. Nella coscienza astratta, la Sophia è stata trasformata nella sofistica, nella metodologia della logica razionale (…) Il fluido elemento del pensiero si è prosciugato e, da questo, si sono cristallizzati i metodi della conoscenza razionale (…) Nei Sofisti abbiamo, per la prima volta, un interesse alle tecniche dell’argomentare logico. Per questa ragione, il pensiero ha per loro un carattere concreto: la testa dell’uomo è separata dal suo restante organismo”).
In effetti, è solo nella superiore sintesi della scienza dello spirito che possono incontrarsi, coniugarsi e rinnovarsi il goetheanismo mitteleuropeo e il sofianismo russo e realizzarsi le aspirazioni di Solov’ev a una “conoscenza integrale” e a una “nuova coscienza cristiana”. Quanto non si è ancora realizzato sul piano storico e collettivo, può sempre infatti realizzarsi nella vita e nell’anima di ogni individuo: a patto, naturalmente, che senta “certi problemi sull’essere dell’uomo e del mondo come una necessità vitale, come si sente fame e sete” (20).

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Note:

01) R.Steiner: Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici – Antroposofica, Milano 1974, pp. 232;
02) N.Berberova: Un figlio degli anni terribili. Vita di Aleksandr Blok – Guanda, Parma 2004, pp.28 e 30;
03) ibid., p.37;
04) W.Goethe – Faust (traduzione di Barbara Allason) – Einaudi, Torino 1967, p.337;
05) N.Berberova: op. cit., p.42;
06) ibid., p.61;
07) cfr. S.O.Prokofieff: Le sorgenti spirituali dell’Europa orientale e i futuri misteri del Santo Gral – il Capitello del Sole, Bologna 2001, p.205;
08) R.Steiner: Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici, pp. 232 e 233;
09) R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, pp.204 e 208;
10) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, pp. 134-135;
11) ibid., p.133;
12) ibid., p.136;
13) ibid., p.102;
14) W.Heisenberg: Fisica e oltre – Boringhieri, Torino 2000, pp.38-39;
15) L’aldilà e l’aldiqua, 3 maggio 2004;
16) C.G.Jung: Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna – Einaudi, Torino 1969, p.5;
17) L.Russo: Freud, Jung, Steiner, 15 novembre 2003;
18) cfr. R.Steiner: I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977;
19) A.Belyj: Anthroposophy and Russia – St. George Publications, Spring Valley, New York, 1983, pp.22 e 23;
20) R.Steiner: Massime antroposofiche, p.15.

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Di Francesco Giorgi
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