Al lettore.
benché non rivesta un carattere di studio e di approfondimento, quale quello che ci siamo riproposti di dare alle note del nostro sito, volentieri pubblichiamo il seguente articolo inviatoci da Fabio Alessandri (vedi “corrispondenza” con l’autore, 16 ottobre 2004).
Nell’ambito delle discussioni sulla riforma della scuola si sente spesso dire che “la scuola pubblica non si tocca”. Ci si può domandare per quale motivo non toccare un’istituzione all’interno della quale si riscontra una tale quantità di problemi irrisolti, da impedire ai più volonterosi di lavorare serenamente per lo sviluppo e l’educazione dell’infanzia. Tuttavia a un osservatore spregiudicato apparirà chiaro che nonostante i suoi problemi la scuola pubblica garantisce – o almeno dovrebbe garantire – diverse cose che la fanno apparire comunque desiderabile. Vediamo quali.
In primo luogo la scuola pubblica garantisce un’educazione laica a tutti. La garanzia però risulta quanto mai discutibile, se si considerano le effettive competenze del corpo insegnante relative ai problemi educativi di fronte ai quali sono posti. Volendo essere onesti si dovrebbe ammettere di avere in Italia una classe insegnante (e pensiamo in particolare all’insegnamento elementare) del tutto impreparata a educare i bambini nati nell’epoca della globalizzazione.
Questo è dovuto al fatto che in Italia, nella seconda metà del Novecento, chi ha voluto prendere un titolo di studio senza grande fatica per trovare un impiego che garantisse orari di lavoro ridotti, ferie lunghe e stipendio minimo si è preparato per conseguire il diploma magistrale ed entrare nella scuola elementare. La scuola pubblica italiana in effetti, ancora prima di garantire un’educazione laica a tutti, ha garantito un posto di lavoro “vantaggioso” (non certo per il Paese) a molti che non avevano speciali talenti da mettere a frutto. E questo a dispetto di tutti gli artisti e gli intellettuali che a partire dall’inizio del secolo scorso, per un loro impulso ideale, hanno lavorato per l’alfabetizzazione dei meno abbienti, inventandosi di volta in volta di andare a far lezione ai contadini, di costruire scuole per i figli degli operai, di allestire biblioteche in fabbrica o di fondare asili insieme ai genitori per dare ai bambini nel secondo dopoguerra degli ambienti familiari accoglienti in cui poter crescere a contatto con valori umani significativi. Non vogliamo con ciò negare che ci siano anche molti insegnanti preparati che si danno un gran daffare per risollevare le sorti della scuola italiana, sarebbe miope; ma complessivamente sono una minoranza. Il livello generale di preparazione è purtroppo ancora troppo basso per lasciar intravedere qualche cambiamento significativo nella qualità della proposta educativa in Italia.
Per finire dobbiamo anche considerare un altro aspetto della questione: la scuola, a prescindere dalla qualità delle sue proposte, libera per molte ore i genitori dalla presenza dei figli.
I motivi dunque che spingono ad affermare “la scuola pubblica non si tocca” possono essere diversi: non si tocca perché garantisce l’educazione a tutti i bambini senza distinzione di classe, di razza, di religione (e quanto si vuole ancora elencare in questo senso); perché consente ai genitori di collocare i loro figli per gran parte della giornata in un luogo protetto (ma protetto da cosa?) per occuparsi del loro lavoro; o ancora perché garantisce un’occupazione a migliaia di persone che altrimenti non saprebbero cosa fare? Qui di seguito vogliamo considerare solo la motivazione che ci appare più sensata, quella cioè che difende la scuola perché offre – o dovrebbe offrire – un’educazione a tutti i bambini, a prescindere dalle possibilità economiche delle famiglie. Ha senso volere la scuola pubblica a partire da una simile motivazione?
Immaginiamo che ci sia una scuola, nella quale l’ambiente, gli insegnanti e le attività proposte corrispondano a quanto la famiglia Tal dei Tali si è sempre augurata di trovare per i propri figli. Immaginiamo anche che i signori Tal dei Tali abbiano un reddito molto contenuto e che abbiano diverse spese da pagare ogni mese. È chiaro che la questione in un caso simile sarebbe prima di tutto di ordine economico. Se la scuola che vorrebbero far frequentare ai loro figli non fosse pubblica (cioè gratuita), i signori Tal dei Tali, facendo già a fatica ad arrivare alla fine del mese, dovrebbero a malincuore rinunciare alla loro idea e mandare la prole in una scuola che non costa loro nulla, oppure inventarsi il modo per far saltar fuori i soldi che mancano loro. È evidente che se la scuola non avesse filtri economici i bambini Tal dei Tali potrebbero frequentarla, indipendentemente dalle condizioni economiche dei loro genitori, così che i problemi di fronte ai quali la loro famiglia si vedrebbe posta sarebbero solo di natura pedagogica ed eventualmente giuridica.
Tenendo presente quanto abbiamo brevemente accennato riguardo alla mancanza di preparazione degli insegnanti italiani, dobbiamo concludere che di fatto l’unica garanzia che la scuola pubblica è in grado di dare realmente è di dare una qualsiasi educazione a tutti, a prescindere dal reddito tenendo i bambini lontani da casa per un certo numero di ore. Non è in grado invece – o se preferite non è stata finora in grado – di garantire un’adeguata preparazione degli insegnanti, questione dalla quale dipende in sostanza il futuro del nostro paese. Ci troviamo così paradossalmente ad avere una scuola che non costa nulla alle famiglie, ma costa moltissimo alla comunità, perché – questo succede di fatto quando non si ha un corpo insegnante preparato – invece di valorizzare i talenti dei bambini, da cui dipende tutto il nostro futuro, spesso li mortifica, preoccupandosi di fare dell’individuo un cittadino bene inserito nel sistema sociale vigente (sistema che – detto per inciso – con le sue problematiche irrisolte e le sue patenti contraddizioni sta compromettendo seriamente l’intero pianeta).
Qualcuno potrà obiettare che ora la formazione degli insegnanti è passata alle università e che da qualche anno la legge non permette più a persone poco preparate di entrare nelle aule scolastiche. Questo lascerebbe sperare in un futuro migliore per la scuola italiana, che potrebbe finalmente coniugare il principio del diritto allo studio (cioè la gratuità dell’educazione di base) con quello del diritto alla qualità (cioè un’adeguata preparazione degli insegnanti). Se si disponesse di insegnanti qualificati, allora sarebbe pienamente giustificata la richiesta di non toccare la scuola pubblica.
La questione in realtà va considerata meglio. Si tratta di domandarsi da un lato quali sono i percorsi lungo i quali l’individuo può maturare le competenze di cui ha bisogno per essere un buon insegnante; dall’altro da dove dovrebbero venire i soldi con i quali sostenere la scuola. Il problema da cui siamo partiti era un problema di diritto (diritto all’educazione e all’insegnamento); dobbiamo poi considerare separatamente la questione economica e quella culturale senza confonderle tra loro. Il discorso va cioè affrontato sotto un triplice punto di vista: economico, giuridico e culturale. Vediamo come.
Attualmente lo Stato amministra il denaro (ottenuto attraverso i prelievi fiscali) grazie a cui viene garantita a tutti l’educazione di base, e amministra anche indirettamente la formazione degli insegnanti, imponendo agli aspiranti docenti quali titoli di studio debbano conseguire per poter insegnare. L’esperienza e il buon senso tuttavia suggeriscono che ci possono essere eccellenti insegnanti che non hanno il diploma di scuola media superiore e insegnanti plurilaureati che non hanno alcuna vocazione per il loro mestiere. Anche solo ad una prima osservazione, il principio secondo cui lo Stato – o qualsiasi altra istituzione – decide cosa deve fare una persona per diventare insegnante si rivela del tutto inadeguato. Riguardo a ciò sarebbe molto più sensato invece che da un lato si offrissero alla persona interessata all’insegnamento diverse opportunità formative, con la richiesta di strutturare in piena autonomia il proprio percorso di studi, dall’altro che l’organismo educativo nel quale una persona chiede di insegnare si preoccupasse di valutare le effettive competenze del candidato, assumendosi in pieno la responsabilità delle proprie scelte di personale. In questo modo si ricondurrebbe la questione alla concretezza della vita. Se si vuole una vita culturale libera, non assoggettata a logiche politiche od economiche, è necessario che la formazione degli insegnanti non avvenga secondo delle prescrizioni, ma nello sforzo di fare incontrare chi ha esperienza in un determinato campo e chi si vuol formare in quello stesso campo per mettere i propri talenti al servizio della comunità. In altri termini si tratta di riscoprire la pratica dell’apprendistato come modalità principale di formazione professionale. Procedendo in questa direzione le agenzie formative si trasformeranno in associazioni di categoria, all’interno delle quali, grazie all’aiuto e al consiglio di persone esperte, gli interessati potranno individuare le competenze ancora da sviluppare e le opportunità formative adeguate al proprio percorso. Si ovvierà così all’inconveniente dato dalle attuali agenzie di formazione accreditate, nelle quali i docenti non solo stabiliscono in modo astratto cosa i futuri insegnanti “devono” saper fare, ma il più delle volte loro stessi non si sono mai trovati di fronte ad una classe con una responsabilità educativa, e pretendono di parlare di cose che non conoscono.
Proseguendo il nostro ragionamento si vede come resti ancora da risolvere il terzo problema a cui abbiamo accennato, vale a dire quello economico. Se cioè avessimo insegnanti capaci e genitori motivati, mancherebbe ancora la possibilità di aprire una scuola nuova, nella quale le competenze dei maestri possano incontrarsi con i talenti degli alunni. Se infatti non si deve trattare di una scuola elitaria per i figli dei ricchi, chi deve sostenerla economicamente? La scuola che stiamo immaginando non dovrebbe seguire alcun programma predefinito, ma in essa gli insegnanti dovrebbero portare in classe quello che ritengono giusto per lo sviluppo dei loro allievi, sulla base della loro esperienza e delle loro capacità. Si può chiedere allo Stato di pagare delle scuole del tutto autonome sulle quali non potrebbe esercitare alcun controllo? Le molte proteste sollevate negli ultimi tempi riguardo alla proposta di finanziamento pubblico delle scuole private sono del tutto legittime. Chi vuole avviare scuole non soggette al controllo dello Stato non può ricevere da quest’ultimo finanziamenti. Ma la questione va posta in altri termini.
Lo Stato preleva denaro dai contribuenti, per poi finanziare i vari servizi pubblici, tra cui la scuola. Se è chiaro che ogni bambino ha diritto all’educazione, deve essere altrettanto chiaro che ogni famiglia dovrebbe avere il diritto di scegliere quale scuola vuole sostenere. Se cioè in campo pedagogico potesse vigere il principio della libera concorrenza, le famiglie, invece di pagare le tasse allo Stato perché organizzi una scuola uguale per tutti, potrebbero scegliere direttamente a quale scuola dare i soldi, e non solo per l’educazione dei propri figli, ma in generale per promuovere la libera cultura su cui si fonda il progresso della civiltà. Compito dello Stato allora sarebbe solo di vigilare perché non sorgano scuole che violino i principi della Costituzione, lasciando poi massima libertà all’iniziativa di chi vuole portare un contributo pedagogico alla comunità. In questo caso rimarrebbe comunque aperto il problema economico, perché non si può certo pensare che i soli contributi economici delle famiglie possano consentire ad una scuola di funzionare. Per risolvere quest’ultima questione bisogna considerare il ruolo che dovrebbe avere in tutto ciò il mondo dell’economia.
Negli ultimi due/tre secoli è stato ripetutamente detto che lo sviluppo dell’economia dipende essenzialmente dall’interesse per il profitto. L’esperienza ci mostra oggi che la prospettiva del profitto, pur avendo dato una straordinaria spinta all’economia mondiale, ha provocato allo stesso tempo la maggior parte dei problemi con i quali stiamo combattendo. Di fronte al generale sfacelo a cui assistiamo oggi in tutti i campi si fa sempre più forte la convinzione che solo una maggiore attenzione per l’Uomo e per il Mondo possa salvarci da sicura catastrofe. Questo equivale a riconoscere che la logica del profitto deve essere sostituita dalla logica dell’Uomo. In altri termini continuare a lavorare per il guadagno non può che dimostrarsi controproducente a livello planetario. Bisogna riportare al centro della nostra attenzione l’Uomo.
Per uscire dalla drammatica situazione in cui ci troviamo si è cominciato a ragionare su come dare vita ad un’economia solidale, capace di rispondere ai reali bisogni umani, e le esperienze avviate in questa direzione sono ormai moltissime in tutte le parti del mondo. Ma ancora non si è arrivati a vedere il rapporto che potrebbe intercorrere tra la vita economica e la vita culturale e le straordinarie prospettive di sviluppo sociale che deriverebbero da una loro armonica cooperazione. Se infatti l’uomo ha bisogno di un’economia solidale, ha altrettanto bisogno di una vita culturale libera, del tutto indipendente dallo Stato. Solo comprendendo come Stato, Economia e Cultura debbano operare in autonomia interagendo tra loro armonicamente si potranno finalmente concepire forme del vivere sociale capaci di realizzare gli ideali di uguaglianza, fraternità e libertà che chiedono da ormai più di due secoli di trovare espressione. Quando, oltre che lavorare per un’economia solidale, si sarà capito in cosa possa consistere l’armonica cooperazione tra economia e cultura (con particolare riferimento all’educazione), allora un’economia forte e fraterna, capace di generare profitto, potrà investire parte del capitale in una scuola libera e per tutti (tutti quella che la vogliono). In concreto potrà darsi il caso che insegnanti capaci si colleghino con imprenditori illuminati, che abbiano capito come lo Stato debba lasciare alla vita economica il compito di sostenere la vita culturale, e insieme diano vita a una scuola libera e a misura d’uomo, in cui valgano le competenze anziché i titoli di studio. Così la libera concorrenza potrebbe finalmente trovare la sua giusta espressione nell’ambito della sfera culturale, anziché generare patologie sociali continuando a svilupparsi nella sfera economica, sfera nella quale non deve vigere il principio di libertà, ma quello di fraternità.