I paradossi di Zenone

I

Il filosofo Zenone, vissuto nel V secolo a.C. ad Elea, situata in quella che un tempo fu la Lucania, è noto ai più grazie ad una serie di argomenti che hanno assunto tradizionalmente il nome di paradossi di Zenone. A noi interessa focalizzare l’attenzione su tre fra questi che, avendo come tema il movimento, costituiscono uno spunto per affrontare la questione della continuità, dal momento che il movimento e la continuità sono strettamente legati nella loro essenza (1).
I tre paradossi cui si allude sono noti come il paradosso della dicotomia, di Achille e della freccia. Li riportiamo con le parole di Aristotele: “Il primo è quello sull’impossibilità del movimento in quanto ciò che si muove deve raggiungere la metà prima del termine”. Siamo davanti alla cosiddetta dicotomia, ovvero a un’applicazione del principio geometrico secondo cui su una retta, tra due punti A e B di essa, si concepisce un unico punto medio M. Di conseguenza, iterando l’applicazione del principio, tra A e M si dovrà concepire un nuovo punto medio M’, e così via all’infinito, senza che nessun passaggio delle successive iterazioni possa essere mai l’ultimo.
“Il secondo argomento è quello chiamato di «Achille». Consiste in questo: che il più lento non sarà mai raggiunto nella corsa dal più veloce; questo perché è necessario che l’inseguitore, prima raggiunga il punto dal quale colui che è inseguito è partito; sicché il più lento necessariamente avrà un qualche vantaggio sull’inseguitore.” La tradizione parla di una sfida lanciata da una tartaruga ad Achille: qualora l’eroe acheo avesse dato un vantaggio qualsiasi all’animale, quest’ultimo, anche se molto più lento, non sarebbe mai stato raggiunto. Lo stesso principio geometrico (2) che sta alla base della dicotomia governa anche questo paradosso con la differenza che, nel primo caso la meta (il punto B) resta immobile, nel secondo si muove.
“Il terzo afferma che la freccia scagliata è immobile” (3). In questo caso l’argomento vorrebbe mostrare che il movimento stesso è impossibile: data l’infinita divisibilità del tragitto che sta per compiere una freccia scagliata, il punto più prossimo ad essa non può mai essere individuato e, per ciò stesso, nemmeno raggiunto. La freccia resta così immobile.
Ciascuno di questi tre argomenti ha come fulcro ideale il tentativo di concepire razionalmente la continuità che si nasconde nel fenomeno del movimento, ma che, per l’intelletto, è impossibile da cogliere. Innumerevoli tentativi di sciogliere tali paradossi si sono susseguiti nella storia della filosofia e, negli ultimi tre secoli, in quella della matematica. Tali tentativi sono culminati nell’idea matematica che va sotto il nome di serie numerica convergente. Quest’idea consiste nello svolgere un procedimento matematico che permette di calcolare la somma di un numero infinito di addendi e di ottenere come risultato un numero finito. Ad esempio, è possibile scrivere con n che tende all’infinito (4). Tale possibilità risulta, in realtà, tutt’altro che soddisfacente al fine di risolvere i paradossi, sia da un punto di vista epistemologico, sia dallo stesso punto di vista matematico.
Si immagina di risolvere il paradosso applicando ad esso questo procedimento matematico: nel caso della dicotomia, ad esempio, secondo la quale, per andare da A a B, prima di raggiungere B, io sono costretto a raggiungere il punto medio M e, prima di raggiungere il punto M, il punto medio M’ tra A e M, e così di seguito ad infinitum, è possibile sommare tutti questi passaggi (infiniti) e ottenere una somma (finita) che coincide con il tragitto che porta da A a B; ciò permette di affermare che, nonostante abbia smembrato il movimento tra A e B in un numero infinito di piccole distanze, sono riuscito a ricostituirlo con un procedimento matematico.
Accontentandosi di questa spiegazione, però, si tralascia il fatto significativo che la somma di cui si parla non coincide con l’ordinaria somma cui siamo abituati. La certezza con cui siamo in grado di effettuare la somma 2+2 e la sicurezza con cui diamo il risultato 4, non sono le stesse con cui procediamo nel caso in questione. In realtà, la somma di infiniti addendi è un processo che non si conclude mai e che viene solo simboleggiato dal numero finito che si definisce somma della serie.
A questo proposito dice Hegel “La serie infinita contiene infatti la cattiva infinità, perché quello che la serie deve esprimere rimane un dover essere, e ciò ch’essa esprime è affetto da un al di là che non sparisce ed è diverso da quello che dev’essere espresso. La serie è infinita non già a cagione dei membri o termini che son posti, ma per ciò ch’essi sono incompleti, per ciò che l’altro, che essenzialmente loro appartiene, sta al di là di essi. (…) All’incontro quello che vien chiamato l’espressione finita o la somma di una tal serie è senza difetto; esso contiene completo quel valore che la serie non fa che cercare” (5).
Abbiamo quindi, nei due casi, due processi affatto diversi: la somma ordinaria è un procedimento finito e concluso; la somma di una serie è invece un procedimento che non si può concludere o, meglio ancora, del quale non riusciamo ad afferrare un termine conclusivo, consistendo questo in un continuo “cercare”; il suo risultato finito non fa altro che simboleggiare il processo di ricerca e richiamarlo ogni volta senza che la somma possa concretamente realizzarsi. Allo stesso modo, tornando ai paradossi, non possiamo concepire un termine conclusivo per la suddivisione del percorso che conduce da A a B, o per il quale Achille finalmente raggiunga la tartaruga.
Questa non è una sottigliezza, ma una differenza sostanziale che ci porta a focalizzare il nucleo della questione: il processo, o movimento, che il pensiero attua nei due casi. Nel primo l’attività del pensiero è finita e ben determinata (caratterizzata quindi da un certo tipo di movimento), nel secondo invece è in continuo procedere (caratterizzata quindi da un altro tipo di movimento). La somma di una serie non fa altro dunque che spezzare la continuità in elementi discreti che, non potendo poi essere uniti per ricostituire la continuità perduta, vengono inseriti in un processo che è, per sua stessa natura, continuo. In poche parole, dopo aver rotto la continuità del fenomeno, ci si riaccosta ad essa, in maniera non cosciente, sul piano del movimento del pensiero, continuando a cercare il risultato di quella somma senza però raggiungerlo mai. Se, quindi, sommare una serie vuol dire cercare un risultato che non può di fatto realizzarsi, ciò implica allora che, applicando il medesimo principio matematico ai paradossi di Zenone, la continuità che si cerca in essi non viene di fatto mai afferrata.
Dal punto di vista matematico, possiamo inoltre porre la seguente obiezione alla supposta risoluzione dei paradossi: come esistono serie convergenti (somme infinite di addendi il cui risultato è un numero finito), così esistono serie divergenti (somme infinite di addendi il cui risultato tende all’infinito). Nel primo dei paradossi di cui ci siamo occupati, l’applicazione del principio matematico delle serie numeriche consiste nel sommare i segmenti che si ottengono dall’iterazione del principio geometrico del punto medio; in questo modo si definisce la seguente serie numerica convergente: . Supponiamo ora di esporre lo stesso argomento come segue: partendo da A, per raggiungere B, è prima necessario raggiungere il punto medio M; prima di raggiungere M, bisogna passare però per il punto D situato ora, non più alla metà, ma ad un terzo della distanza AB e, prima ancora, per il punto E che si trova ad un quarto della distanza AB, e così via. In questo modo avremmo avuto la serie seguente: 1/2+1/3+1/4+1/5+…+1/n. Tale somma, per n che diventa infinitamente grande, diverge (6), cioè non assume un valore finito. Non soddisfa quindi una spiegazione che, modificato leggermente l’argomento, ma lasciata inalterata la sostanza del procedimento matematico applicato, è incapace di risolvere il paradosso (7).
Come si possono dunque superare i paradossi di Zenone? Nell’affrontarli, ci troviamo di fronte all’inconciliabilità tra il movimento come fatto indubitabile (partendo da A sicuramente raggiungerò B, Achille sicuramente raggiungerà e supererà la tartaruga, la freccia scagliata sicuramente si muoverà e raggiungerà il suo bersaglio) e l’attività del nostro intelletto che ne divide e spezza la continuità.
Dove dunque risiede la continuità che può, da un lato, essere intuita ma, dall’altro, non può essere analizzata? E cosa accade alla continuità nel momento in cui viene ridotta ad una realtà discreta fatta di addendi che non possono essere sommati per ricostituirla, ma che la “cercano” in un processo di somma che non ha termine? Per rispondere a queste domande, introduciamo due ulteriori concetti che intervengono direttamente all’interno dell’analisi del movimento: quelli di tempo e spazio. Nei paradossi di Zenone, il problema fondamentale consiste infatti nel non poter concepire di percorrere una serie infinita di distanze (spazi), progressivamente più piccole, in un tempo finito. Non vogliamo dare un resoconto storico-filosofico dei concetti di tempo e di spazio ma semplicemente caratterizzarne gli aspetti che possono chiarire dove si celi la forza dei paradossi di Zenone e, più in generale, donde provenga la difficoltà che abbiamo nel comprendere la realtà del movimento.
Umberto Bartocci, professore ordinario di Geometria all’università di Perugia e noto epistemologo, ha pubblicato, sull’ultimo numero della rivista Episteme, un breve saggio dal titolo: I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo nel quale sottolinea l’importanza di “analizzare in che misura gli argomenti di Zenone d’Elea siano, oggi al pari di ieri, una sorta di punto di passaggio obbligato verso una comprensione dell’umana concezione dello spazio e del tempo” (8).
Addentrandoci quindi nel tentativo di risolvere i paradossi di Zenone ci troviamo di fronte, da un lato, il discreto e il continuo e, dall’altro, lo spazio e il tempo. Scrive ancora a questo proposito Bartocci: “(…) spazio e tempo, “forme pure” dell’intelletto secondo l’analisi critica kantiana, sono appunto due, e non una, apparentate alle intuizioni non solo diverse ma addirittura “contrapposte” (…), che si dicono comunemente del continuo e del discreto”. In accordo con quanto sostiene Bartocci, è importante sottolineare la netta distinzione tra lo spazio e il tempo in contrapposizione a quanto fa la moderna teoria della Relatività Speciale che fonde queste due realtà in uno spazio-tempo unico, dove il tempo assume la forma di una quarta dimensione qualitativamente spaziale anziché di una realtà qualitativamente temporale (9).
Ma in che modo sono “apparentate” le realtà del tempo e dello spazio con quelle del discreto e del continuo? La risposta di Bartocci è la seguente: “ (…) l’intelletto umano non può concepire l’infinita suddivisibilità di un segmento temporale (…), con la conseguenza che una somma infinita di siffatti segmenti non può essere per esso altro che divergente. Un segmento temporale consiste invero di elementi indivisibili, che vengono denominati istanti, simili ai “punti” di un segmento spaziale, ma a differenza dei secondi, i primi appaiono costituiti solamente da un numero finito di istanti. Ciò costringe ad ammettere l’esistenza di un segmento “minimo”, formato da due soli istanti, uno e il suo “successivo”. Così, la somma di infiniti segmenti, che coinvolge necessiter infiniti istanti, non può essere mai un segmento”. In sostanza, secondo Bartocci, la realtà dello spazio è continua poiché costituita da un numero infinito di punti, mentre quella del tempo è discreta poiché costituita da un numero finito di punti chiamati istanti. Qui ci permettiamo di dissentire. Caratterizzare qualitativamente lo spazio come continuo proviene tradizionalmente dal concepire una distanza come costituita da infiniti punti e caratterizzata dalla cosiddetta potenza del continuo (10). In realtà, passare dalla continuità di una distanza (astrattamente rappresentabile come un segmento di retta) ad un insieme di punti seppure infiniti, coincide esattamente con il procedimento attraverso il quale rompiamo la continuità del movimento e la riduciamo ad un insieme discreto di elementi che non ricompongono l’unità originaria. La caratteristica della continuità di un segmento di retta non dipende dal fatto che questa sia costituita da infiniti punti, ma proprio dal fatto che non sia scomponibile in tali punti. Nello stesso modo, a livello organico, non si può concepire la forma unitaria di un organismo come la somma delle sue parti.
Questo ci dimostra che l’unica relazione che noi abbiamo con lo spazio consiste nel concepirlo come costituito da elementi singolari tra di loro relazionabili solo in termini di quantità misurabili. È discreto il modo in cui noi ci rapportiamo allo spazio o, più precisamente, il nostro modo di pensare lo spazio.
Scrive Massimo Scaligero “In ogni punto in cui considera trovarsi, egli [l’uomo] si trova soltanto secondo la corporeità che esclude ogni identità, stando tra gli oggetti come oggetto, ad essi opposta: stando con essi in una relazione spaziale che egli semplicemente immagina” (11). Questa relazione che “egli semplicemente immagina” è proprio quella relazione qualitativamente discreta che pone un oggetto accanto ad un altro e li divide con una certa distanza.
Se dunque è il modo in cui l’uomo pensa lo spazio ad essere discreto, la continuità deve essere una qualità del tempo. Perché allora, come giustamente fa notare Bartocci, non possiamo fare a meno, pensando il tempo, di ridurlo ad un insieme di istanti singolari, discreti e giustapposti l’uno accanto all’altro? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare riferimento alle parole di Rudolf Steiner: “Prima di inoltrarsi sul sentiero della conoscenza superiore, l’uomo conosce soltanto il primo di quattro gradi di coscienza, quello cioè che gli è proprio nella vita ordinaria entro il mondo dei sensi. Anche quella che di solito viene chiamata scienza si muove su questo primo grado di conoscenza, poiché questa scienza non fa che elaborare in modo più fine il conoscere ordinario, e renderlo più disciplinato. (…) Anche nell’applicare il pensiero alle cose e ai fatti questa scienza rimane ferma a ciò che già si svolge nella vita quotidiana. Si ordinano gli oggetti, si descrivono e si confrontano, si cerca di farsi un’idea delle loro modificazioni, ecc. In fondo, il più rigoroso scienziato non fa altro, a questo riguardo, che sviluppare a regola d’arte il modo di osservare che è proprio della vita quotidiana. La sua conoscenza diviene più ampia, più complicata, più logica: ma egli non procede ad una diversa qualità di conoscenza. Nella scienza occulta, questo primo grado di conoscenza è chiamato «conoscenza materiale»” (12).
L’uomo quindi, legato ad una conoscenza puramente materiale, è unicamente in grado di applicare ai fenomeni che incontra un pensiero attraverso il quale “si ordinano gli oggetti, si descrivono e si confrontano, si cerca di farsi un’idea delle loro modificazioni, ecc.”. Di fronte alla realtà dello spazio tale pensiero risulta di una certa utilità perché permette di misurare e contare; nei confronti del movimento, che richiederebbe una diversa coscienza per essere compreso, non può fare altro che spezzare la continuità del tempo, riducendola a qualcosa che gli risulti comprensibile: ad un insieme di singoli istanti che egli è in grado di misurare, ordinare e confrontare. In questo modo, però, la realtà del tempo viene snaturata perché frantumata in singoli istanti che non hanno più a che fare con la natura del tempo, ma sono l’effetto che l’ordinario pensiero quantitativo ha sul tempo stesso. Così scrisse al riguardo Sant’Agostino: “Eppure, Signore, noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l’uno è più lungo o più breve di un altro, rispondendo che questo è doppio o triplo, quello è semplice, oppure questo è lungo quanto quello. Ma si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo; essa è legata a una nostra percezione. I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l’inesistente” (13). Effettivamente, la continuità persa nella frantumazione del tempo è, per il pensiero quantitativo, inesistente.
Cosa accade quando, dopo aver rotto l’originaria continuità del tempo, il pensiero cerca di ricomporla? Si deve fare appello ad un diverso movimento del pensiero che si manifesta, pallidamente e in maniera inconscia, nel processo che si svolge nella somma di una serie.
La continuità e il tempo sono realmente ritrovabili solo nella percezione interiore della propria attività pensante che si muove in maniera qualitativamente diversa rispetto all’ordinario modo quantitativo. Tale attività pensante diviene capace, ad un livello superiore di coscienza, di cogliere il processo in sé continuo e non si limita a concepire i prodotti di tale processo che, nel caso della somma di una serie, sono costituiti dai singoli addendi.
“La percezione dell’atto, – scrive Scaligero – o del movimento, o del fluire della vita, o delle forze eteriche formatrici, potendo essere solo percezione interiore: che si è sulla via di conseguire, ove ci si educhi a percepire il proprio immediato essere, ciò che è il primo immediato movimento: il pensiero” (14).
Scrive ancora Umberto Bartocci: “Accanto alla retta spaziale R (o retta geometrica, o retta ordinaria, etc.), esiste – “nella nostra mente” – un’analoga retta temporale (…), indichiamola con il simbolo T. Si tratta di un insieme ordinato, meglio spazio ordinato, che rappresenta il tempo nell’intelletto, allo stesso modo che R vi rappresenta lo spazio, almeno nella sua manifestazione 1-dimensionale”. Bartocci sostiene dunque, in perfetta linea con la tradizione kantiana che concepisce lo spazio e il tempo come due forme a priori della sensibilità (non dell’intelletto!) (15), che esistono “nella nostra mente” (dove?) due rette a cui noi facciamo riferimento relazionandoci, in un caso, allo spazio e, in un altro, al tempo. Ma non è più corretto (se non altro meno artificioso) concepire che, anziché due distinte rette in una mente, esistano due “menti” (più correttamente due modalità di pensare) per una sola realtà che ci si manifesta nel fenomeno del movimento? Queste due rette non sono altro che due modi che il pensiero ha di relazionarsi al mondo: il primo, legato alla “conoscenza materiale”, è capace unicamente di ordinare e contare tutto ciò che incontra (anche ciò che, per sua natura, non può essere contato); il secondo, legato invece ad un livello di coscienza superiore definito da Steiner immaginativo, è in grado di sollevarsi al livello del processo mentre si svolge nella sua pura continuità.
In sostanza, il pensiero si adatta alle due realtà del discreto e del continuo, dando, nei due casi, forme diverse alla sua attività: nel primo caso il pensiero si muove tra i singoli elementi pensandoli, nel secondo si muove pensando la relazione tra di essi.
L’agognata soluzione dei paradossi di Zenone non risiede quindi in un nuovo artificio matematico che trasformi i paradossi in argomenti perfettamente logici, ma nel risolvere la dicotomia tra continuo e discreto laddove tali realtà esistono veramente: nel rapporto che l’attività pensante dell’uomo instaura con il mondo e nella coscienza che egli ha di tale attività.

NOTE:

(1) vedi: Il movimento e il suo carattere di continuità – 19 dicembre 2001;
(2) scrive Bartocci: “Per la verità, nella formulazione del secondo il “principio del punto medio” (o dell’infinita suddivisibilità) non viene utilizzato, ma risulta per così dire conseguenza necessaria del movimento. Per essere più precisi, mentre nella dicotomia l’esistenza del punto medio viene esplicitamente supposta in fase di impostazione del discorso, nell’Achille invece, continuando a fare l’ipotesi che il rapporto tra le velocità sia di 2 a 1, quando l’eroe (che parte dal punto A) si trova dove era inizialmente la tartaruga (punto B), l’animale sarà situato nel punto medio M del segmento BB’ contiguo al segmento AB, e ad esso uguale. Ciò implica l’esistenza di M a posteriori.” La differenza che sottolinea Bartocci ci sembra irrilevante ai fini di ciò che si vuole spiegare in quest’articolo; viene comunque riportata per completezza;
(3) Aristotele: Fisica – Rusconi, Milano 1995, libro VI, par.9, p.337;
(4) per somma di un numero infinito di addendi si intende ciò che in matematica va sotto il nome di somma di una serie. Dal punto di vista formale, data una successione di numeri reali con , si definisce la somma parziale n-esima come per , con . La serie dei termini si indica con ed è definita come la successione delle somme parziali n-esime. Infine si chiama somma della serie il . Se S assume un valore finito, la serie si dice convergente, se assume un valore infinito, si dice divergente, se il valore non esiste (cioè oscilla tra diversi valori), la serie si dice indeterminata;
(5) Hegel: Scienza della logica – Laterza, Bari 1988, vol.1, p.273;
(6) rispetto alla serie che converge appunto al valore 2, la serie , detta serie armonica, non converge a nessun valore finito; ciò significa che, continuando a sommare nuovi addendi, il risultato tende a diventare infinito (nel senso che tale frase assume dal punto di vista matematico) cioè diverge;
(7) in sostanza, se la tradizione avesse riportato diversamente l’argomento, attraverso gli sviluppi degli strumenti matematici il paradosso non sarebbe comunque risolto: dire cioè che i paradossi di Zenone sono stati risolti per il fatto che esistono le serie numeriche convergenti non ha senso poiché, allo stesso modo, esistono anche le serie numeriche divergenti;
(8) Episteme – An International Journal of Science, History and Philosophy N. 8 – 21 settembre 2004. Scaricabile all’indirizzo http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/ep8/ep8.htm ;
(9) nella Relatività Speciale, ciò che viene definito come distanza o metrica corrisponde a ciò che, in uno spazio euclideo, definiamo anche intuitivamente come distanza: dati due punti di coordinate e la loro distanza d si definisce . Nella Relatività però, ciò che si considera spazio è in realtà uno spazio-tempo e ogni punto di questo spazio possiede 4 coordinate anziché 3, dove la quarta è una coordinata temporale: e . In questo modo scompare qualsiasi distinzione qualitativa tra spazio e tempo e resta, come unica differenza, il fatto che accanto alla coordinata temporale interviene la quantità immaginaria i moltiplicata per il fattore c che è la velocità della luce. Questa quantità immaginaria, nella formulazione della metrica spazio-temporale (metrica di Minkowsky), impone un segno meno che definisce tale metrica pseudo-euclidea (dove cioè una distanza può essere, per definizione, anche negativa);
(10) si fa in questi casi riferimento alla caratteristica di due insiemi, come la retta e un segmento di essa, di essere equipotenti. In questi termini la caratteristica di un qualsiasi segmento di retta, indipendentemente dalla sua lunghezza, è quella di possedere la cosiddetta potenza del continuo o cardinalità dell’insieme dei numeri reali R: tra due punti di una retta esistono sempre infiniti punti indipendentemente dalla distanza che li separa. In quest’ambito furono determinanti, alla fine del diciannovesimo secolo, i lavori del matematico Cantor;
(11) M. Scaligero: Segreti dello spazio e del tempo – Tilopa, Roma 1985, p.31;
(12) R.Steiner: I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1984, p.11;
(13) Sant’Agostino: Le Confessioni – Città Nuova, Roma 1994, libro XI, par.16, p.287;
(14) op. cit. pp.33-34;
(15) le forme a priori della sensibilità sono lo spazio e il tempo i quali non sono, secondo Kant, né concetti, né qualità delle cose, ma condizioni della nostra intuizione.

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Di Daniele Liberi
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