27/10/2004

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Di geni, scrive Edoardo Boncinelli, “quindici anni fa pensavamo di averne centomila; tre anni fa capimmo di averne circa trentamila; la valutazione finale, pubblicata adesso sulla rivista Nature, dice più o meno ventimila. Ci dobbiamo preoccupare? Ci dobbiamo sentire umiliati? Dobbiamo cominciare ad adorare i rospi, il frumento o il riso, che ne hanno almeno cinquanta volte tanti? Nemmeno per idea. Ventimila possono bastare, se utilizzati giudiziosamente, ovvero se la relativa scarsezza di geni è compensata da una grande ricchezza, se non un’esuberanza, di processi regolativi” (Corriere della Sera, 22 ottobre 2004).
Tra gli uomini e gli scimpanzé, ad esempio, è appunto una diversa e più alta “capacità regolativa dei circuiti genici” a fare la differenza.
A ciò aggiunge che, leggendo La nascita della mente. Come un piccolo numero di geni crea la complessità della mente di Gary Marcus (ricercatore della New York University), ci si rende altresì conto “che quello che viene detto della formazione e del funzionamento del cervello potrebbe essere detto, quasi parola per parola, della formazione e del funzionamento di qualsiasi struttura biologica o parte del nostro organismo. I geni non sanno se stanno facendo un cervello o una milza. I meccanismi sono assolutamente gli stessi e spiegare come si forma il cervello è solo un pochino più complicato che spiegare come si forma la milza”.
Benissimo, ma perché allora non chiedersi chi sia a utilizzare “giudiziosamente” i nostri ventimila geni, a possedere una diversa, più ricca e più alta “capacità regolativa dei circuiti genici” e a sapere se i geni “stanno facendo un cervello o una milza”? Non se ne abbia a male Boncinelli, ma finché qualcuno non si porrà questo essenziale interrogativo e non vi risponderà in modo convincente, ci resterà difficile credere – come asserisce – che in questo momento stanno operando, nel mondo, “tre Aristotele, due Platone, quattro Galileo, cinque Pascal e una manciata di Malpighi e di Spallanzani”.

Di Lucio Russo
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