Per sostenere “la ricerca sulle cellule staminali umane tratte dagli embrioni soprannumerari” (sic!) e per spiegare che, “non essendo, l’uomo, “contenuto” nell’embrione, non si può dire che sopprimendo l’embrione si uccide l’uomo”, Emanuele Severino ha scritto un “dotto” articolo per il Corriere della Sera (1).
Ce ne occuperemo qui brevemente, provando a rimanere sul suo stesso piano: tralasciando cioè, volutamente, quanto potremmo dire alla luce della scienza dello spirito.
“Molti sostengono – scrive – che l’embrione è un essere umano. Ma, al di là delle intenzioni, la loro logica – se vuol essere coerente ai propri principi – spinge ad affermare che l’embrione non è un essere umano. Lo si può scorgere in base a un “argomento” decisivo, che non è stato mai preso in considerazione e che indico qui per la prima volta, con la speranza di farmi capire”.
Caspita! E quale sarà mai questo “argomento” che nessuno ha “mai preso in considerazione” e che Severino si è deciso, bontà sua, a indicarci “per la prima volta”?
Così ce lo espone: “Quanti sostengono il carattere umano dell’embrione sostengono anche che il processo che conduce dall’embrione all’uomo compiutamente esistente (uomo “in atto”, dice Aristotele) non è garantito, non è inevitabile, non ha un carattere deterministico, ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative. Ancora una volta, è Aristotele a rilevare che “ciò che è in potenza è in potenza gli opposti”. Questo vuol dire che, se l’embrione può diventare un uomo in atto, allora, proprio perché “lo può” (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non-uomo, cioè qualcosa che uomo non è. E siamo al tratto decisivo del discorso (che andrebbe letto al rallentatore). L’embrione – si dice – è in potenza un-esser-già-uomo. Ma, si è visto, proprio perché è “in potenza” uomo, l’embrione è in potenza anche non-uomo. Pertanto è in potenza anche un esser-già-non-uomo. E’ già uomo e, anche, è già non uomo. Nell’embrione questi due opposti sono uniti necessariamente. Proprio per questo, l’embrione non è un esser uomo”.
Ecco dunque che la “montagna – come si usa dire – ha partorito il topolino”.
Un siffatto “argomento” (proprio perché “letto al rallentatore”) ci ricorda infatti i paradossi di Zenone e risulta tutt’altro che “decisivo”. Come il filosofo di Elea tentava infatti di dimostrare, sul piano logico e a dispetto della realtà, che partendo da A non si sarebbe mai giunti a B, che Achille non avrebbe mai raggiunto la tartaruga e che la freccia non avrebbe mai colpito il bersaglio (2), così Severino tenta di dimostrare che, partendo dall’embrione o dall’uomo “in potenza”, non è detto che si arrivi “ineluttabilmente” all’”uomo compiutamente esistente” o all’uomo “in atto”.
Zenone appartiene però a un’epoca (V sec. a.C.) nella quale il pensiero, mediante l’astratto esercizio logico, doveva dimostrare a se stesso di non essere più schiavo della realtà, di potersene anzi emancipare e di essere per ciò stesso libero, mentre Severino appartiene a un’epoca nella quale il pensiero, forte ormai della sua libertà, dovrebbe emanciparsi dall’astrazione e fare liberamente e amorevolmente ritorno alla realtà.
Egli cita Aristotele, ma proprio questi scrive – guarda caso – che “l’essere dell’uomo e l’essere del non-uomo indicano due cose diverse”, che quelli che sostengono il contrario “eliminano del tutto la sostanza e l’essenza sostanziale”, e che “se a ciò che ha l’essere dell’uomo appartiene ciò che costituisce l’essere del non-uomo, o ciò che costituisce il non-essere dell’uomo, allora l’essere di quella cosa sarà diverso dall’essere dell’uomo” (3).
Ma ciò che qui asserisce Aristotele – potrebbe obiettare Severino – si riferisce all’”uomo compiutamente esistente” e non all’embrione. D’accordo, ma che cos’è un embrione (da embryon: “che cresce dentro”) se non appunto l’iniziale o insorgente manifestazione esistenziale (sensibile) della ”essenza sostanziale” (spirituale) dell’uomo?
Ciò nondimeno, Severino dice (e Severino – direbbe Antonio – “è un uomo d’onore”) (4): “Se l’embrione – può diventare un uomo in atto, allora, proprio perché “lo può” (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non-uomo, cioè qualcosa che uomo non è”.
Già, ma una cosa è dire – ed è questo il punto – che un embrione può diventare o non diventare un uomo, altra è dire – come fa Severino, spostando il “non” – che può diventare un uomo o diventare un non-uomo.
Di fatto, chiunque abortisca riesce a far sì che un uomo “in potenza” non diventi un uomo “in atto” (e per questo è corretto dire che l’esito di tale processo non è “garantito” o “inevitabile”), mentre nessuno riesce a far sì che un uomo “in potenza” diventi un non-uomo “in atto”: ovvero, un animale, un vegetale, un minerale o quant’altro.
Sempre che Severino (ma siamo certi che non sia così) non intenda considerare non-uomini in “atto” quegli individui nei quali l’embrione, o l’uomo “in potenza”, ha purtroppo prodotto accidentali e gravi malformazioni o deformazioni (ossia, alterazioni della normale “forma umana”).
Fatto si è che nel momento stesso del concepimento o della fecondazione si avvia un processo (rilevabile già dopo dieci giorni, allorché il sacco amniotico comincia a riempirsi di liquido e a espandersi) di cui potrebbe dirsi quello che Hegel dice del “cominciamento”. In ogni cominciamento, infatti, qualcosa c’è e al tempo stesso non c’è: c’è già, poiché è appunto cominciato, ma non c’è ancora in quanto è solo cominciato.
L’embriogenesi, quale manifestazione sensibile del divenire dell’individualità (dell’Io), può essere dunque interrotta o abortita, e fors’anche in parte “deviata” (mediante manipolazioni genetiche), ma non potrà mai dar luogo, in un essere umano, alla nascita di un essere non-umano.
O Severino sa forse di esseri non-umani nati da esseri umani? Se è così, basta che ce li presenti e saremo pronti a ricrederci.
Note:
01) Corriere della Sera, 1 dicembre 2004;
02) cfr. A proposito di paradossi, 1 novembre 2004;
03) Aristotele: La metafisica – TEA, Torino 1974, pp. 277-278;
04) W.Shakespeare: Giulio Cesare in Teatro – Sansoni, Firenze 1951, vol.III, p.624.