Chi ha letto, tra le nostre note, quelle intitolate: Hegel teologo e Il dolore innocente (1), già conosce il teologo laico Vito Mancuso.
Ebbene, è uscito da poco un suo nuovo libro (2) che Umberto Galimberti si è preso la briga di presentare e discutere, su la Repubblica (3).
Scrive Mancuso: “I cristiani oggi si trovano di fronte a un’alternativa che appare inconciliabile: o essere fedeli alla verità integrale della loro fede, oppure essere solidali compagni di viaggio di tutti gli uomini a qualunque fede appartengano”; e Galimberti commenta: “Dunque anche a Mancuso non sfugge l’inconciliabilità tra la fede nella verità del proprio credo e l’amore che invita a essere compagni di viaggio di tutti gli uomini a qualunque fede appartengano”.
Questa inconciliabilità tra la “fede nella verità del proprio credo e l’amore”, e quindi tra una (particolare e determinata) verità e l’amore, viene però estesa all’inconciliabilità tra la verità e l’amore.
Chiunque sia convinto, come Galimberti, che “tra verità e amore non c’è continuità e tantomeno possibile coincidenza”, e che “l’esistenza umana è lacerata tra amore e verità”, farebbe però bene a domandarsi: non si sanerebbe tale “lacerazione” se si scoprisse che la verità è l’amore e che l’amore è la verità, e che la loro ordinaria discontinuità e divergenza non sono che segni dell’inevitabile scontro tra una verità che, non nascendo dall’amore, non è “verità” e un amore che, non nascendo dalla verità, non è “amore”?
Per quanto riguarda la verità, a Galimberti preme soprattutto distinguere il “credere” dal “conoscere”.
Credere – scrive infatti – “significa essere convinti di qualcosa che non esibisce il proprio fondamento veritativo. Lo esibisse, il qualcosa non sarebbe “creduto” ma “saputo”. Questa è la ragione per cui non “credo” nella legge della gravitazione universale perché la conosco, la so, la posso dimostrare, credo invece in Dio perché non lo conosco, non lo posso dimostrare, non ne ho notizia se non attraverso certi testi in cui ritengo sia contenuta la parola di Dio”.
Ma è sicuro, Galimberti, di conoscere la “legge” della gravitazione universale? O non ne conosce, grazie a Newton, che l’enunciato (4) e la formula? Si “crede” – dice – in ciò che “non si vede”; ma si vedono forse, per quel che sono in sé, la “legge” e la “forza” della gravitazione universale, o non se ne vedono, di norma, che le sole manifestazioni sensibili e misurabili?
Si “crede” in Dio – dice ancora – perché non lo si conosce e non lo si può dimostrare. Che dire, però, se Dio fosse un Soggetto (non un oggetto), e per ciò stesso un Essere che vive nell’attività del “conoscere” o del “dimostrare”, e non nelle cose “conosciute” o “dimostrate”? Conosciamo forse il “conoscere” o il perché una dimostrazione “dimostra”? Stando a Francesco Lerda si direbbe proprio di no. Scrive infatti: “Noi conosciamo bene le linee dell’evoluzione (…) degli sviluppi del pensiero scientifico moderno, i contributi dei singoli scienziati, le situazioni sociali e culturali in cui sono maturati, ma non abbiamo alcuna idea dei processi mentali profondi secondo i quali sono nate e si sono sviluppate tali conoscenze; in altri termini, conosciamo ciò che è avvenuto le situazioni in cui le cose sono avvenute, le giustificazioni scientifiche delle nuove acquisizioni, la loro collocazione nel contesto filosofico scientifico generale, ma non i meccanismi di pensiero, le idee secondo cui si sono svolti i fatti (…) Noi non abbiamo una definizione, anzi nemmeno una descrizione soddisfacente della nozione di idea, eppure sono le idee l’elemento fondamentale per la creatività” (5).
E per quale ragione, poi, potremmo avere notizia di Dio solo “attraverso certi testi” (il Vecchio e il Nuovo Testamento), e non attraverso il mondo o la realtà? Non dipenderà forse dal fatto che sono proprio coloro che non sanno udire la “Parola di Dio” ascoltando il mondo o la realtà ad averne notizia solo “attraverso certi testi”? (6)
Dice appunto Goethe: ““La natura nasconde Dio!” Ma non a tutti!” (7).
Ma questa – potrebbe obiettare Galimberti – non è la verità del credo cristiano. Non è la verità del credo “cristiano”? Di certo non è quella del credo “cattolico”, ma chi ha detto che non sia la verità di quello “cristiano”?
Dice sempre Goethe: “Appena si è inteso il puro insegnamento, e l’amore di Cristo così come è, e si è vissuto in sé, ci si sente grandi e liberi come uomini, e non si annette più un gran merito al fatto che il culto esterno sia così o così. E a poco a poco noi tutti, da un cristianesimo di parola e di credenza, arriveremo ad un cristianesimo di spirito e di opere” (8).
Che Mancuso identifichi il Cristianesimo con il Cattolicesimo lo si può anche capire, ma che lo faccia anche Galimberti risulta invero un po’ strano.
Com’è possibile, infatti, che non colga la differenza tra il Cristianesimo e la conoscenza o coscienza del Cristianesimo (che altro non è poi, essenzialmente, che la differenza tra il Cristo e la conoscenza o coscienza del Cristo), e quindi il fatto che il Cattolicesimo rappresenta una particolare conoscenza o coscienza del Cristianesimo, ma non il Cristianesimo?
Osserva in proposito Steiner: “Il Cristianesimo, nelle sue radici più profonde e fin dal principio, era destinato ad essere una religione per tutti gli uomini, senza differenza di fede, di nazionalità, di popolo, di razza e di tutto quanto altrimenti divide gli uomini fra di loro. Il Cristianesimo viene compreso rettamente soltanto se viene capito in modo da toccare nell’uomo l’elemento umano, quell’elemento umano che è in ogni uomo (…) Soltanto quando i cristiani saranno diventati tanto cristiani da ricercare l’elemento cristiano in tutte le anime umane, e non perché hanno tentato di inocularlo nelle altre anime mediante la conversione, allora sarà rettamente compresa la radice del Cristianesimo” (9).
Scrive però Galimberti: “La verità, questa parola intorno a cui l’umanità si è tanto affaccendata dipingendola come l’aspirazione più profonda dell’uomo, ha una caratteristica ineliminabile, l’intolleranza, piaccia o non piaccia” (10).
Ma qui non è questione di “piacere” o “non piacere”, bensì di “capire” o “non capire”: di capire, ad esempio, non solo che l’amore ha sempre per figlia la tolleranza, mentre la tolleranza non ha sempre per padre l’amore, poiché può essere benissimo partorita dall’indifferenza, dall’ignavia o, se si preferisce, dal relativismo (dei valori etici e noetici), ma anche, se non soprattutto, che l’unica verità che ha quale “caratteristica ineliminabile” l’intolleranza è quella che, pur avendo natura “particolare”, pretende di porsi e d’imporsi come “universale” (11).
S’immagini, per fare un banale esempio, un mosaico con tutte le sue tessere. Ebbene, un conto è la realtà o la verità una rappresentata dal mosaico (verità che scriveremo, d’ora in poi, con la maiuscola), altra sono le diverse verità rappresentate dalle molteplici tessere che lo compongono (12).
Ebbene, che cosa accadrebbe se, smontato il mosaico, qualcuno s’impadronisse di una di queste verità (relative) e volesse imporla come Verità (assoluta)? E’ semplice: dovrebbe escludere tutte quelle in possesso degli altri e rendersi per ciò stesso “intollerante”.
Cosa sarebbe giusto invece fare? E’ presto detto: avere la pazienza (e l’amore) di raccogliere tutte le tessere (tutte le verità) al fine di ricomporre a poco a poco il mosaico (la Verità).
“Comprende le radici del cristianesimo – osserva a questo proposito Steiner – soltanto chi per esempio riesce a vedere l’appartenente ad un altro sistema religioso, non importa se esso si chiami indiano, cinese o in altro modo, così da chiedersi: “Quanto vi è in lui di cristiano?”” (13). Il che – nei termini del nostro esempio – equivarrebbe a chiedersi: “Quale parte del mosaico rappresenta questa tessera?”.
Ma l’ordinario livello di coscienza (rappresentativo o intellettuale) è forse in grado di conoscere il mosaico (la Verità)? No, non lo è (14); e proprio per questo nasce l’illusione, nei non credenti, di poter arrivare all’amore rinunciando alla Verità e, nei credenti, di poter arrivare alla Verità rinunciando all’amore (per quale ragione, altrimenti, si dovrebbe “rifondare”, in nome dell’amore, la fede?).
A Galimberti, l’amore di un cristiano che non rinunci alla Verità appare “povera cosa”; ma non è “povera cosa” anche l’amore di un non cristiano che rinunci alla Verità? Tanto più se si scoprisse – come abbiamo detto – che la Verità è l’amore e che l’amore è la Verità? Non dice appunto il Cristo, ossia l’Essere stesso dell’amore: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6)?
Non è plausibile, tuttavia, che la Verità maiuscola coincida con l’amore minuscolo: cioè a dire, con l’amore vincolato (come l’intelletto) ai sensi. Come c’è infatti una Verità che l’uomo può far sua portando il pensiero al di là dell’intelletto, senza rinunciare all’intelletto, così c’è un Amore che l’uomo può far suo portando il pensare, il sentire e il volere al di là dei sensi, senza rinunciare ai sensi (come si sa, “mangiare per vivere” è cosa ben diversa dal “vivere per mangiare”).
Sia questa Verità sia questo Amore, l’uomo se li deve conquistare, in quanto non gli sono dati dalla natura. Il che significa – e sta qui la vera difficoltà – che deve, vincendo la sua odierna e ingravescente passività, crescere, svilupparsi e trasformarsi, tanto da poter un giorno arrivare a essere (non ad avere) la Verità e l’Amore o, altrimenti detto, quell’Io in cui è il Cristo, e in cui sono, per ciò stesso, la Verità e l’Amore.
La natura – osserva in proposito Goethe – “sdegna chi non è sufficientemente preparato ad intenderla: e solo ai ben preparati, ai sinceri, ai puri ella si concede e manifesta i suoi segreti. La ragione pratica non arriva sino a lei. L’uomo deve sapersi innalzare alla ragione pura, più alta, per venire a contatto con la Divinità, che si rivela nei fenomeni originari così fisici come morali” (15).
E’ la “ragione pratica”, cioè a dire la conoscenza o coscienza intellettuale, a essere dunque “povera cosa”. “Chi fosse in grado d’insegnare una critica dell’intelletto umano – arriva a dire ancora Goethe – sarebbe un benefattore dell’umanità” (16).
Tale conoscenza o coscienza (pensante) costituisce di fatto un limite tanto per i non credenti (come Galimberti) quanto per i credenti (come Mancuso): un limite del quale i primi mostrano di accontentarsi (agnosticamente), al contrario dei secondi che cercano perciò di varcarlo o compensarlo con la fede (con il sentimento e la volontà).
Non si commetta, tuttavia, l’ingenuità di credere che l’agnosticismo dei non credenti sia indice di umiltà o di modestia. A Mancuso, che termina un suo passo con queste parole: “Il cristiano sa che per la sua fede è assolutamente irrinunciabile la convinzione che in nessun altro nome sotto il cielo c’è salvezza se non nel nome di Gesù”, Galimberti replica infatti così: “Se avessi fede potrei convenire (a parte il concetto di “salvezza”, perché non vedo da che cosa mi devo salvare) nel nome di Gesù” (17).
Si può essere dunque agnostici anche per superbia od orgoglio (intellettuale): perché si suppone o presume, ad esempio, che non si abbia, in quanto “ricchi di spirito”, bisogno di “consolazione” (Lc 6,24) (18).
Peccato, perché Massimo Scaligero scrive: “I disperati sono coloro che veramente possono salvarsi, vincere, risorgere e fare della propria vita una creazione novella, un olocausto, conoscendo la legge promessa dal Logos, la legge del miracolo. Essi non cercano alibi al proprio male, non vogliono codificazioni della loro caduta: sono disperati perché incapaci di ingannare se stessi, o drogare se stessi. In realtà essi ancora dispongono di un pensiero sano, che cerca la propria luce nell’oscurità: cercano la fonte salvatrice del pensiero, la reale disciplina del pensiero che pensa. Perché v’è un pensiero che non pensa ed è il generale pensiero umano, il pensiero dialettico che prepara le dottrine per gli incapaci di pensare da sé, il pensiero dominato dalla natura animale, anche se razionale e scientifico: il fòmite vero della disperazione” (19).
Note:
01) cfr. Hegel teologo e Il dolore innocente, 20 settembre 2002;
02) V.Mancuso: Per amore. Rifondazione della fede – Mondadori, Milano 2005;
03) la Repubblica, 17 febbraio 2005;
04) a proposito di questa legge, Victor Bott scrive: “Vedendo cadere una mela, Newton ebbe l’intuizione della legge di gravità, ma non sembra che si sia interrogato sul modo non meno misterioso in cui la mela era arrivata sul ramo – V.Bott: Medicina antroposofica – IPSA, Palermo 1991, vol.I, p.9;
05) cfr. Intelligenza umana e intelligenza artificiale, 9 marzo 2003;
06) si consideri, peraltro, che a coloro che hanno notizia di Dio solo “attraverso certi testi”, poiché non sanno udirNe la “Parola” ascoltando il mondo o la realtà (cfr. R.Steiner: Leggere occulto e ascoltare occulto – Antroposofica, Milano 2004), fanno da pendant coloro che hanno notizia del mondo o della realtà solo attraverso certi strumenti. Osserva appunto Goethe: “Per se stesso e in quanto si serve dei suoi sensi integri l’uomo è il maggiore e il più preciso strumento di fisica che possa esistere; ed è appunto la maggior calamità della fisica moderna quella di aver quasi scisso gli esperimenti dall’uomo, di pretendere di conoscere la natura solo attraverso ciò che ne rivelano gli strumenti artificiali, anzi, di voler con questi limitare e decidere ciò che essa è in grado di fare” (J.W.Goethe: Massime e riflessioni – TEA, Milano 1988, p.160). Chi ritenga che questi pensieri si addicano a un “poeta”, ma non a uno “scienziato”, senta allora quanto dice Werner Heisenberg: “Il male più grande della fisica recente è che gli esperimenti sono separati dall’uomo stesso e che la natura è vista solo in ciò che mostrano gli strumenti artificiali: cioè essi vogliono provarla e limitano con questi la sua comprensione” – W.Heisenberg: Oltre le frontiere della scienza – Editori Riuniti, Roma 1984, p.153;
07) J.W.Goethe: Massime e riflessioni, p.177. E’ anche nota, al riguardo, quest’altra sua affermazione: “Chi ha arte e scienza ha anche religione; chi non ha arte e scienza abbia almeno religione”;
08) G.P.Eckermann: Colloqui col Goethe – Laterza, Bari 1912, vol.II, p.349;
09) R.Steiner: Vita da morte a nuova nascita – Psiche, Torino 1997, pp.42-43;
10) a riprova di ciò, dice: “Se è vero che 2+2 fa 4, questa verità non tollera che faccia 3 o 5”. Di questo passo, però, si potrebbe finire col biasimare uno smeraldo perché non tollera di essere un topazio, una rosa perché non tollera di essere un garofano, o una mucca perché non tollera di essere un barboncino: si potrebbe finire, insomma, con l’essere noi a non tollerare la realtà;
11) Galimberti riconosce, per la verità, che “scambiare la propria fede con una verità universale è un atto di squisita intolleranza”. Ma fa questo in nome della particolarità (agnostica e relativistica), e non della universalità;
12) ovviamente, la relazione tra il mosaico e le tessere che lo compongono, in quanto relativa a delle realtà inorganiche, non rende appieno l’idea della relazione spirituale tra la Verità e le verità. Per meglio intendere quest’ultima, si ascoltino dunque le seguenti parole di Goethe: i Francesi adoperano “il vocabolo composition, quando discorrono dei prodotti della natura. Ora, io posso mettere insieme le singole parti di una macchina fatta a pezzi e parlare, in tal caso, di composizione; ma non quando intendo delle singole parti di un tutto organico; che si formano mercè di un processo vitale, e sono compenetrate da un’anima comune (…) Come si può dire che Mozart ha composto il Don Giovanni? Composizione! – come se si trattasse di un pasticcio o di un biscotto, che risulta di uova, di farina e di zucchero. Esso è una creazione spirituale: le singole parti come il tutto sono compenetrate da un solo spirito, da un solo impeto, dal soffio di una sola vita” – G.P.Eckermann: op.cit., vol.II, pp.337-338;
13) R.Steiner: op.cit., p.43;
14) osserva ad esempio Heisenberg: “L’immaginazione ha un posto decisivo nella scienza, e soprattutto nelle scienze della natura. Infatti, è vero che i fenomeni si studiano solo con esperimenti attenti e sistematici, ma la comprensione dell’organizzazione dei fenomeni è cosa che richiede più immaginazione che pensiero logico” – W.Heisenberg: Fisica e oltre – Boringhieri, Torino 1984, p.197;
15) G.P.Eckermann: op.cit., vol.I, pp.313-314;
16) J.W.Goethe: op.cit., p.266;
17) si noti che entrambi si richiamano qui al nome di “Gesù”, e non al nome del “Cristo” o a quello di “Gesù-Cristo”;
18) è singolare, oltretutto, che il Galimberti che dice: “non vedo da che cosa mi devo salvare”, sia il medesimo che dice, all’inizio del suo articolo, di vedere, nel “male” e nel “dolore degli uomini e del mondo”, il “sigillo” della lacerazione “tra amore e verità”. Ci perdoni, ma ciò non può non rammentarci il detto: “Come si piange bene in questa valle di lacrime!”;
19) M.Scaligero: Meditazione e miracolo – Mediterranee, Roma 1988, p.15.