L’invenzione dell’anima (sic!)

L

Nella nota: Parole, parole, parole…(1), ai seguenti interrogativi di Galimberti: “Tra una palestra e un corso di nuoto perché bisogna crescere con un bel corpo, tra una spiegazione ora sbrigativa, ora un po’ imbrogliata perché bisogna diventare intelligenti, quanto passa tra genitori e figli di quella comunicazione indiretta per cui si sente nella pancia, prima che nella testa, che del padre e della madre ci si può fidare, perché li si avverte al nostro fianco nei primi movimenti un po’ impacciati della vita? Cura del corpo, cura dell’intelligenza, ma quanta cura dell’anima?”, Francesco Giorgi aveva risposto con quest’altro interrogativo: “Ma Galimberti crede davvero all’esistenza dell’anima, o anche questa non è che una “bella parola”?”.
Ebbene, grazie a un articolo apparso di recente su la Repubblica (titolato: L’invenzione dell’anima) (2), possiamo essere finalmente sicuri che l’anima, per Galimberti, non è che una “parola”.
Scrive infatti: “Ecco come è nata l’anima, la psiche, la coscienza. Queste parole, poi credute realtà, sono nate per sopperire a un deficit metodologico, per spiegare cioè tutto quello che non si riusciva a spiegare dopo aver ridotto il corpo a pura quantità, a semplice sommatoria di organi. Ora che le parole “anima”, “coscienza”, “mente” sono entrate nel nostro linguaggio e si sono radicate nelle nostre abitudini linguistiche, usiamole pure, ma ricordando la loro genesi, evitiamo di pensarle come “entità” o come “sostanze” che sopravvivono alla morte del nostro corpo”.
Possiamo essere finalmente sicuri, in altre parole, che Galimberti è un materialista: ovvero, uno dei tanti che s’illudono di poter risolvere il dualismo cartesiano limitandosi a ridurre la res cogitans alla res extensa.
Non allo stesso modo, però, di quei meccanicisti che riducono “il corpo a pura quantità” o “a semplice sommatoria di organi”, bensì perorando la causa di un “corpo vivente”: cioè a dire, di una res, insieme, extensa e cogitans (3).
Galimberti, tuttavia, li definisce “organicisti”, e non “meccanicisti”. Scrive infatti: “Fu nel 1600, con la nascita della scienza moderna che, per esigenze scientifiche, il corpo fu ridotto a “organismo””.
Il che è a dir poco singolare poiché per “organismo” – stando almeno allo Zingarelli – s’intende un “essere pluricellulare vivente”: proprio quel “corpo vivente”, cioè, che egli oppone al corpo ridotto “a pura quantità”, “a semplice sommatoria di organi”, e dunque a “macchina”.
Ma il problema è un altro.
Scrive: “Per gli antichi greci, ad esempio, non c’era un’anima dentro il corpo. Per Omero l’anima è l’occhio che vede, l’orecchio che sente, il cuore che batte, il corpo vivente insomma, che è diverso dal cadavere perché è “espressivo” e non “rappresentativo” di un teatro che si svolge alle sue spalle, nell’anima appunto, come noi oggi crediamo”.
Ma come un corpo “vivente” è diverso da un corpo “morto” così un corpo “animato” (o “espressivo”) non è a sua volta diverso da quello “vivente”? Un vegetale non è forse diverso da un minerale tanto quanto un animale è diverso da un vegetale? O si ritiene che pure il corpo di un vegetale sia “espressivo” del “teatro che si svolge alle sue spalle”, cioè a dire nella sua interiorità?
“Il linguaggio di Omero – dice Galimberti – è corporeo non perché Omero non è ancora giunto alla scoperta dello psichico, ma perché non ha ancora ridotto il corpo a materia inerte a disposizione dell’anima, a mero segno fisico di trascendenti significati psichici”.
Ma per quale ragione l’anima dovrebbe avere a disposizione una “materia inerte”, e non appunto una materia “vivente”?
Scrive ancora: “Non è lo sguardo che vede qualcosa per me o il braccio che si protende per afferrare qualcosa per me, ma sono io questo sguardo che ispeziona, così come sono io questo braccio che afferra. L’io, cioè non si distingue dal corpo, non dispiega un’esistenza in cui il corpo compare come uno strumento. Io sono davanti al mondo, non davanti al mio corpo”.
“Io sono davanti al mondo, non davanti al mio corpo”? E come mai, allora, percepisco il mio corpo allo stesso modo e con gli stessi sensi con cui percepisco il mondo? E se “sono io questo sguardo che ispeziona, così come sono io questo braccio che afferra”, chi è allora a sapere che lo sguardo ispeziona o che il braccio afferra, e per di più a decidere se è il caso d’ispezionare in una direzione o nell’altra, oppure di afferrare questa o quella cosa?
Vengono considerati “alienati” – sottolinea Galimberti – “coloro che vivono il corpo come altro da sé”. D’accordo, ma verrebbero forse considerati diversamente coloro nei quali fossero davvero lo sguardo e il braccio a decidere che cosa è bene in un caso ispezionare e nell’altro afferrare?
I nostri sono comunque discorsi inutili perché se i meccanicisti appartengono alla schiera di coloro che si attardano nell’analisi poiché rifuggono (arimanicamente) dalla sintesi, Galimberti appartiene viceversa alla schiera di coloro che si affrettano nella sintesi poiché rifuggono (lucifericamente) dall’analisi, compiacendosi di fare “d’ogni erba un fascio”: di mescolare ad esempio alla rinfusa i concetti di “psiche”, di “coscienza” e di “mente”, oppure quelli di “corpo”, di “vita”, di “anima” e di “Io” (4).
Abbiamo voluto ciò nonostante occuparci del suo articolo perché l’affermazione secondo la quale sarebbe stato Platone, “inaugurando la filosofia”, a introdurre “la parola “anima, in greco psiché””, ci permette non solo di tornare su quanto abbiamo esposto, ultimamente, nella nota: Scienza dello spirito e filosofia dello spirito (5), ma anche di riprendere quanto abbiamo avuto modo di dire, a suo tempo, ne L’anima cosciente e la modernità (6).
Galimberti è convinto – come si è visto – che le parole anima, psiche e coscienza sono nate “per sopperire a un deficit metodologico”; non lo sfiora pertanto l’idea che tali “concetti” (non “parole”) possano essere affiorati via via alla coscienza nel corso di un lungo processo evolutivo: non lo sfiora insomma l’idea che l’anima sia stata “scoperta”, e non “inventata”, e che alla base di ogni profonda trasformazione della coscienza umana vi sia – come insegna la scienza dello spirito – una mutazione (evolutiva) dell’organizzazione umana: vale a dire, delle relazioni intercorrenti tra l’Io, il corpo astrale, il corpo eterico e il corpo fisico.
Per tutto il tempo, ad esempio, in cui quel che l’Io sperimenta nel corpo astrale (ossia nel pantheon animico-spirituale) si riflette in un corpo eterico indipendente dal corpo fisico, l’anima si presenta come anima senziente (naturalmente o istintivamente immaginativa).
E’ solo con l’anima razionale o affettiva che si dà pertanto il passaggio da un’anima che si nutre soprattutto di “memoria” (della tradizione orale) a un’anima che produce invece delle “idee”.
Lo conferma Francesco Sarri che, nel suo studio su Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, afferma che è stato per primo Socrate a porre: a) l’identità del nostro io più profondo con la nostra anima; b) la superiorità dell’anima sul corpo; c) la cura dell’anima in modo che diventi il più possibile buona; d) “la questione dell’immortalità dell’anima e dei suoi destini ultramondani” (7).
L’anima comincia a essere così “assimilata al mondo intelligibile e immateriale” (del pensiero), mentre la natura comincia a essere assimilata al mondo inintelligibile e materiale (della percezione).
Con l’anima razionale o affettiva s’inaugura dunque quella separazione tra l’anima e il corpo che si andrà in seguito sempre più accentuando fino a raggiungere l’acme con Cartesio e con la sua già ricordata dicotomia tra la res cogitans e la res extensa.
Per intendere questi passaggi, bisogna tuttavia avere chiari i concetti di “corpo morto” (sòma), di “corpo vivente” (physis) e di anima (psiché).
“La nozione fondamentale di physis – spiega Sarri – implica sia l’idea della natura intima e fondamentale della realtà, sia l’idea di vita e dell’inesauribile sviluppo del processo creativo (…) La physis, insomma, non è “altro” dalla materia, ma è una materia più fine e sottile di quella che abitualmente si può vedere e toccare” (8).
Chi conosce la scienza dello spirito, non faticherà di certo a riconoscere in questa physis (seppure in modo alquanto approssimativo) la vivente realtà del corpo eterico: di un corpo eterico che si distingue nettamente dal corpo fisico (dal sòma che “abitualmente si può vedere e toccare”), ma non ancora dalla psiché.
Talete, – osserva appunto Sarri – definendo asòmatos la psiché, “non intendeva certo dire che essa era “immateriale”, bensì che essa, come la physis di cui era fatta, era formata di materia sottile, impalpabile, difficilmente coglibile con gli organi normali della percezione” (9).
Il che conferma – come abbiamo detto – che, durante la fase evolutiva dell’anima senziente, quel che l’Io sperimenta nel corpo astrale (nella psiché) si riflette in un corpo eterico (in una physis) ancora indipendente dal corpo fisico (dal sòma).
Nel corso di questa fase, l’uomo non può pertanto godere di una coscienza della realtà autonoma dell’anima né, tantomeno, di quella dell’Io.
“Infatti, – osserva sempre Sarri – la psiché di Eraclito, benché sia identificata per la prima volta con l’intelligenza e la consapevolezza, essendo momento della physis universale, non riesce a coincidere con la personalità individuale dell’uomo” (10).
Allorquando, però, quel che l’Io sperimenta nel corpo astrale (nella psiché) si riflette in un corpo eterico (in una physis) che ha già preso a calarsi nel corpo fisico (nel sòma), e quindi a dipenderne, dal grembo della coscienza “mitologica” dell’anima senziente viene alla luce la coscienza “filosofica” dell’anima razionale o affettiva (11).
Con l’avvento di quest’ultima, le stesse entità divino-spirituali (viventi nella psiché) che l’uomo aveva prima sperimentato in forma “immaginativa”, cominciano invece a darglisi in forma “concettuale”.
Tuttavia, quanto più il corpo eterico (la physis) si cala nel corpo fisico (nel sòma), tanto più i concetti, sperimentati dapprima quali “essenze” o “entelechie”, vengono a perdere realtà, e a essere per conseguenza appresi in modo astratto o nominalistico.
L’anima razionale o affettiva contrassegna dunque una fase di transizione dalla trascendenza all’immanenza: ovvero, un graduale passaggio dallo stato in cui l’uomo usufruiva (inconsciamente) di un corpo eterico libero dal corpo fisico a quello in cui invece usufruisce (sempre inconsciamente) di un corpo eterico divenuto schiavo di quello fisico (in specie nella sede cefalica) (12).
Ma è proprio allora, allorché s’instaura, cioè, uno stato in cui quel che l’Io sperimenta nel corpo astrale (nella psiché) si riflette nel corpo fisico (nel sòma), che nascono l’anima cosciente e la modernità e si viene a radicalizzare il contrasto tra la coscienza “scientifica” dell’essere come “oggetto” o “natura” (res extensa) e la coscienza “filosofica” dell’essere come “soggetto” o “spirito” (res cogitans).
La prima fase di sviluppo dell’anima cosciente (ultimatasi verso la fine del XIX secolo) è caratterizzata dunque dal fatto che l’immanenza si afferma e consolida sulla base di un’esperienza unilaterale o – per così dire – “monca”: di un’esperienza, ossia, che non consente ancora al soggetto di avere di sé e dello spirito (della res cogitans) la stessa coscienza realistica che ha del corpo (della res extensa).
Per quanto riguarda l’anima e l’Io, l’uomo ricorre ancora, infatti, all’anima razionale o affettiva (al sentire nel pensare, e quindi alla filosofia o alla religione), e non all’anima cosciente (al volere nel pensare, e quindi alla scienza).
Da qui la nota, perdurante e ormai patogena dicotomia tra la cultura cosiddetta “umanistica” e quella cosiddetta “scientifica”.
Per quanto possa apparire paradossale, l’uomo dell’anima cosciente (dell’autocoscienza), sentendosi anzitutto portato verso l’oggetto della percezione sensibile (verso il percetto), sperimenta dunque le entità divino-spirituali (viventi nella psiché) come degli “oggetti” o delle “cose”.
In effetti, le medesime forze eteriche che plasmavano un tempo le immagini delle entità sovrasensibili (degli Dei) ora plasmano invece le immagini (percettive) delle entità sensibili e le rappresentazioni (come pure – s’intende – le immagini della memoria, della fantasia e del sogno).
Secondo Martin Heidegger, l’origine di tale “oblio dell’essere” (aggiungiamo noi, delle entità divino-spirituali) risiederebbe “nel cambiamento della verità in certezza, a cui corrisponde la preminenza concessa a quell’ente che è l’uomo, inteso nel senso dell’ego cogito, la sua entrata in scena nella posizione di soggetto. Da allora la natura diviene oggetto (ob-jectum), in quanto l’oggetto non è altro che “ciò che mi è gettato contro” (das mir Entgegengeworfene). Non appena l’ego diviene il soggetto assoluto, ogni altro ente diviene per lui oggetto, per esempio nel modo della percezione (questo è il punto di partenza dell’”oggetto” in senso kantiano)” (13).
Egli ritiene, dunque, che il cambiamento della verità extrasensibile in certezza sensibile (nelle “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni” galileiane) sia la causa, e non l’effetto, della separazione dell’uomo dall’essere.
Non riuscendo tuttavia a fornire alcuna convincente spiegazione del perché la “verità” sia decaduta a “certezza”, o del perché il primato del “fare” – come pure sottolinea – si sia sostituito a quello del “pensare” (segni evidenti – per noi – del prevalere della realtà fisica su quella eterica), egli si vede allora costretto a disconoscere, in nome dell’essere, il valore del divenire e a elaborare una “ontologia” estetizzante (14), basata essenzialmente sul sentire e alimentata da una struggente nostalgia dello stato originario.
Soltanto con l’età moderna – sostiene invece Emanuele Severino – nasce la filosofia dello spirito. “Affermare – spiega infatti – che la filosofia moderna è “comprensione dello spirito” vuol dire che nella filosofia moderna il pensiero, che prima era dimentico di sé, si mette ora dinanzi a se stesso e si conosce come l’elemento in cui la realtà si costituisce” (15).
Una cosa, tuttavia, è il pensiero che “si mette dinanzi a se stesso” per pensarsi con animus filosofico, altra è il pensiero che “si mette dinanzi a se stesso” per sperimentarsi con animus scientifico. Dice appunto Goethe: “Pensare è più interessante che sapere, ma non più che contemplare” (16).
Un pensiero che volesse davvero conoscere se stesso e lo spirito dovrebbe infatti non solo pensarsi, ma anche osservarsi e percepirsi e, a tal fine, dovrebbe ricorrere necessariamente alla pratica o all’esercizio interiore (17).
Ciò che non fanno i filosofi, peraltro, lo fanno ancor meno quegli odierni neuroscienziati e sostenitori del modello computazionale della mente che s’illudono di poter conoscere il pensiero dandosi alla pratica o all’esercizio esteriore: ossia, osservando e pensando, non il pensiero, bensì il cervello (18).
Ben si comprende, dunque, come sia l’evoluzione stessa dell’anima a esigere, per il nostro tempo, una “scienza” dello spirito, e non una sua “filosofia” o, per riprendere il titolo dell’articolo di Galimberti, una effettiva scoperta dello spirito, e non una sua astratta o – come direbbe il Figaro rossiniano – “prelibata” invenzione.

Note:

01) cfr. Parole, parole, parole…,18 ottobre 2003;
02) la Repubblica, 5 marzo 2005;
03) cfr. Il corpo “mistico” , 12 settembre 2003;
04) circa questa seconda attitudine, Hegel dice: “Contrapporre alla conoscenza distinta e compiuta, o alla conoscenza che sta cercando ed esigendo il proprio compimento, questa razza di sapere, che cioè nell’Assoluto tutto è eguale, – oppure gabellare un suo Assoluto per la notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere, tutto ciò è l’ingenuità di una conoscenza fatua” (G.W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1996, pp. 9-10);
05) cfr. Scienza dello spirito e filosofia dello spirito, 26 marzo 2005;
06) L.Russo: L’anima cosciente e la modernità. Pensare il Novecento. Aspetti della questione sociale – edizione fuori commercio, a cura dell’Associazione culturale Source Onlus, Roma 1999;
07) F.Sarri: Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima – Vita e Pensiero, Milano 1997, pp.177-178;
08) ibid., p.88;
09) ibid., p.97 – oggi, ovviamente, le cose non stanno più così. Avverte infatti Steiner che non bisogna “aspettarsi che quanto si percepisce nei mondi spirituali sia solo materia nebulosamente rarefatta” (R.Steiner: Teosofia – Antroposofica, Milano 1957, pp.68-69);
10) ibid., p.115;
11) Giorgio Colli è stato uno dei pochi ad aver intuito che la nascita della filosofia coincide con la morte della “veggenza” o della “sapienza”. Scrive appunto: “La nostra filosofia non è altro che una continuazione, uno sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto “l’amore della sapienza” sta più in basso della “sapienza”. Amore della sapienza non significava infatti, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che era già stato realizzato e vissuto” (G.Colli: La nascita della filosofia – Adelphi, Milano 1975, pp.13-14). Secondo Steiner, l’anima senziente era infatti partecipe della gnosi “custodita nelle sedi dei misteri” (R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, pp.184-185);
12) osserva appunto Steiner: “Soltanto da quando l’umanità è giunta fino allo sviluppo dell’anima razionale o affettiva esiste pienamente il continuato pericolo del distaccarsi, già predisposto fin dai tempi primordiali, dell’essere umano dall’essere spirituale-divino” (R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.138);
13) M.Heidegger: Seminari – Adelphi, Milano 1992, p.48;
14) scrive, ad esempio: “Solo la poesia appartiene al medesimo ordine della filosofia e del suo modo di pensare. Ma il poetare e il pensare non sono a loro volta identici. Parlare del nulla seguita a essere, comunque, per la scienza un orrore e un’assurdità. Può farlo, al contrario, oltre che il filosofo, il poeta: e questo non per via di un minor rigore che, secondo l’opinione comune, è dato riscontrare nella poesia, ma perché nella poesia (s’intende solo nella più autentica e più grande) sussiste, nei confronti di tutto ciò che è puramente scientifico, un’essenziale superiorità dello spirito” (M.Heidegger: Introduzione alla metafisica – Mursia, Milano 1968, p.37);
15) E.Severino: La filosofia moderna – Rizzoli, Milano 1984, p.11;
16) J.W.Goethe: Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p.221;
17) cfr. M.Scaligero: Tecniche della concentrazione interiore – Mediterranee, Roma 1985.
18) cfr. Intelligenza umana e intelligenza artificiale, 9 marzo 2003.

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Di Lucio Russo
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