I “nuovi segni dei tempi” – secondo Camillo Ruini, Cardinale Presidente della CEI – richiedono il “coraggio di un nuovo umanesimo”.
Scrive infatti: ““Nuovo” deve essere questo umanesimo non solo perché planetario e dialogico, ma anche perché è chiamato a rispondere a una in certa misura nuova “questione antropologica”, che è sorta in questi decenni e che ha un’importanza concreta sicuramente paragonabile a quella della “questione sociale”, a sua volta di dimensione planetaria. La novità dell’attuale questione antropologica consiste principalmente nel fatto che, a differenza del passato, essa tende non soltanto a interpretare l’uomo, ma soprattutto a trasformarlo, non limitatamente ai rapporti sociali ed economici ma, assai più direttamente e radicalmente, nella sua stessa realtà biologica e psichica, mediante l’applicazione al soggetto umano degli sviluppi delle scienze e delle tecnologie. Si fa strada così una concezione puramente naturalistica o materialistica, che sopprime ogni vera differenza qualitativa tra noi e il resto della natura, privando di plausibilità e fondamento quel ruolo centrale e quella dignità specifica del soggetto umano che costituiscono il nucleo generatore dell’autentico umanesimo (…) La riduzione dell’uomo alla natura, avvenendo per lo più sulla base di un integrale scientismo e naturalismo, non lascia a Dio alcuno spazio reale e pertanto confligge con le stesse religioni in modo assai diretto, privandole del loro significato e fondamento originario” (1).
Come è vero, tuttavia, che gli “sviluppi delle scienze e delle tecnologie” allontanano l’uomo dallo spirito, così è vero che il cattolicesimo allontana lo spirito dall’uomo.
Nel Proemio della Costituzione pastorale Gaudium et spes – ricorda infatti Ruini – si afferma che l’uomo, “nell’unità di corpo ed anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà, sarà il cardine di tutta la nostra esposizione” (2): vi si afferma e ribadisce, dunque, che l’uomo è costituito di corpo e anima, e non di corpo, anima e spirito (3).
Scrive ancora Ruini: “L’apporto primario dei cattolici alla democrazia, in Italia e a livello internazionale, riguarda la trascendenza del soggetto umano, la sua irriducibilità al resto della natura: essa è oggi da affermare e da “rimotivare” – in maniera non semplicemente ripetitiva del nostro pur grande passato, sia filosofico e teologico sia sociale e politico – all’interno della cultura attuale e degli interrogativi radicali che essa ha aperto” (4).
Benissimo, ma perché allora affermare e “rimotivare” la “trascendenza del soggetto umano” ripetendo quanto decretato dall’ottavo Concilio ecumenico, tenuto a Costantinopoli dal 5 ottobre 869 al 28 febbraio 870? (5)
E’ forse così che si rinnova l’umanesimo, che si evita di ridurre il cristianesimo “ad un’eredità culturale” (6) e di rinchiudersi “nella difesa e riproposizione del passato”? (7)
Se si ha davvero “una consapevolezza priva di illusioni della profondità dei processi di scristianizzazione” (8) o della “persistente distanza (…) tra la pastorale della Chiesa e la religiosità diffusa e radicata tra la gente”, che ha un “carattere piuttosto individualista” (9), cosa si aspetta allora a fronteggiare il materialismo delle scienze naturali, non più con la filosofia o con la teologia, bensì con una scienza dello spirito? Che cosa si aspetta, insomma, a contrastare la scienza sul suo stesso piano?
Cos’altro vuol dire, ad esempio, che il soggetto umano è “trascendente”, e per ciò stesso irriducibile “al resto della natura”, se non che esso è portatore, a differenza di tutte le altre creature, di uno spirito o di un Io (di un’autocoscienza)?
E che senso ha allora il rivendicare la sua “trascendenza”, disconoscendo al tempo stesso ciò che lo rende essenzialmente diverso dai minerali, dai vegetali e dagli animali?
Fatto si è che si può infirmare tale “trascendenza” sia riducendo – come fanno le scienze naturali – l’anima al corpo, sia riducendo – come fa il cattolicesimo – lo spirito all’anima.
Afferma in proposito Hegel: “Conosci te stesso, questo precetto assoluto, non ha – né preso per sé né dove lo s’incontra storicamente espresso, – il significato di una conoscenza di sé medesimo come delle proprie capacità particolari (carattere, inclinazioni e debolezze dell’individuo) ma significa invece la conoscenza di ciò che è la verità dell’uomo, della verità in sé e per sé, dell’essenza stessa in quanto spirito” (10).
Naturalmente, tale riduzione dello spirito all’anima comporta, non una negazione dello spirito, bensì una sua estraniazione o alienazione nella trascendenza, che lo rende (alla stessa stregua del “noumeno” kantiano) irraggiungibile dalla conoscenza umana.
Scrive appunto Ruini: “La Costituzione dogmatica Dei Verbum, vista in rapporto a quella del Concilio Vaticano I Dei filius, di cui riprende in parte le tematiche, mostra e conferma, da una parte, quella centralità che riveste, nella fede, nella Chiesa e in tutto il cristianesimo autentico, il fatto che Dio stesso prenda l’iniziativa di rivelarsi a noi, e al contempo la certezza della verità di questa rivelazione e la fiducia che essa, mentre supera radicalmente la ragione umana, è pienamente conforme ad ogni genuina richiesta, teorica e pratica, della ragione stessa” (11).
Ma scrive pure: “Il conoscere come tale e il suo incessante sviluppo sono di per sé un grandissimo bene dell’uomo, il segno della sua nobiltà e, come insegnava Aristotele, il desiderio insito nella sua natura” (12).
E per quale ragione, allora, non dovrebbe essere “insito nella sua natura” anche il “nobile” desiderio di conoscere Dio? (13) Tanto più che questo, in quanto Uno e Trino, si rivela non solo nelle “Persone” del Padre e del Figlio, ma anche in quella dello Spirito Santo: ovvero nella “Persona” di quello “Spirito di verità” che, in quanto appunto collegato al pensare o, per meglio dire, al conoscere, “insegnerà ogni cosa” (Gv 14,26) e “guiderà verso tutta la verità” perché non “parlerà da se stesso” (Gv 16,13).
Che cosa vuol dire che non “parlerà da se stesso”? Vuol dire che attraverso di lui parlerà il Figlio (attraverso il quale parlerà, a sua volta, il Padre), e dunque quel Dio o quello Spirito che costituisce l’essenza ultima della realtà, dal momento che “senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta” (Gv 1,3).
Di questo non “parlare da se stessi” (oggi di fatto obsoleto a causa della “sagra” delle opinioni) potrebbero costituire un esempio le seguenti parole di Schelling: “Qui dunque non è in questione, quale opinione debba assumersi del fenomeno, affinché esso, reso conforme ad una qualsivoglia filosofia, possa essere agevolmente spiegato, ma viceversa, quale filosofia si richieda, affinché cresciuta con l’oggetto, ne sia all’altezza. Non come debba essere rigirato il fenomeno, reso unilaterale, ridotto, affinché sia comunque giustificabile a partire da principi che ci siamo prefissi una volta per tutte di non travalicare, bensì: fino a che punto i nostri pensieri devono ampliarsi, per essere in rapporto col fenomeno” (14).
La conoscenza di Dio, dunque, “supera radicalmente” le capacità dell’intelletto, ma non quelle del pensiero umano.
Ma che differenza c’è tra l’intelletto e il pensiero? Che il primo non è che un modo di essere del secondo: ovvero, uno stato in cui il pensare si trova rigidamente vincolato all’organo cerebrale.
Ciò che “supera radicalmente” le capacità dell’intelletto, non è detto dunque che superi le capacità di un pensiero che, – per dirla con Schelling – cresciuto “con l’oggetto” o ampliatosi “per essere in rapporto col fenomeno”, sia in grado di portarsi al di là del suo ordinario livello rappresentativo.
Vi è oggi – scrive Ruini – “una forte tendenza a ricondurre integralmente la nostra intelligenza e libertà al funzionamento dell’organo cerebrale, dando luogo a una concezione dell’uomo puramente naturalistica, nella quale non c’è spazio per una vera diversità qualitativa del soggetto umano, per la sua trascendenza rispetto alla natura di cui pure è parte, e tanto meno per una vita al di là della morte” (15).
D’accordo, ma ci si deve limitare a contrapporre a tale riduzionismo naturalistico una fede nella “diversità qualitativa” del soggetto umano, o si può invece contrapporvi l’esperienza “qualitativamente diversa” di un pensiero che si sia immaginativamente, ispirativamente o intuitivamente svincolato dalla mediazione dei sensi e dell’organo cerebrale? (16)
E se la conoscenza di Dio trascende le capacità dell’intelletto, ossia dello spirito profano (deputato alla “cognizione sensibile”), per quale ragione dovrebbe invece trascendere quelle dello Spirito Santo: ovvero, le capacità di uno spirito che, in grazia del Figlio, si sia redento e santificato, risorgendo – al pari di Lazzaro – dalla propria e moderna tomba neurosensoriale?
Nell’Enciclica Redemptor hominis (1979), Giovanni Paolo II ha affermato che “Cristo si è unito a ogni uomo”.
Cosa dobbiamo pensare allora? Che il Cristo si è unito a “ogni uomo”, ma che lo Spirito Santo o lo “Spirito di verità” si è invece unito soltanto alla Chiesa, o che è proprio per mezzo della santificazione (spiritualizzazione) dello spirito profano (dell’intelligenza naturale) che “ogni uomo” può ritrovare il Figlio e, per mezzo del Figlio, il Padre?
Dice appunto il Cristo, del “Consolatore”: “Egli mi glorificherà, perché riceverà del mio e ve lo farà conoscere. Tutto quello che ha il Padre è mio; per questo v’ho detto che riceverà del mio e ve lo farà conoscere” (Gv 16, 14-15).
Scrive sempre Ruini: “Alla base dell’apertura del Concilio alla modernità sta senza dubbio l’assunzione, anch’essa libera e critica ma sostanzialmente positiva, della sua radice, istanza di fondo e centro propulsore, cioè della centralità del soggetto umano, ossia di quella “svolta antropologica” che ha caratterizzato lo sviluppo storico dell’Occidente almeno a partire dall’umanesimo e dal rinascimento”; e aggiunge: “Il commento più autorevole a questa posizione del Vaticano II, oltre che una sua ulteriore esplicitazione e approfondimento, è stato fornito da Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia: “Quanto più la missione della Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è, per così dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano a essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda” (17).
Una cosa, tuttavia, è aprirsi modernamente alla “modernità” (valendosi, cioè, dell’anima cosciente), altra è aprirvisi non-modernamente (valendosi, cioè, dell’anima razionale o affettiva).
Il vero problema, infatti, non è costituito tanto dai contenuti (da quello, ad esempio, della “centralità della persona”), quanto piuttosto dal punto di vista o dal livello di coscienza dai quali li si osserva e considera; e questo, se ci si vuole davvero aprire alla modernità, non può ormai essere che scientifico-spirituale.
Il teocentrismo e l’antropocentrismo, ad esempio, possono congiungersi, “in maniera organica e profonda”, soltanto nel Cristocentrismo: soltanto, cioè, in una terza e superiore realtà (“teandrica”, direbbe Soloviev) che – a differenza di quanto fanno oggi le scienze naturali – non allontani (in nome dell’immanenza) l’essere e il conoscere umani dallo spirito o dal divino, né – a differenza di quanto continua a fare il Cattolicesimo – allontani (in nome della trascendenza) lo spirito o il divino dall’essere e dal conoscere umani.
Il che pertanto significa che tutti coloro che guardano con sincera e profonda apprensione agli attuali sintomi di scristianizzazione delle anime italiane ed europee dovrebbero avere il coraggio, proprio in vista di un “nuovo umanesimo”, di ripensare, se scienziati, la propria scienza e, se religiosi, la propria fede.
Non ci si dovrà altrimenti sorprendere – ammoniva già Steiner nel 1919 – “se la lotta che ci si rifiuta di affrontare nella sfera spirituale irromperà nella vita fisica e negli uomini. Se essi non vogliono combatterla dentro di sé, nelle loro anime, la lotta si svolgerà fra uomo e uomo, fra popolo e popolo” (18).
Note:
01) C.Ruini: Nuovi segni dei tempi – Mondadori, Milano 2005, pp.80-81;
02) ibid., pp.36-37;
03) Origene (183/5 – 253/4), ad esempio, scriveva: “Come l’uomo è costituito di corpo, anima e spirito, così è anche la scrittura disposta da Dio per la salvezza dell’uomo” (J.Daniélou: Origene. Il Genio del Cristianesimo – Arkeios, Roma 1991, p.229). E una mistica francese, Paule de Mulatier (1903 – 1980), ancor oggi scrive: “Sono sempre più convinta che l’equilibrio personale di ciascuno, quello che si armonizza prima di tutto con se stesso e con tutto ciò che significa e contiene quella parola così corta e così diversa per ciascuno, “la vita”, abbia per ciascuno di noi, all’uno o all’altro piano di se stesso, un nucleo intorno al quale tutto tende a unirsi”; tale “nucleo personale si trova nello spirito, che è qualcosa di più interiore e di più unico delle facoltà molteplici dell’anima…” (C.Sanson: Maria della Trinità – Paoline, Milano 2005, p.227);
04) C.Ruini: op.cit., p.70;
05) W.Schwarz: Studi su Dante e spunti di storia del Cristianesimo – Antroposofica, Milano 1982, p.105;
06) C.Ruini: op.cit., p.15;
07) ibid., p.19;
08) ibid., p.20;
09) ibid., p.22;
10) G.W.F. Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p.371;
11) C.Ruini: op.cit., p.32;
12) ibid., p.71;
13) dice Hegel: Dio “non è il più alto dei sentimenti, ma il più alto dei pensieri” (G.W.F.Hegel: Dizionario delle idee – a cura di Nicolao Merker – Editori Riuniti, Roma 1996, p.69);
14) F.W.J.Schelling: Filosofia della mitologia – Mursia, Milano 1990, p.8;
15) C.Ruini: op.cit., p.56;
16) cfr. R.Steiner: I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977;
17) C.Ruini: op.cit., pp.40-41;
18) R.Steiner: Come ritrovare il Cristo? – Antroposofica, Milano 1988, p.160.