Rileggendo il Viaggio in Italia di Goethe, siamo rimasti colpiti dalle seguenti osservazioni relative alla figura di Filippo Neri (1515-1595): “Ciò che meravigliava in tutte queste sue attività era che vi attendesse per proprio impulso e in modo autonomo, e che per lunghi anni seguisse codesta via, pur non appartenendo ad alcun ordine o congregazione, anzi non essendo stato nemmeno consacrato sacerdote. Ma il fatto ancor più significativo è che ciò avvenisse proprio all’epoca di Lutero e che anche nel cuore di Roma un uomo alacre, timorato di Dio, energico, operoso, si preoccupasse di congiungere la religiosità, anzi la santità, con le cose del mondo, d’introdurre il senso del divino nella vita secolare, così da gettare egli pure le basi di una riforma; poiché questa soltanto è la chiave capace di schiudere le prigioni del papato e di ridare al mondo libero il suo Dio” (1).
Stavamo riflettendo su queste parole di un grande laico del passato come Goethe, quando, leggendo il giornale, ci è capitata sotto gli occhi quest’affermazione di un laico del presente come Giulio Giorello: “Se uno uccide o fa violenza è sempre in nome di un credo, di un fanatismo. Per me si può essere morali se Dio non c’è; ma, mi chiedo: si può essere morali se Dio c’è? Se Dio vuole imporre qualcosa a chi non crede? Il relativismo ammette che qualsiasi concezione possa avere un difensore pubblico; anche gli assolutisti possono averlo? No”.
Quest’affermazione è tratta dal suo ultimo libro: Di nessuna Chiesa. La libertà del Laico (Cortina, Milano 2005); libro scritto – stando a quanto riferisce Pierluigi Panza (2) – “per chiamare i laici a una controcrociata: “Laici, basta difendersi, è tempo di attaccare”, dice (Giorello – nda). Ma contro chi? “Contro l’assolutismo che è l’opposto del relativismo””.
Come si vede, essere “laici” è affare ben diverso dall’essere – come si dice oggi – “laicisti”. Goethe, da laico, vorrebbe infatti “schiudere le prigioni del papato” per “ridare al mondo libero il suo Dio”, mentre Giorello, da laicista, vorrebbe invece privare il “mondo libero del suo Dio”, lasciandolo chiuso nelle “prigioni del papato”: ovvero, l’uno ambirebbe, in nome di una moderna religiosità laica, a liberare Dio dalle Chiese (3), mentre l’altro ambirebbe, in nome di un materialismo o ateismo laicista, a liberarsi di Dio e delle Chiese.
Non si può dunque dar torto a Giorgio Israel (professore di storia delle matematiche all’Università “La Sapienza” di Roma) quando afferma che il superamento della dicotomia tra laicità e religiosità dovrebbe essere salutato “con gioia da chiunque abbia a cuore il senso di una vera, autentica laicità, quella che non ha bisogno di affermare l’autonomia dello Stato e della società civile e politica mediante l’affermazione dell’ateismo e l’irrisione della religione; quella che può avere come avversari i clericali ma non i credenti. Molti si dolgono, con sconforto, della caduta di questa dicotomia. Sono i nuovi clericali, i nuovi bigotti. Quelli che temono come la peste una religione che si occupi di anime, di etica e di morale anziché di interessi materiali, e temono come la peste una scienza che non sia strumentalizzata ad affermare un manifesto ideologico ateo e antireligioso, ma faccia parte di una visione ampia, tollerante e plurale della conoscenza e della ragione” (4).
Noi, che ci battiamo per una “scienza dello spirito” che si occupi devotamente o religiosamente di “tutto”, e non – come si augura Israel – per “una religione che si occupi di anime, di etica e di morale anziché di interessi materiali”, siamo comunque convinti – al pari di lui – che la scienza e la cultura laica vengono oggi rispettivamente mortificate più dal materialismo degli scientisti e dal pensiero “debole” o “fallibile” dei laicisti (5) che non da quello “dottrinario” o “dogmatico” dei clericali: cioè a dire, da un pensiero che passa per “forte” solo perché non si è più in grado ormai di distinguere un pensiero che rende “forte” la fede da un pensiero che, per contro, è reso “forte” (ma sarebbe più appropriato dire “rigido”) dalla fede.
Ben si capirebbe, altrimenti, che a un pensare intrinsecamente “debole”, ma estrinsecamente sorretto (spesso in modo anche fanatico) dalle forze del sentire e del volere, si dovrebbe opporre un pensare intrinsecamente “forte” (6), e non il medesimo pensiero esangue o astratto, privo, per di più, dell’apporto della fede.
Non c’è dunque da meravigliarsi che i virtuosismi logici, le acrobazie intellettuali o gli algidi e astratti sofismi dei cervelloni laicisti (spesso accompagnati, oltretutto, da alterigia e supponenza) risultino meno convincenti delle semplici “verità” cui si appoggiano i fedeli e i credenti (7).
Giudichi ad esempio il lettore: è più ragionevole sostenere – come Giorello – che “si può essere morali se Dio non c’è” o – come Joseph Ratzinger (l’attuale papa Benedetto XVI) – che ci sono “patologie della religione” così come ci sono “patologie della ragione”?
Ci sono “patologie della religione” – scrive infatti – perché “Dio, o la divinità può diventare il modo per assolutizzare il proprio potere, i propri interessi. Una immagine di Dio tanto parziale da identificare l’assolutezza di Dio con la propria comunità o i suoi interessi, e da elevare ciò che è empirico e relativo ad assoluto, non può che dissolvere diritto e morale: il bene è allora ciò che serve al proprio potere e viene meno la differenza tra bene e male. Morale e diritti diventano di parte. E questo è aggravato dal fatto che la volontà di lottare per la propria causa si carica del fanatismo dell’assoluto, di fanatismo religioso, e diventa pertanto brutale e cieca. Dio viene trasformato in un idolo nel quale l’uomo adora la propria volontà”.
Che ci siano “patologie della ragione”, – scrive poi – lo si è visto “nelle ideologie totalitarie che si erano staccate da Dio e volevano costruire l’uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler, certamente, deve essere definito un irrazionalista. Ma i grandi predicatori e realizzatori del marxismo si concepivano come costruttori del mondo a partire dalla sola ragione” (8).
E che dire, inoltre, della ingenua contrapposizione tra “assolutismo” e “relativismo”? Com’è possibile non accorgersi che si tratta di una contrapposizione, non tra due diversi livelli di realtà (quello dell’assoluto e quello del relativo), ma tra due ideologie (due “ismi”): l’una privilegiante arbitrariamente l’assoluto a scapito del relativo; l’altra privilegiante arbitrariamente il relativo a scapito dell’assoluto? E com’è possibile non accorgersi, poi, che un relativismo che non relativizzi se stesso è un “assolutismo”, e non un “relativismo”?
Riferisce sempre Panza: “Per dimostrare che la religione “deve essere relativista” Giorello muove da un passo biblico: “Lo Spirito soffia dove vuole”. Che cosa vuol dire questo? “Vuol dire che lo Spirito soffia al di sopra di qualsiasi fondamento. L’assolutismo è un peccato contro lo spirito: è ostile all’autentico pensiero cristiano, ebraico e islamico””.
Non ci vuole però molto a capire che le cose non stanno così.
Proprio perché “lo Spirito soffia dove vuole”, bisognerebbe infatti distinguere il soggetto che “soffia” dalle innumerevoli realtà attraverso le quali il suo “soffio” si articola, manifesta e rivela; non solo, ma bisognerebbe pure tener conto che lo Spirito non soffia “al di sopra di qualsiasi fondamento”, bensì è il fondamento, e “soffia”, in quanto appunto “noumeno” o “assoluto” (immanente), non “al di sopra”, bensì all’interno del “fenomeno” o del “relativo”.
“Il considerare gli oggetti con precisione e nitidezza – osserva appunto Goethe – rende più agevole l’innalzarsi all’universale” (9).
Anziché perseverare nell’opporre sterilmente il relativo all’assoluto, sarebbe perciò più proficuo impegnarsi a conciliarli (dinamicamente o viventemente) in una terza e superiore realtà.
In una realtà che viene tuttavia ignorata, proprio perché tale, sia da quei laicisti e da quei clericali che amano lo scontro sia da quelli che aspirano, più che a una spirituale coniunctio o coincidentia oppositorum, a un utile compromesso (a un gentleman’s agreement) tra i due estremi (quale s’intravvede nella “pace tra religione e ragione” auspicata da Ratzinger (10) o nel superamento “della dicotomia fra laicità e cattolicesimo” caldeggiato da Israel).
Fatto si è che quanto appare inconciliabile alla luce della statica logica analitica (che si nutre – come le iene – soltanto di cose morte), si rivela invece conciliabile alla luce della dinamica logica “speculativa” o (in termini antroposofici) “immaginativa”.
All’antitesi di “relativo” e “assoluto”, ben si attaglia, ad esempio, ciò che dice Hegel dell’antitesi di “finito” e “infinito”: “Il dualismo, che rende insuperabile l’antitesi di finito ed infinito, non fa la semplice considerazione, che per tal modo l’infinito è sol uno dei due; che con ciò vien reso un qualcosa di soltanto particolare, rispetto al quale il finito è l’altro particolare. Un tale infinito, che è soltanto un particolare, è accanto al finito; ha in questo appunto la sua barriera e il suo limite; non è ciò che deve essere; non è l’infinito, ma è solamente finito. – In tal relazione, dove il finito è da un lato, l’infinito dall’altro, il primo di qua, l’altro di là, al finito vien attribuita la stessa dignità di sussistenza e indipendenza, che si attribuisce all’infinito: l’esser del finito è fatto un essere assoluto: esso, in cotesto dualismo, sta saldo per sé (…) L’affermazione del fermo persistere del finito di fronte all’infinito crede di essere al disopra di ogni metafisica; ma, invece, sta interamente sul terreno dell’ordinaria metafisica intellettualistica” (11).
Anche l’affermazione laicista del “fermo persistere” del “relativo” di fronte all’”assoluto” si colloca dunque “sul terreno” di quella “ordinaria metafisica intellettualistica” che, promuovendo la sagra delle opinioni o dei vaniloqui (12), nutre, narcisisticamente o utilitaristicamente, l’ego.
In ogni caso, chiunque volesse realmente (non solo logicamente) conciliare gli opposti dovrebbe anzitutto impegnarsi a osservare (in se stesso) tanto l’andamento di quel processo noetico, grazie al quale il dato singolare o relativo della percezione (il percetto) si metamorfosa costantemente in quello universale o assoluto del pensiero (nel concetto), quanto l’andamento di quel processo etico, grazie al quale, all’opposto, il dato universale o assoluto del pensiero (il concetto) si metamorfosa costantemente in quello singolare o relativo della percezione (nel percetto). Di questo abbiamo però trattato altrove (13) ed eviteremo pertanto di ripeterci.
Chiunque s’impegna a superare in tal modo gli opposti, s’impegna in sostanza a superare l’ego (l’ordinaria coscienza spaziale dell’Io, e quindi la basale antitesi di io e non-io) e a muovere così verso il “Sé spirituale” (verso una superiore coscienza temporale o vivente dell’Io) (14).
Si ha la civiltà del Sé spirituale – afferma infatti Steiner – “quando nella rafforzata individualità umana vengono sentite in modo sempre più profondo le fonti della verità, e quando d’altra parte la verità più alta coincide da uomo a uomo, come le verità matematiche. Su queste ultime già oggi gli uomini sono d’accordo, perché si tratta delle verità più elementari. Ma quanto alle altre verità gli uomini disputano: non perché possano esistere due diverse opinioni giuste intorno alla stessa cosa, ma perché non si è ancora arrivati al punto di riconoscere e dominare tutti gli elementi di simpatia ed antipatia che ancora separano gli uomini l’uno dall’altro. Se per le semplici verità matematiche l’opinione personale contasse ancora qualcosa, forse qualche massaia sosterrebbe che due per due fanno cinque e non quattro! Per chi vede più a fondo nella natura delle cose, è per l’appunto impossibile disputare intorno a quell’essenza superiore delle cose stesse: non c’è altra possibilità che quella di evolversi fino a riconoscerla. In questo caso, la verità scoperta dall’uno coincide esattamente con quella scoperta da un altro, e allora non si disputa più” (15).
Note:
01) J.W.Goethe: Viaggio in Italia – Mondadori, Milano 1993, p.363;
02) Corriere della Sera, 24 giugno 2005;
03) anche per Steiner, le “religioni” dovrebbero essere “soltanto comunità di anime e non organizzate esteriormente” (R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, p.219);
04) Il Foglio, 15 giugno 2005;
05) per gli odierni seguaci del pensiero “debole” o “fallibile”, potrebbe valere quanto disse Goethe di certi poeti del suo tempo: “La presente generazione si spaventa davanti a ogni schietta energia; e si compiace soltanto della debolezza, e ci trova il senso poetico. Io ho inventato una buona parola, per scandalizzare questi signori. Voglio chiamare la loro poesia poesia di lazzaretto” (G.P.Eckermann: Colloqui col Goethe – Laterza, Bari 1912, vol.I, p.266);
06) scrive ad esempio Goethe: “Chiunque abbia direttamente sperimentato cosa significhi un pensiero ricco di contenuto (…) non potrà negare ch’esso arrechi al nostro spirito un’intensa commozione, e che il presentire a grandi linee i suoi possibili futuri sviluppi, e le conclusioni cui questi daranno luogo, ci riempia d’entusiasmo” (J.W.Goethe: op.cit., p.418);
07) ne ha dato ultimamente prova l’esito del referendum sulla “procreazione assistita” – cfr., in particolare: Uomini e non-uomini, 13 dicembre 2004; Uomo “in potenza” e uomo “in atto” , 29 maggio 2005; la “noterella” del 12 giugno 2005 e quella del 4 luglio 2005 (riguardante lo stesso Giorello). Quanto sia fragile, e per ciò stesso “tremebonda”, la posizione degli odierni laici o laicisti potrebbe dimostrarlo anche il fatto che la recente “uscita del compendio del catechismo della Chiesa cattolica promossa da Benedetto XVI ha fomentato – stando a quanto riferisce Pierluigi Battista – una psicosi da accerchiamento che equipara un libro – niente più di uno strumento di divulgazione dottrinaria – a un atto aggressivo di intromissione vaticana nelle cose italiane” (Corriere della Sera, 2 luglio 2005);
08) J.Ratzinger: Europa – San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004, pp.82-83;
09) J.W.Goethe: op.cit., p.192; per lui, infatti, “l’universale e il particolare coincidono”, in quanto “il particolare è l’universale che si manifesta in condizioni diverse” (J.W.Goethe: Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p.136);
10) J.Ratzinger: op.cit., p.82;
11) G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p.111;
12) cfr. Parole, parole, parole…, 18 ottobre 2003;
13) cfr. Del “moto pendolare vivente” , 1 marzo 2003;
14) sarà opportuno ricordare, a scanso di equivoci, le seguenti affermazioni di Steiner: “L’antroposofia non intende promettere di risolvere tutti gli enigmi della vita. Per il suo carattere vorrebbe comunque essere in grado di servire la vita (…) Essa intende servire la vita, ma questa non può essere servita che dalla vita stessa” (R.Steiner: Cultura e antroposofia – Antroposofica, Milano 1996, p.28);
15) R.Steiner: Il Vangelo di Giovanni – Antroposofica, Milano 1995, p.159.