Avvertenza
L’amico Roberto Marcelli, cui già dobbiamo la trascrizione del corso di studio su La filosofia della libertà pubblicato in questo sito, ci ha ora gentilmente inviato quella di un altro corso, tenuto sempre da Lucio Russo (dal settembre 2000 al novembre 2001), su Le opere scientifiche di Goethe di Rudolf Steiner (Melita, Genova 1988).
Si tratta di cinquantadue incontri che, augurandoci di fare cosa gradita agli amici del nostro sito, c’impegneremo a pubblicare uno alla volta, dopo averli (con l’aiuto dell’autore) opportunamente rielaborati.
Data la natura e la mole dell’impegno, non ci sarà tuttavia possibile, nel frattempo, mantenere invariata l’abituale periodicità degli articoli e delle noterelle dell’”Osservatorio”.
Fidiamo, per questo, nella comprensione dei nostri lettori.
Le opere scientifiche di Goethe (1)
Cominciamo col dire che questo non è un libro scritto da Steiner, né uno di quelli in cui si trovano pubblicate le sue conferenze. I diciassette capitoli che lo compongono altro non sono, infatti, che le sue introduzioni ad altrettanti scritti scientifici di Goethe.
Steiner si occupò di questi scritti in due diverse occasioni: una prima volta, a ventiquattro anni (1885), allorché, in occasione della pubblicazione dell’Opera Omnia di Goethe (da parte della “Kürschner Deutsche National-Literatur”), gli venne affidato l’incarico di curarne la parte scientifica e, una seconda volta, cinque anni dopo, quando fu chiamato ad assolvere il medesimo compito (a Weimar) per quella edizione della stessa Opera nota come “l’edizione della granduchessa Sofia”.
Ma perché, a così breve distanza di tempo, se ne fece un’altra edizione? Perché il nipote di Goethe, morto nel frattempo, aveva lasciato in eredità alla granduchessa Sofia di Sassonia-Weimar diversi scritti inediti del nonno. Parve perciò opportuno ampliare l’Opera Omnia, inserendovi i nuovi materiali.
Goethe, in effetti, non aveva dato un ordine sistematico al suo lavoro scientifico, durato quasi cinquant’anni e redatto, per lo più, in forma di articoli, note, schemi, appunti e frammenti (fatta naturalmente eccezione per la Teoria dei colori e per La metamorfosi delle piante). Sono stati spesso i suoi amici a spronarlo a dare ai suoi scritti una forma che ne permettesse la pubblicazione.
Steiner, allorché gliene venne affidata la cura, raccolse, ordinò e pubblicò tali lavori, facendoli precedere da introduzioni più o meno lunghe e corpose.
Queste sono state poi estolte dall’Opera Omnia di Goethe per essere raccolte e pubblicate in questo volume, intitolato appunto: Le opere scientifiche di Goethe.
Ci occuperemo dunque di un libro in cui si tratterà di geologia, di meteorologia, di botanica, di zoologia, di osteologia, di colori, ecc…
Diversi saranno quindi gli argomenti, ma uno solo, al contrario, sarà il modo in cui Goethe li affronta; e il “come”, ovvero il modo in cui appunto li affronta, sarà per noi più importante del “cosa”. Dirà giusto Steiner: “Quello che conta non è tanto ciò di cui Goethe si è occupato, quanto il modo in cui se ne è occupato”.
Varia è dunque la materia, ma non lo spirito che l’osserva. Goethe, amando profondamente la vita, la realtà empirica, le cose e i fenomeni, è in effetti riuscito a tradurre il suo amore in conoscenza: è riuscito cioè a conoscere perché ha amato ed è riuscito ad amare perché ha conosciuto.
“Se procedere vuoi nell’infinito – afferma ad esempio – muoviti in tutti i sensi nel finito”. Leggendo i suoi scritti, subito si rileva con quanto scrupolo, con quanta cautela, con quanto rispetto, se non addirittura devozione, Goethe vada alla ricerca dell’oggettiva realtà del fenomeno, e quanto sia grande e costante il suo timore di lasciarsi andare a giudizi affrettati.
Egli non voleva prevaricare la realtà, bensì permetterle di rivelarsi, di parlargli, di ispirarlo. Chi è incapace di assumere un atteggiamento altrettanto umile e devoto (vale a dire, “scientifico”) finisce infatti, volente o nolente, col mettere la realtà al proprio servizio: ossia al servizio delle sue personali opinioni, delle sue soggettive interpretazioni, di ciò che insomma serve a lui, e non al mondo.
Ancora una cosa.
Vedete questo piccolo manuale di botanica? Ebbene apritelo e vedrete che comincia illustrando, non le piante, bensì la cellula vegetale (ossia, il citoplasma, il nucleo e la parete cellulare), e che solo verso la fine prende a parlare delle “piante a semi” (delle “spermatofite”).
Non muove dunque dalla pianta, ossia dall’insieme, per arrivare alle parti, bensì muove dalle parti per arrivare alla pianta; e questo, perché si è oggi convinti che l’insieme si formi accidentalmente, in virtù del casuale assemblarsi delle parti: ovvero, delle molecole, degli atomi o delle particelle elementari.
Ma questo presupposto, o per meglio dire pregiudizio, è assolutamente estraneo a Goethe. Da buon “fenomenologo” egli non muoveva infatti, filosoficamente, né dall’atomismo né dall’olismo, bensì soltanto da ciò che gli presentavano direttamente i sensi.
Prima d’intraprendere la lettura, sarà anche opportuno ricordare che Steiner, tra il 1885, anno in cui cominciò il suo primo lavoro alle opere scientifiche di Goethe, e il 1897, anno in cui terminò il secondo, pubblicò Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo (1885), Verità e scienza (1891) e La filosofia della libertà (1894): ovvero, tre dei suoi lavori fondamentali (cui seguirono Friedrich Nietzsche, lottatore contro il suo tempo, nel 1895, e La concezione goethiana del mondo, nel 1897).
Cominciamo dunque a leggere l’introduzione.
“Il 18 agosto del 1787, Goethe scriveva dall’Italia a Knebel: “Dopo quanto ho veduto di piante e di pesci, presso Napoli e in Sicilia, sarei molto tentato, se fossi più giovane di dieci anni, di fare un viaggio in India, non già per scoprire cose nuove, ma per contemplare a modo mio quelle già scoperte”. In queste parole è indicato il punto di vista dal quale dobbiamo considerare le opere scientifiche di Goethe. Nel caso suo non si tratta mai della scoperta di fatti nuovi, ma dell’adozione d’un nuovo punto di vista, di un determinato modo di osservare la natura. E’ vero che Goethe ha fatto una serie di importanti scoperte singole, come quella dell’osso intermascellare e della teoria vertebrale del cranio, nell’osteologia, e, nel campo della botanica, quella dell’identità di tutti gli organi della pianta con la foglia caulinaria; ecc. Ma come soffio animatore di questi particolari, dobbiamo considerare una grandiosa concezione della natura, dalla quale essi sono tutti sorretti; e sopra tutto dobbiamo vedere nella teoria degli organismi una scoperta grandiosa, tale da mettere in ombra tutto il resto: quella dell’essenza dell’organismo stesso. Goethe ha esposto il principio per il quale un organismo è ciò ch’esso di sé ci manifesta, la causa di cui i fenomeni della vita ci appaiono la conseguenza, e tutte le questioni di principio che a tale proposito dobbiamo sollevare” (p.1).
Quello che Steiner chiama qui un “nuovo punto di vista” è in realtà un diverso e superiore grado di coscienza. Un grado di coscienza che viveva in Goethe, ma del quale Goethe stesso non fu da principio consapevole; lo divenne soltanto più tardi quando prese a collaborare e a scambiare le proprie idee con Schiller.
In merito ai “punti di vista”, potremmo ricordare le cosiddette “figure ambigue” (benché competano al solo piano fisico). Ad esempio quella, arcinota, che rappresenta, insieme, un vaso e due volti di profilo. Qualcuno, osservandola, potrebbe dire: “Vedo il vaso, ma non i volti”. Cosa potremmo fare allora? Potremmo aiutarlo a cambiare il “punto di vista” additandogli le linee della fronte, del naso o del mento, così da consentirgli a un certo punto di esclamare: “Ah, ecco, adesso li vedo!”.
I volti si trovavano dunque lì, insieme al vaso, ma costui non era inizialmente in grado di vederli così come noi non siamo inizialmente in grado di vedere, insieme al loro corpo fisico, il corpo eterico (vivente) delle piante, il corpo eterico e il corpo astrale (animico) degli animali e il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io (spirituale) degli esseri umani.
Anche noi – è vero – potremmo farci aiutare (ad aprire gli occhi spirituali), ma preferiamo solitamente e pigramente attenerci a ciò che vediamo (con gli occhi fisici), negando tutto il resto.
Considerate, tanto per dirne una, il cosiddetto “geotropismo” vegetale. Secondo i botanici, sarebbe un geotropismo “negativo” a indirizzare le radici della pianta verso il centro della terra, e sarebbe invece un geotropismo “positivo” a indirizzarne lo stelo verso il cielo.
Fenomeni del genere potrebbero però dirci ben altro, non solo sulla natura delle forze che formano le radici e lo stelo nella pianta, ma anche su quelle che, nell’essere umano, vi corrispondono; o basta forse pensare al geotropismo “positivo” per spiegare la stazione eretta? Lo stesso potrebbe dirsi, a maggior ragione, per il colore e il profumo dei fiori. Le piante, infatti, ci parlano e ci rivelano la loro essenza attraverso le loro forze e le loro qualità.
L’odierna scienza materialistica ha però sancito che, essendo le forze grandezze fisiche e i colori e i profumi sensazioni umane, non c’è alcuna realtà che parla o si rivela all’uomo, ma c’è soltanto l’uomo che parla e si rivela a sé stesso.
Come si sa, è stato Kant a conferire dignità filosofica o gnoseologica a questo punto di vista. E’ stato lui, infatti, a distinguere il “fenomeno” dal “noumeno” e ad affermare che la coscienza umana non potrà mai afferrare il secondo. Kant era dunque convinto che il fenomeno è un limite o una barriera, poiché nasconde od occulta il noumeno, e non, come Goethe, che il fenomeno manifesta il noumeno o che “un organismo è ciò ch’esso di sé ci manifesta”.
Risposta a una domanda
Il fenomeno è quello che si percepisce sensibilmente: ovvero, l’immagine percettiva. Per Kant, questa non è che una rappresentazione soggettiva.
Ma torniamo alle cosiddette “figure ambigue”. Quando riusciamo a vedere ciò che prima non vedevamo, può capitarci di dire: “Ma com’è che non l’ho visto prima?”. Ebbene, potremmo dire la stessa cosa anche al dischiudersi di quell’occhio spirituale che, al di là delle sostanze sensibili, ci permette di percepire la vita extrasensibile (le forze o i processi eterici).
Vedete, quello che Steiner denomina “corpo eterico” lo si potrebbe anche denominare “corpo funzionale”. Ma cosa fa il materialismo? Identifica ingenuamente il corpo anatomico (fisico) con quello funzionale (eterico) e perciò immagina che le funzioni siano svolte dagli organi, e non che si svolgano negli organi, come si rende peraltro evidente nelle cosiddette alterazioni funzionali (cui non corrispondono quelle organiche), ma soprattutto nel fatto che, al momento della morte, pur essendo ancora presenti gli organi, viene meno la loro funzione (in quanto il corpo eterico si separa da quello fisico).
Mi avete sentito già dire, d’altro canto, che il materialismo è l’immaginazione di quelli che non hanno immaginazione: ovvero, di quelli che, di tutto quanto sarebbe possibile vedere e capire, vedono e capiscono una cosa sola.
Immaginate ad esempio una persona che, avendo gli occhi chiusi, non veda niente. Ebbene, basterà che li socchiuda per cominciare a intravvedere, seppure nebulosamente, che, al di là del buio, esiste qualcosa. Non saprà ancora distinguere quel che c’è, ma possiamo star sicuri che da quel momento in poi non presterà più fede a chi tenterà di convincerlo che oltre il buio (la materia) non c’è niente.
Non appena si dischiude in noi un altro modo di vedere, cioè a dire un altro livello di coscienza, il mondo infatti si arricchisce, poiché prende vita, spessore e significato. E’ dunque la nostra mente, o la nostra coscienza ordinaria, e non il mondo o la vita, a essere misera e deludente (o, come talvolta si dice, non certo elegantemente, una “fregatura”).
Ecco il perché Steiner si è occupato così a fondo delle opere scientifiche di Goethe. Nell’autore del Faust ha appunto scoperto un uomo che, animato da puro spirito scientifico, si è mostrato capace di osservare i fenomeni della natura in modo nuovo e inconsueto. In modo diverso, ad esempio, da come li aveva osservati Linneo, in campo botanico.
“Prima di lui, – osserva infatti Steiner – la scienza naturale non conosceva l’essenza dei fenomeni della vita e studiava gli organismi semplicemente secondo la composizione delle parti e i caratteri esteriori, come si studiano anche gli oggetti inorganici: perciò spesso era indotta a interpretare i particolari erroneamente, e a collocarli in una luce falsa. Naturalmente, dai particolari come tali, un simile errore non è rilevabile; lo riconosciamo soltanto quando comprendiamo l’organismo; poiché i particolari, considerati isolatamente, non portano in sé il loro principio esplicativo. Solo la natura dell’insieme li spiega, poiché è l’insieme che dà loro essenza e significato” (p.2).
Probabilmente ricorderete che in Friuli, nel 1976, ci fu un tremendo terremoto che, tra i tanti e gravissimi danni, rase al suolo anche Venzone, distruggendo, oltre le case, il suo bellissimo Duomo. Ebbene, come hanno agito gli addetti alla sua ricostruzione? Hanno adottato un metodo, detto “anastilosi”, consistente nella ricollocazione in opera delle parti originali recuperate in prossimità dell’edificio crollato: ovvero, hanno raccolto e numerato a uno a uno tutti i pezzi ritrovati, e poi, sulla base di precedenti fotografie, li hanno rimessi insieme, rimontando così il Duomo.
Immaginiamo, però, che ci fossero stati i pezzi ma non le fotografie dell’edificio prima del crollo. Con quale criterio li si sarebbe allora assemblati? Tizio li avrebbe potuti rimontare in un modo, e avremmo avuto un Duomo; Caio li avrebbe potuti rimontare in un altro, e avremmo avuto un altro Duomo; e Sempronio avrebbe potuto fare altrettanto. Il che sta a significare che, in assenza di una oggettiva visione dell’insieme, sarebbe stato possibile ricostruire tanti Duomi quante erano le possibili combinazioni tra i pezzi.
“I particolari considerati isolatamente – dice Steiner – non portano in sé il principio esplicativo”. Nel nostro esempio, infatti, i pezzi che giacciono in terra non portano in sé il principio esplicativo; lo porta invece la fotografia: vale a dire, la visione dell’insieme.
Una cosa sono dunque i particolari, altra la relazione tra i particolari. Ma che cos’è la relazione tra i particolari?
Pensate a un’automobile. E’ impossibile toccarla con la mano perché con la mano si possono toccare unicamente la carrozzeria, i sedili, il volante o il motore: ossia, i suoi singoli componenti. Ma l’automobile che non si può toccare esiste o non esiste? Per i nominalisti non esiste, poiché la considerano soltanto un nome; per i realisti invece esiste, ed è un’idea: un’idea che si manifesta appunto (o si “svolge”, direbbe Hegel) quale relazione tra le parti.
Negli organismi, il livello di questa relazione tra le parti non è ancora quello dell’idea in sé, ma quello al quale è possibile coglierne la manifestazione vivente o eterica. Negli organismi, la sostanza della relazione è dunque vita, tempo o movimento, mentre l’essenza della relazione è concetto, idea o, come preferisce dire Goethe, “tipo”.
Risposta a una domanda
Pensi ad esempio alla gravità. L’esistenza della gravità non dipende dall’uomo, ma l’esistenza della legge di gravità sì. Senza l’uomo, mai verrebbe infatti a coscienza la relazione o la legge operante oggettivamente nel fenomeno. Consideri, inoltre, che è la legge di gravità, sul piano della realtà qualitativa, a governare la forza di gravità, sul piano della realtà energetica o dinamica.
La relazione non basta però pensarla (astrattamente), occorre pure percepirla. Anche se molti sembrano non volerlo capire, si deve sempre ricordare che l’antroposofia è una scienza, e non una filosofia, dello spirito. E perché lo è? Perché il suo obiettivo è la diretta percezione o esperienza dell’essenza dello spirito (che Steiner chiama, nelle Massime antroposofiche, “Entità divino-spirituale”) e dei diversi gradi della sua manifestazione (che Steiner chiama, sempre nelle Massime, “manifestazione”, “effetto operante” e “opera compiuta”).
Far diventare reale dinanzi ai nostri occhi la relazione (il pensare) vuol dire dunque fare il primo passo del cammino che conduce prima alla realtà dell’idea e poi a quella dell’Io.
E’ difficile d’altro canto immaginare che una relazione reale (percepita) possa essere manifestazione di un’idea irreale.
Come abbiamo detto (ma come vedremo meglio in seguito), Goethe chiama il concetto o l’idea “tipo”: tipo che, quale insieme, è presente e vive in tutte le parti.
Questa è la differenza tra la realtà inorganica e quella organica: nella prima, l’idea è presente nella relazione tra le parti, ma non nelle parti (in quanto il corpo eterico non compenetra il corpo fisico); nella seconda, l’idea vive invece tanto nella relazione tra le parti quanto nelle parti (poiché il corpo eterico compenetra il corpo fisico). Ecco perché non è possibile aggiungere o sottrarre a un organismo una parte senza alterare il tutto o l’insieme.
Abbiamo menzionato prima Linneo, il fondatore della moderna botanica sistematica. A lui va infatti il merito di aver operato una drastica riforma della nomenclatura (varando la “nomenclatura binomia”, tuttora in uso) e di aver classificato e ordinato le piante in base alla struttura dei loro apparati riproduttivi e in funzione di cinque precisi criteri: il genere, la specie, la famiglia, l’ordine e la varietà. Procedendo in questo modo, egli ha dato vita a un sistema che permette di distinguere chiaramente una pianta dall’altra.
Linneo ha dunque agito in modo analitico, mentre Goethe, forte di questo precedente, ha agito in modo sintetico (“soltanto colui che sa dividere – asseriva infatti – può unire”).
Sapete che, dal punto di vista psicologico, i caratteri astenici (o nevrastenici) propendono per l’analisi, mentre quelli stenici (o isterici) propendono per la sintesi. Ma la vera conoscenza – che proprio per questo può essere solo una conquista – la si ottiene soltanto ove si superino le limitazioni o le unilateralità della natura personale. Solo l’Io, infatti, è in grado di realizzare un corretto e dinamico equilibrio tra il processo dell’analisi e quello della sintesi.
In realtà, il rapporto tra questi due processi dovrebbe essere regolato da un ritmo analogo a quello che governa, ad esempio, l’inspirazione e l’espirazione o la diastole e la sistole. Quando tale ritmo viene alterato nella direzione dell’analisi si ha infatti il meccanicismo; quando viene alterato nella direzione della sintesi si ha invece il misticismo.
Scrive Steiner: “L’elemento più significativo della metamorfosi delle piante non è, ad esempio, la scoperta del singolo fatto che foglia, calice, corolla, ecc. siano organi identici, bensì la grandiosa costruzione di pensiero che ne scaturisce, di un vivente complesso di leggi formative interagenti, il quale per forza propria determina i particolari, le singole tappe dello sviluppo. La grandezza di questo pensiero, che Goethe cercò più tardi di estendere anche al mondo animale, ci si palesa soltanto se cerchiamo di farlo vivere in noi, se intraprendiamo di pensarlo noi stessi. Ci accorgiamo allora ch’esso è la natura della pianta stessa, tradotta in idea, la quale vive nel nostro spirito come vive nell’oggetto” (p.3).
Dunque, la pianta come idea (come entità) e l’idea come pianta (come vita dell’entità) .
Ma l’idea può darsi anche come minerale. Esistono, infatti, diversi piani di manifestazione dell’idea. Su quello vegetale essa vive, si sviluppa e si riproduce; su quello minerale si dà invece in forma fissa o stabile, così come in forma fissa o stabile (“chiara” e “distinta”, direbbe Cartesio) si danno, in noi, le rappresentazioni.
Se le rappresentazioni, in noi, corrispondono a dei precipitati o a dei calcoli, che cosa corrisponde invece al vegetale o, per meglio dire, al vegetare? E’ presto detto: quella vita o quel movimento del pensare che sempre tesse, in noi, le relazioni tra i pensati.
Come si vede, grazie al punto di vista di Goethe e di Steiner, possiamo cominciare a ricucire il rapporto tra l’uomo e il mondo; possiamo cominciare a capire, cioè, perché, conoscendo davvero il mondo, conosciamo davvero noi stessi e, conoscendo davvero noi stessi, conosciamo davvero il mondo.
Quanto si presenta incarnato, vivente e animato fuori di noi, quale natura, non solo infatti è presente in noi, ma, grazie a noi, può prendere coscienza di sé.
Roma, 5 settembre 2000