Le opere scientifiche di Goethe (2)

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Goethe nacque a Francoforte il 28 agosto del 1749; dal 1765 al 1768, frequentò l’Università di Lipsia, dove coltivò, accanto agli studi di diritto, interessi artistici e letterari. Dopo un’interruzione dovuta a una grave malattia, riprese i suoi studi a Strasburgo, dove lo attrassero, più che i corsi di legge, quelli di medicina e di scienze naturali. Ottenne il titolo di dottore in legge nel 1771 e, tornato a Francoforte, esercitò, con l’aiuto dal padre, l’avvocatura. Nel 1775, il granduca Carlo Augusto (1757-1828) lo invitò come consigliere a Weimar, dove rivestì, in seguito, incarichi sempre più importanti (anche di ministro).
Osserva in proposito Steiner, all’inizio del primo capitolo, intitolato: La genesi della dottrina della metamorfosi: “Si ritiene generalmente posteriore al suo arrivo a Weimar l’inizio del pensiero scientifico di Goethe. Eppure bisogna risalire ancora più indietro, se non si vuole lasciare inesplicato tutto lo spirito delle sue concezioni: poiché già nella primissima giovinezza si mostra la potenza vivificatrice che guidò i suoi studi nella direzione che andremo esponendo. Quando Goethe giunse all’Università di Lipsia, vi regnava ancora negli studi naturali quello spirito, caratteristico d’una gran parte del secolo XVIII, che scindeva tutta la scienza in due estremi, e non sentiva affatto il bisogno di conciliarli. Da un lato stava la filosofia di Christian Wolf (1679-1754), che si muoveva in una sfera del tutto astratta; dall’altro, i singoli rami della scienza, che si perdevano nella descrizione esteriore di infiniti particolari, mentre mancava loro assolutamente l’aspirazione a cercare nel mondo dei loro oggetti un principio superiore. Quella filosofia non riusciva a trovare il passaggio dalla sfera dei suoi concetti generali, al regno della realtà immediata, dell’esistenza individuale. Vi si trattavano con la massima meticolosità le cose più ovvie; vi si insegnava che la cosa è un quid non avente in sé contraddizione, che esistono sostanze finite e sostanze infinite, ecc.. Ma quando con tali affermazioni generiche ci si accostava alle cose stesse, per comprenderne l’azione e la vita, non si sapeva dove cominciare, e non si riusciva ad applicare quei concetti al mondo nel quale viviamo e che vogliamo comprendere. Quanto alle cose stesse, venivano descritte in modo alquanto arbitrario, senza principi, solamente secondo l’apparenza e le caratteristiche esterne. Stavano allora di fronte senza possibilità di conciliazione una dottrina dei principi, alla quale faceva difetto il contenuto vivente, l’amorevole adesione alla realtà immediata, e una scienza senza principi, priva di contenuto ideale: ciascuna era infeconda per l’altra” (pp. 5-6).

Dobbiamo purtroppo riconoscere che quanto era vero ieri è vero ancor oggi. La filosofia, quale “dottrina dei principi”, continua a essere infeconda per la scienza, così come la scienza “senza principi” continua a essere infeconda per la filosofia; e quando non è così, quando la filosofia e la scienza riescono cioè a fecondarsi l’un l’altra, le cose vanno ancor peggio, poiché i loro connubi non hanno dato finora alla luce che una scienza che “non aderisce più alla realtà immediata” e una filosofia “senza principi, priva di contenuto ideale”.
Sta di fatto che, senza il soccorso dell’antroposofia, non si riuscirà mai a conciliare la filosofia con la scienza o, più in generale, la cultura umanistica con quella scientifica.
Considerate, ad esempio, La filosofia della libertà: come recita il suo sottotitolo? “Risultati di osservazione animica secondo il metodo delle scienze naturali”.
“Tale motto – spiega Steiner – era soprattutto diretto contro l’indirizzo di una concezione del mondo che io, fino ad un certo grado, stimavo moltissimo: contro la concezione di Eduard von Hartmann, la cui Filosofia dell’incosciente portava il motto: “Risultati speculativi secondo il metodo induttivo delle scienze naturali”. “Risultati speculativi”, ecco qualcosa che mi sembrava sostanzialmente contraddire il vero e proprio significato di una reale conoscenza spirituale ed umana; infatti, con risultati speculativi, con contenuti di pensiero speculativi, si può soltanto comprendere ciò che risulta se, mediante una logica astratta, da quanto si percepisce si deduce qualcosa di non percepibile, se cioè, mediante delle deduzioni, si perviene a qualcosa di sconosciuto che può essere raggiunto appunto solo mediante delle deduzioni di pensiero, non mediante la percezione. Contro tutto questo modo di pensare dovetti far presente che sempre ciò che per gli uomini deve essere in ogni direzione conoscenza e contenuto di vita, in una maniera qualsiasi dovrebbe anche entrare in via immediata nell’osservazione, nella percezione. Proprio come fenomeni esteriori scientifici si pongono dinanzi alla coscienza e possono venire osservati, così anche contenuti animici spirituali devono porsi dinanzi alla coscienza ed essere di conseguenza accessibili all’osservazione” (Le basi conoscitive e i frutti dell’antroposofia – Antroposofica, Milano 1968, pp. 40-41).
Da qui, dunque, la necessità di elaborare una scienza dell’anima e dello spirito quale “metamorfosi ascendente” della scienza della natura, prendendo le mosse da quest’ultima così come era stata impostata e sviluppata (in parte) da Goethe.
Non ci vuol molto a constatare, d’altronde, come la conoscenza filosofica tenda a privilegiare il concetto (il contenuto del pensiero) a danno del percetto (del contenuto della percezione), e come quella scientifica tenda di contro a privilegiare il percetto a danno del concetto.
Il filosofo finisce così col perdere il contatto con la realtà sensibile, mentre lo scienziato finisce col perdere quello con la realtà spirituale. Nessuno, infatti, è mai diventato più saggio per il solo fatto di aver osservato o percepito più cose (sosteneva appunto Michail Lèrmontov (1814-1841) che con due occhi si può diventare un superuomo, mentre con un centinaio di occhi si può rimanere una mosca).
La filosofia dovrebbe quindi imparare a sporcarsi le mani con la percezione e la scienza a pulirsele col pensiero. Ai dati forniti da strumenti d’indagine sempre più evoluti e raffinati, la scienza attuale porta infatti incontro un pensiero a tal punto ingenuo, piatto e grossolano che si fatica a credere che sia esistito, un tempo, un Kant, un Fichte, uno Schelling, un Hegel o, per rimanere in Italia, un Croce o un Gentile.
Ma torniamo a Linneo.

“Linneo – scrive Steiner – aveva mirato a portare una chiarezza sistematica nella conoscenza delle piante. Si trattava di trovare un certo ordine, entro il quale ogni organismo avesse un posto determinato, sì da poterlo sempre facilmente identificare e, più generalmente, da avere un mezzo di orientamento nella sconfinata congerie dei particolari. A tale scopo gli esseri viventi dovevano venire esaminati e raggruppati secondo i gradi della loro affinità. Trattandosi essenzialmente di riconoscere ogni singola pianta, per ritrovare facilmente il suo posto nel sistema, bisognava sopra tutto tener conto delle caratteristiche che distinguono le piante tra loro; quindi, per rendere impossibile la confusione tra una pianta e l’altra, si mettevano in evidenza soprattutto i caratteri distintivi (…) Così le piante risultavano bensì disposte in un ordine, ma in un modo che si sarebbe potuto applicare anche a corpi inorganici: secondo caratteri ricavati dall’esperienza esteriore, non dalla natura intima della pianta. Tali caratteri si mostravano in una contiguità esteriore, senza un intimo nesso necessario” (pp. 11-12).

In effetti, come possiamo distinguere, in una pianta, le radici, il fusto, la foglia, il fiore o il frutto, così possiamo distinguere, in un motore, la biella, il pistone, le valvole o le candele. Da un punto di vista esteriore, tanto un organismo quanto un aggregato hanno delle parti. Non può perciò stare in questo la loro differenza. E in che cosa allora? Sta, come abbiamo detto la volta scorsa, nel carattere della relazione che vige tra le parti. Nella macchina, infatti, le parti sono messe tra loro in relazione dall’uomo, ossia da un fattore esterno, mentre, nella pianta, le parti sono messe tra loro in relazione dalla pianta stessa, ossia da un fattore interno.

Osserva appunto Steiner: “Nell’organismo si deve tener d’occhio anzi tutto il fatto che in esso la manifestazione esteriore è dominata da un principio interiore, e che in ogni organo agisce il tutto” (p. 6).

E che cos’è il “tutto” che agisce in ogni organo? L’abbiamo detto: è il tipo, l’idea o la specie.
E’ importante tenerlo presente se non si vuole essere indotti, parlando del “tutto”, in qualche tentazione mistica.

L’idea di un “principio” che “compenetra tutti i particolari” – nota giusto Steiner – “non viene subito applicata a un singolo organismo (…) Ma questo modo quasi mistico di contemplare il mondo rappresenta solo un episodio passeggero nell’evoluzione di Goethe, e cede presto il campo a una concezione più sana e obiettiva” (p. 8).

Prima di scoprire l’uno (il singolare) nel tutto (nell’universale), sarebbe pertanto prudente ricercare il tutto nell’uno: ovvero, l’idea nella singola cosa. Il vero problema, infatti, sta nell’afferrare l’idea nella cosa e la cosa nell’idea.
Ascoltate, al riguardo, questi versi del poeta russo Fёdor Ivànovič Tjutčev (1803-1873):

Non è quello che voi pensate la natura,
Non è un calco, non è un volto senz’anima:
In essa c’è l’anima, in essa c’è la libertà
In essa c’è l’amore, in essa c’è la favella.

Riflettete. Le cose stanno di fronte agli occhi di ciascuno: c’è però chi ci vede il tutto (l’idea o la specie) e chi il niente. Vedervi il tutto o il niente non dipende dunque dalle cose, ma da noi; e si può esser certi che chi vede il tutto in sé (l’Io), lo vede pure nelle cose (quale appunto idea o specie), e che chi non lo vede in sé, non lo vede neppure nelle cose.
Ricordate ciò che dice lo Spirito della Terra a Faust? “Tu somigli allo spirito che comprendi, non a me!”.
E Tjutčev canta ancora:

Essi non vedono e non sentono,
Vivono in questo mondo, come nelle tenebre
Non aspirano a conoscere il sole,
E non c’è vita nelle onde del mare;
I raggi non sono scesi nella loro anima,
La primavera nei loro petti non è fiorita,
Davanti a loro i boschi non hanno parlato,
E la notte era muta di stelle;
E con lingue non terrestri
Agitando fiumi e boschi
Nella notte non conferiva con loro
In un colloquio amorevole il temporale…

Paul-Henri Holbach (1723-1789), ad esempio, non vedendo in sé l’Io (l’idea dell’uomo nell’uomo), non vedeva l’idea delle cose nelle cose.

Scrive al riguardo Steiner: “Mentre simili concezioni definite si sviluppavano nello spirito di Goethe, a Strasburgo gli capitò tra le mani un libro nel quale era propugnata una concezione del mondo esattamente opposta alla sua: il Système de la nature di Holbach. Se fino allora Goethe aveva trovato da criticare solamente il fatto che si descrivesse il vivente come un agglomerato meccanico di singole cose, ora in Holbach gli apparve un filosofo che considerava realmente il vivente come un meccanismo. Ciò che là nasceva solo dall’incapacità di conoscere la vita alla sua radice, qui conduceva a un dogma che uccideva la vita stessa. Goethe così ne parla in Poesia e Verità: “Una materia dovrebbe esistere dall’eternità, e dall’eternità essere in moto, e con tale moto dovrebbe senz’altro produrre, a destra, a sinistra e in ogni direzione, gli infiniti fenomeni dell’esistenza? Avremmo magari anche potuto accettare tutto ciò, se dalla sua materia in movimento l’autore avesse realmente fatto sorgere il mondo davanti ai nostri occhi. Ma della natura egli ne sa quanto noi: chè, dopo aver piantati là alcuni concetti generali, li abbandona subito, per trasformare ciò ch’è superiore alla natura, (o che perlomeno appare, quale natura superiore, nella natura), in una natura materiale, pesante, in movimento, sì, ma senza direzione, né forma: e con ciò crede di aver fatto un gran passo”” (p. 9).

“Ciò che là nasceva solo dall’incapacità di conoscere la vita alla sua radice, – dice Steiner – qui conduceva a un dogma che uccideva la vita stessa”.
E anche a riprova del fatto che la “potenza vivificatrice” dello spirito di Goethe aveva dato segno di sé già prima del suo arrivo a Weimar, riporta il seguente e significativo brano di una lettera di Goethe, “del 14 luglio 1770, dov’egli parla di una farfalla”: “La povera bestia trema nella rete, si spoglia dei colori più belli; e anche se si riesce a prenderla incolume, alla fine eccola là, rigida e inanimata; il cadavere non è l’animale intero, gli manca qualcosa, gli manca una parte principale che in questo come in ogni altro caso è essenziale: la vita…” (p. 7).

Se il mistico si perde dunque nella luce del tutto (o dell’Uno), il meccanicista o l’atomista si perde invece nella tenebra del molteplice: di un molteplice materiale (o submateriale) in movimento, ma, in quanto privo d’idee, “senza direzione, né forma”.
L’idea, infatti, è non solo “specie”, ma anche “forma”; e sono le forme a governare le forze, così come sono le forze a governare le sostanze.
Come abbiamo detto, il piano di realtà sul quale l’idea si dà come forza, attività, movimento o vita è il medesimo sul quale si dà, nella nostra anima, il pensare. Non a caso, la chiave de La filosofia della libertà è costituita dal pensare come verbo: ossia appunto come forza, attività, movimento o vita.
Tra l’aggregato e l’organismo c’è dunque un salto di qualità: quello stesso che ad esempio si ha, sul piano geometrico, tra il quadrato e il cerchio o tra il segmento e la retta.
Potremmo infatti paragonare l’aggregato a una somma di segmenti e l’organismo a una retta, poiché la continuità di quest’ultima è analoga a quella del vivente. Si provi a costruire una retta con più segmenti e si vedrà che, pur allineandone infiniti, non la si otterrà mai. Presentando ogni segmento un inizio e una fine, si potrà tutt’al più ottenere l’imitazione di una retta, ma non una retta. Ciò che così si otterrà non solo, dunque, non tenderà – come si usa dire – all’infinito, ma neppure si trasformerà – come in diverse occasioni ha indicato Steiner – in un circolo: ovvero, nel circolo che caratterizza appunto lo svolgimento della vita.
Pensate al divenire di una pianta. Si parte dal seme e, attraverso le radici, lo stelo, la foglia, il fiore e il frutto si ritorna al seme: ecco il circolo, ecco la continuità!
Una continuità che sarebbe propria anche della natura del tempo se, per poterlo misurare, non lo frazionassimo e spezzettassimo, rendendolo così discreto. Ma il tempo – come si dice – fluisce, scorre e passa. Possiamo fermare l’orologio, ma non il tempo.
Chi sperimenta il pensare sperimenta dunque quella vita dell’idea (nell’essere umano, dell’Io) che gli si fa incontro, in natura, come processo vegetale.
Come vedete, chi fa sua la scienza dello spirito non corre alcun rischio di diventare un mistico, un sognatore o un uomo che tende a evadere dalla realtà; impara piuttosto ad amarla, poiché scopre che non c’è nulla di più straordinario, se non di divino, della realtà. L’arte sta nel vederla così com’è, e non come ci si vorrebbe far credere che sia.
Ascoltate, ad esempio, come presenta gli esseri viventi Edoardo Boncinelli: “Oggi si sa che gli esseri viventi sono essenzialmente dei motori – meccanici, termici, chimici o elettrochimici – che prendono dall’ambiente circostante energia di buona qualità e gliela restituiscono degradata. Il saldo attivo di questa trasformazione viene utilizzato per sostenere la loro incessante attività, il grosso della quale è finalizzato a mantenersi vivi, una certa porzione a moltiplicarsi e un’altra porzione a trasformare, più o meno sensibilmente, l’ambiente circostante” (E.Boncinelli: Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 9).
Pensando a questo, e parafrasando quanto disse qualcuno (un russo), negli anni in cui infuriavano le polemiche sulla presunta discendenza dell’uomo dalla scimmia (L’origine delle specie di Darwin è del 1859), potremmo dunque dire: “ Gli uomini sono essenzialmente dei motori – meccanici, termici, chimici o elettrochimici -, ergo amiamoci gli uni con gli altri”.

Roma, 12 settembre 2000

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Di Lucio Russo
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