Stasera, prima di riprendere la lettura del testo, sarà bene tornare a riflettere sulla differenza che c’è tra la realtà organica e quella inorganica: differenza che la scienza contemporanea (materialisticamente orientata) tende per lo più a trascurare, quando non addirittura ad annullare.
Jacques Monod, ad esempio, dichiara esplicitamente che tra la realtà vivente e quella non-vivente ci sono unicamente differenze quantitative, poiché la prima sarebbe soltanto più “informata” della seconda.
Verrebbe però da domandarsi (cosa che Monod non fa) se la realtà sia “vivente” in quanto più informata o, viceversa, se sia più “informata” in quanto vivente.
Per la nostra riflessione, proporrei comunque di riprendere la seguente affermazione di Steiner riguardante i fenomeni della natura inorganica: “Non c’è niente nel concetto che non sia anche nel fenomeno, e niente nel fenomeno che non sia anche nel concetto”.
Abbiamo già detto che, in questo caso, i “conti – come si suol dire – tornano”, poiché c’è piena corrispondenza tra il carattere del fenomeno e quello del nostro percepire e del nostro pensare.
Si potrebbe però osservare: per quanto riguarda il percepire, c’è corrispondenza, poiché “fisico” è il fenomeno e “fisici” sono gli organi mediante i quali lo percepiamo; ma come stanno le cose per quanto riguarda il pensare? Se la natura del pensare – secondo quanto insegna la scienza dello spirito – è “eterica”, tra questa e quella “fisica” del fenomeno, come fa a esserci corrispondenza?
E’ vero, la natura del pensare è eterica; non meno è vero, tuttavia, che noi pensiamo i fenomeni “fisici” con l’intelletto. E che cosa vuol dire che li pensiamo con l’intelletto? Vuol dire che li pensiamo con il cervello, e quindi non con il pensiero eterico, bensì con il suo spento riflesso fisico.
Mai ci si sarebbe dischiusa conoscitivamente la morta realtà del mondo fisico se non ci fosse stato dato l’intelletto (la mente): ovvero, la possibilità di utilizzare, grazie al corpo fisico e, più precisamente, allo “specchio” corticale, un pensiero non più diretto e vivo (immaginativo), bensì un pensiero indiretto e morto (rappresentativo). “Nel mondo immaginativo – osserva appunto Steiner – ogni cosa parla all’uomo come se essa fosse intelligente in modo diretto, mentre nel mondo fisico anche l’intelligenza può manifestarsi solo per tramite della corporeità fisica (I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977, p. 31).
C’è dunque piena concordanza tra la conoscenza e la realtà del mondo fisico, giacché sviluppiamo la prima sulla base di percezioni e di pensieri mediati dal corpo fisico.
Riguardo a tale concordanza, abbiamo già ricordato la definizione di verità data da Tommaso d’Aquino: “Veritas est adaequatio rei et intellectus”. L’intelletto, tuttavia, è in grado di adeguarsi alla realtà delle “cose” o della quantità, ma non a quelle dei “processi” e delle “qualità”: in breve, è in grado di adeguarsi a una parte della realtà, ma non a tutta la realtà. Non gli si dovrebbe pertanto chiedere quel che non rientra nelle sue capacità, e che non può quindi dare. “L’azzurro – recita giusto un verso di Aleksandr Blok (1880-1921) – non si misura con la mente”.
L’intelletto non è la coscienza, bensì parte della coscienza: quella parte appunto “intellettuale” che Steiner denomina anche “rappresentativa”, “oggettiva” o “materiale”.
Come esiste quella intellettuale, esistono infatti altre e superiori forme di coscienza; e l’Io è tanto più libero quanto più è capace, a seconda di ciò che richiede la realtà, di muoversi tra queste, senza identificarsi con nessuna di esse.
Ma l’Io s’identifica ancor oggi con l’intelletto o la mente (cogito, ergo sum) e in ugual misura respinge anche solo l’idea di uno sviluppo dell’ordinario livello di coscienza.
Fate però attenzione: l’Io respinge tale eventualità non tanto per amore della coscienza intellettuale o della mente computazionale (digito, ergo sum), quanto per amore di sé; dacché è identificato con tale livello di coscienza ha infatti l’ingannevole sensazione che, portandosi al di là del numero e del calcolo (e per ciò stesso della sua esistenza in forma di “ego”), perderebbe se stesso.
Risposta a una domanda
Vede, chi comprende la scienza dello spirito apprezza, forse più di tanti altri, i benefici arrecati all’umanità dall’intelletto e i progressi di cui, noi moderni, andiamo debitori alla scienza e alla tecnica.
Criticare l’intelletto non avrebbe del resto senso, poiché sarebbe come criticare, poniamo, la vista; avrebbe però senso criticare quest’ultima, ove avanzasse la titanica pretesa di assolvere anche le funzioni cui sono deputati gli altri sensi.
Ma mentre nessun organo di senso avanza, per fortuna, una simile pretesa, la coscienza intellettuale sta da tempo pretendendo di occuparsi anche della vita, dell’anima e dello spirito, usurpando così, di fatto, le funzioni che sarebbero invece proprie, nell’ordine, della coscienza immaginativa, della coscienza ispirativa e di quella intuitiva.
Visto che ci siamo, permettetemi di provare a mettere in luce un ulteriore aspetto della questione.
Immaginiamo di aver perso tutti l’udito. Che cosa potremmo fare? Potremmo provare magari a surrogarlo utilizzando un qualche marchingegno: ovvero, una qualche “protesi”. Da quel momento, considereremmo sicuro “indice di progresso” il cominciare a investire risorse per la ricerca e la produzione di protesi sempre più perfette ed efficienti.
Come non riconoscere, tuttavia, che un tale progresso, ove ci fosse dato di poter ritrovare l’udito, sarebbe inutile? Chi ci dice, infatti, che le forze utilizzate per costruire e perfezionare le protesi non potrebbero essere invece utilizzate per recuperare l’udito? Chi ci dice, cioè, (fuor di metafora) che le forze di cui ci serviamo per dare ragione intellettuale (quantitativa) della vita, dell’anima e dello spirito, non potrebbero essere invece (e più utilmente) impiegate per sviluppare dei gradi superiori di coscienza?
Una cosa, d’altro canto, è il sano intelletto (che “sta con i piedi per terra”), altra l’elefantiasi intellettualistica (che “si arrampica sugli specchi”); così come una cosa è la scienza, altra la metafisica scientistica (diceva Schopenhauer, con la sua solita “amabilità”: “Sentir cantare il rauco, o veder danzare lo zoppo è cosa penosa, ma udir filosofare il cervello limitato è insopportabile” – La filosofia delle Università – Adelphi, Milano 1992, p. 48).
Si racconta, ad esempio, che i contadini usassero un tempo osservare con attenzione i frassini e le querce, perché se le foglie spuntavano prima nei frassini si annunciava una bella stagione, se prima nelle querce se ne annunciava, al contrario, una piovosa.
Oggi aspettiamo che queste informazioni ce le diano i satelliti: ossia, dei costosissimi e sofisticati strumenti di cui potremmo però fare benissimo a meno, ove tornassimo ad apprendere, con umiltà, il muto linguaggio della natura.
Rammentate la tragedia del Vajont? Nell’ottobre del 1963, una parte del monte Toc crollò nel lago del Vajont, sollevando un’onda immensa che, precipitando a valle, travolse e spazzò via tutto ciò che trovò sul suo cammino.
Ebbene, ascoltate quanto scrive Mauro Corona, rievocando (da testimone, narratore e poeta) quegli eventi: “Un giorno il Monte Toc si svegliò di soprassalto. Si svegliò perché l’acqua della diga lo aveva spintonato malamente. Si accorse con stupore che era diventato un po’ più piccolo. Era scivolato di qualche metro verso il basso. Allora chiamò il Borgà, il monte amico suo che gli sta di fronte e gli disse: “Senti, qui l’acqua mi sta togliendo i piedi e quella massa di presuntuosi tecnici, ingegneri e geologi non si accorgono di niente. Sono sicuro che sto per cadere giù in quel maledetto lago che hanno costruito e non so come avvertirli. Da molti giorni mi sento debole e cerco di farglielo capire. Ho persino inclinato gli alberi verso terra in modo che si notino i miei movimenti ma loro, ottusi come sono, non se ne rendono conto. Per favore aiutami, mettili in allarme, avvisali tu visto che a me non danno retta”. Il Borgà, che è molto più vecchio del Toc e quindi più saggio, rispose con tristezza: “Io non posso farci niente. Quella è gente insensibile e non capisce. Sono solo degli aridi tecnici che non sanno interpretare i nostri messaggi: quelli delle piante, dell’acqua, dei rumori. Sono figli della presunzione, perciò sviluppano e mettono in pratica una scienza che va contro natura…”” (Il volo della martora – Vivalda, Torino 1999, pp. 168-169).
Fatto si è che l’intelletto, che non può comprendere e dominare che un quarto della realtà (e non è poco), ma che si trova comunque a vivere nell’intera realtà, s’ingegna a realizzare, come meglio può, delle “protesi” (o, se si preferisce, dei “come se” o delle “approssimazioni”) che gli diano l’illusione di poter surrogare in qualche modo la propria incapacità di comprendere la vita, l’anima e lo spirito.
Come abbiamo visto, il quarto di realtà che l’intelletto comprende e domina è quello fisico; e un corpo fisico possiedono i minerali, le piante, gli animali e gli esseri umani; con la differenza, però (come messo in luce dalla scienza dello spirito), che tale corpo è essenziale nei minerali, ma non nella piante, in cui (pur essendoci un corpo fisico) è essenziale il corpo eterico; non negli animali, in cui (pur essendoci un corpo fisico e un corpo eterico) è essenziale il corpo astrale; e non negli esseri umani, in cui (pur essendoci un corpo fisico, un corpo eterico e un corpo astrale) è essenziale l’Io.
Ciò sta dunque a significare che le conclusioni cui giungono le indagini scientifiche basate sull’intelletto, quanto più si allontanano dal minerale, tanto meno sono in grado di afferrare – per dirla con Jacob Böhme (1575-1642) – la “signatura rerum”: l’intima e vera natura, cioè, delle cose. Ma riprendiamo adesso il testo.
Scrive Steiner: “Bisogna convenire che, in un essere vivente, tutti i rapporti sensibili non appaiono quale conseguenza di altri rapporti percepibili coi sensi, come è il caso per la natura inorganica. Tutte le qualità sensibili appaiono qui piuttosto come conseguenze di una condizione che non è più percepibile coi sensi. Appaiono come conseguenza di una unità superiore librantesi al di sopra dei processi sensibili. La figura della radice non condiziona quella dello stelo, né questa quella della foglia, e così via, bensì tutte queste forme sono condizionate da qualcosa che sta al di sopra di esse e che, per sé, non ha più una forma visibile coi sensi; esistono sì l’una per l’altra, ma non l’una in conseguenza dell’altra. Non si condizionano vicendevolmente, ma sono tutte condizionate da un altro” (p. 47).
Questo vuol dire che né la figura della radice è causa di quella dello stelo né la figura dello stelo è effetto di quella della radice, ma che entrambe (così come quelle delle foglie, dei fiori e dei frutti) sono “condizionate da un altro”: ovvero, da un “tipo” o da un’idea che “non è più percepibile coi sensi”.
Sembrerebbe ovvio, ma non è così. Ascoltate, infatti, quanto scrive Edoardo Boncinelli: “Quando il cervello dell’uomo non si è più potuto materialmente espandere, perché ciò avrebbe messo a repentaglio la sua vita o la sua capacità di riprodursi, si sono espansi i suoi correlati astratti, cioè la mente e il pensiero” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 289).
Il cervello, qualora avesse continuato a espandersi materialmente, avrebbe messo dunque “a repentaglio la sua vita o la sua capacità di riprodursi”. E perché? Perché sarebbe stato probabilmente schiacciato dalla scatola cranica o l’avrebbe sfondata (si consulti, a questo proposito, la nota di Francesco Giorgi, Cervelli “grassi” e cervelli “magri” , del 4 luglio 2004 – ndr).
Come vedete, chi afferma questo ritiene che, nell’uomo, il cervello e la scatola cranica non si sviluppino di concerto, in quanto “condizionati” entrambi dall’Io, ma in modo indipendente e separato (se non perfino antagonistico).
In nota, sempre riguardo alla differenza tra l’organismo e la macchina, Steiner comunque aggiunge: “In questa tutto è collaborazione delle parti, e in essa nulla di reale esiste all’infuori di questo scambio di azione. Il principio unitario che domina l’azione comune di quelle parti, manca nell’oggetto stesso, e sta fuori di esso, come disegno nella mente del costruttore. Solo la più estrema miopia può negare che proprio in ciò stia la differenza tra organismo e meccanismo, e che il principio che opera la collaborazione delle parti, in quest’ultimo esista solo al di fuori (astratto), mentre nel primo raggiunge la sua vera esistenza entro la cosa stessa. Così anche le condizioni dell’organismo percepibili con i sensi non appaiono come semplice conseguenza l’una dell’altra, ma come dominate da quel principio interiore, come conseguenza di qualcosa che non è più sensibilmente percepibile. In questo senso esso è altrettanto poco sensibile quanto il disegno nella mente del costruttore, che pure esiste solo per lo spirito; anzi è essenzialmente quel disegno stesso; solo che qui è penetrato nell’interno dell’essere e non opera più attraverso la mediazione di un terzo – quel costruttore – ma compie le sue azioni direttamente da sé” (p. 47).
Il “disegno”, il progetto o l’idea del meccanismo sta nel pensiero del costruttore. Esso ha dunque la sua legge ex sé, mentre l’organismo l’ha in sé.
A chi eventualmente trovasse questi concetti troppo “astratti” o troppo “hegeliani”, vorrei non solo ricordare ch’è in realtà il modo in cui siamo abituati a pensarli a essere “astratto”, ma anche leggere ciò che, di Hegel, scrisse a suo tempo Aleksandr Herzen (1812-1870): “Non c’è nulla di più ridicolo del fatto che i tedeschi considerino Hegel un arido logico, nonostante ogni suo lavoro sia pervaso da profonda poesia” (“There is nothing more ridiculous than the Germans…considering Hegel a dry logician…, even though each of his works is imbued with powerful poetry” – A.Belyi: Anthroposophy and Russia – St. George Publications, Spring Valley, New York, 1983, p. 31 – traduzione nostra).
Potremmo quindi dire (alla luce dell’antroposofia) che i minerali sono ex sé, poiché, in essi, l’Io, il corpo astrale e il corpo eterico, stando fuori dal corpo fisico, sono trascendenti; che le piante sono invece ex sé-in sé, poiché, in esse, l’Io e il corpo astrale, stando fuori dal corpo fisico, sono trascendenti, mentre il corpo eterico, standovi dentro, è immanente; e che gli animali sono infine in sé, poiché, in essi (pur rimanendo l’Io individuale fuori dal corpo fisico, e quindi trascendente), il corpo astrale, portatore dell’io collettivo (di gruppo o di specie), e il corpo eterico stanno dentro il corpo fisico, e sono quindi immanenti (“Il soggetto animale – osserva infatti Hegel – è figura in quanto è un tutto, che è in relazione solo con sé stesso. Esso rappresenta il concetto, nelle sue determinazioni sviluppate e in quanto esistono in lui” – Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 345).
L’Io o l’essenza si manifesta dunque nei minerali (in specie nei cristalli) quale “struttura stabile”, nei vegetali quale “forma vivente” e negli animali quale “modello (collettivo) di comportamento” (e non ancora, perciò, quale libertà).
Come si vede, l’Io o l’essenza, elaborando segretamente la sostanza, si apre gradualmente il varco verso l’esistenza, la manifestazione o la rivelazione.
Faremmo dunque bene, pensando alla parola che, aprendosi tale varco, si è infine manifestata nell’essere umano (o che è infine “emersa” – come preferirebbero dire alcuni – dall’essere umano), a tornare a meditare i seguenti versetti del prologo del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo (la Parola – nda), e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui neppure una delle cose create è stata fatta” (Gv 1,1-4).
Roma, 31 ottobre 2000