Le opere scientifiche di Goethe (11)

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Cominciamo subito a leggere.

Supponiamo, scrive Steiner, “che il processo causale consista degli elementi m, d e v (massa, direzione e velocità di una sfera elastica in moto), e il processo prodotto degli elementi m’, d’ e v’; allora per determinati m, d e v, m’, d’ e v’ saranno determinati da quelli. Se ora voglio comprendere il processo, devo riunire in un concetto comune l’insieme del processo che si compone di causa ed effetto. Questo concetto non è però tale che possa risiedere nel processo stesso e determinarlo. Esso riunisce semplicemente due processi in un’espressione comune. Non effettua né determina nulla. Solo gli oggetti del mondo dei sensi determinano se stessi. Gli elementi m, d e v sono percepibili anche per i sensi esteriori. Il concetto appare solo per servire da mezzo riassuntivo allo spirito; esprime qualcosa, che non è né ideale, né concettuale, ma sensibilmente reale. E quel qualcosa che esprime, è l’oggetto sensibile. La conoscenza della natura inorganica si fonda sulla possibilità di afferrare il mondo esteriore per mezzo dei sensi e di esprimere le vicendevoli azioni per mezzo di concetti” (p. 53).

Osserviamo dunque il fenomeno sensibile A (costituito dagli elementi m, d e v) e il fenomeno sensibile B (costituito dagli elementi m’, d’ e v’), e poi, pensando, li poniamo tra loro in un rapporto di “causa-effetto”.
Questo è ciò che fa l’intelletto, e dobbiamo riconoscere che lo fa egregiamente.
E’ per sua virtù, infatti, che il pensiero, muovendosi in modo lineare e discreto, mette in rapporto la causa A con l’effetto B, la causa B con l’effetto C, la causa C con l’effetto D, e così via.
Allorché si osserva e si pensa un organismo, il pensiero si deve però muovere altrimenti: ossia, non più in modo lineare e discreto, bensì circolare e continuo.
In questo caso, infatti, è come se i fenomeni A, B, C e D si trovassero idealmente lungo una circonferenza, e dipendessero perciò non più l’uno dall’altro, ma tutti dal suo centro; tale centro, quindi, sarebbe l’unica causa invisibile di molteplici effetti visibili.
Kant se ne è reso conto, ma ha sentenziato: “L’uomo non potrà mai conoscere tale causa invisibile perché l’intelletto umano non è capace di una simile conoscenza”.
Non sbagliava a dire così, poiché la conoscenza delle cause invisibili non compete al pensiero intellettuale. Potremmo – è vero – educarlo, svilupparlo e trasformarlo, tanto da permettergli di varcare questo limite, ma è purtroppo difficile, se non raro, trovare qualcuno che sia disposto a farlo (si tenga sempre presente che l’antroposofia persegue, a un tempo, l’evoluzione dell’essere umano mediante la conoscenza e la conoscenza mediante l’evoluzione dell’essere umano).
Proprio Kant, ad esempio, non solo non lo ha fatto, ma ha addirittura ipostatizzato tali limiti, affidando poi l’onere di gestire quanto li trascende all’intelligenza divina: cioè a quella del Creatore, e non della creatura.

Risposta a una domanda
Il centro della circonferenza di cui ho parlato è nella realtà il “tipo”, l’essenza, o l’idea. Ricordiamoci che abbiamo da una parte l’Io e il corpo astrale, dall’altra il corpo eterico e il corpo fisico, e che, tra i primi e i secondi, si trova quella che Steiner chiama la “soglia”: ossia, la linea di confine che divide la sfera dell’essere (e delle essenze) da quella dell’esistere (del tempo e dello spazio).
So bene che quanti hanno fatto proprio l’insegnamento di Albert Einstein non considerano più il tempo e lo spazio come due realtà distinte (quali le concepiva, ad esempio, Newton), ma parlano di un’unica dimensione “spazio-temporale”, come pure non distinguono più l’energia dalla massa.
Bisognerebbe fare però molta attenzione al livello al quale vengono operate queste sintesi.
Al di qua della “soglia”, infatti, vale a dire nella sfera dell’esistere o del mondo eterico-fisico, tanto il tempo e lo spazio quanto l’energia e la massa sono realtà (qualitativamente) diverse.
Pensi appunto all’uomo. A che cosa corrispondono lo spazio e la massa? Al suo corpo fisico (morto o anatomico); e a che cosa invece il tempo e l’energia? Al suo corpo eterico (vivente o fisiologico).
Unificare al di qua della soglia (addirittura nel subsensibile), sia il tempo e lo spazio, sia l’energia e la massa, non contribuisce dunque a chiarire le idee; contribuisce anzi a decomporre o disgregare quelle poche e (non a caso dette) “solide” certezze che l’intelletto ricava dalla sua esperienza del mondo sensibile.
Mischiare e confondere tali elementi, ignorando ciò che realmente li unifica (al di là della soglia), significa pertanto regredire, cioè scendere, al di sotto del “lume naturale”, nella tenebra subnaturale, e non progredire, cioè salire, al di sopra del “lume naturale”, al lume spirituale: vuol dire, insomma, caotizzare, e non sintetizzare.

Ma torniamo a noi. Abbiamo detto che per afferrare l’essenza di un organismo occorre un diverso movimento del pensiero o una diversa facoltà di giudizio.

Ovvero, spiega Steiner: “Una facoltà di giudizio che possa conferire a un pensiero anche altra sostanza che non quella attinta unicamente per mezzo dei sensi esteriori, che possa comprendere non solo il sensibile, ma ciò ch’è puramente ideale, per se stesso, separato dal mondo sensibile”; e aggiunge: “Un concetto che non sia ricavato per astrazione dal mondo dei sensi, ma abbia un contenuto scaturente solo da se stesso, si può chiamare un concetto intuitivo e intuitiva la sua conoscenza. Ciò che ne segue è chiaro: un organismo può essere compreso solo nel concetto intuitivo; e Goethe dimostra coi fatti che all’uomo è concesso questo genere di conoscenza” (p. 54).

Ma che cos’è un “concetto intuitivo”? E’ un concetto colto dalla coscienza intuitiva, e per ciò stesso finalmente compreso per quello che è. Soltanto la coscienza intuitiva può infatti afferrare l’essenza (spirituale) del concetto, poiché l’ordinaria coscienza rappresentativa ne può afferrare il solo corpo morto (fisico), quella immaginativa il solo corpo vivente (eterico) e quella ispirativa il solo corpo animico (astrale).

Risposta a una domanda
Come abbiamo detto tante volte, una cosa è il concetto, altra la coscienza rappresentativa che di norma ne abbiamo, così come una cosa, ad esempio, è un essere vivente, altra il suo ritratto o la sua fotografia.
Affermano i maestri Zen: “La luna riflessa nello stagno non è la luna”. Ebbene, anche il concetto riflesso nel cervello (quale rappresentazione) non è il concetto.
Faccia però attenzione: è vero che il concetto riflesso nel cervello non è il concetto; ma è proprio in virtù del suo riflesso che ci è dato scoprire, levando in alto lo sguardo, il concetto reale.
E’ questa la ragione per la quale, intorno alla realtà riflessa (alla realtà della parvenza o del non-essere), infuria un’aspra “lotta spirituale” tra le entità (micaelite), che sollecitano l’uomo a servirsene per innalzare lo sguardo al suo essere spirituale, e quelle (arimaniche), che lo spingono di contro a servirsene per abbassare lo sguardo al suo presunto essere materiale o submateriale.
In questa seconda direzione si muove la scienza attuale che, per dirla in termini Zen, altro non fa che dragare metodicamente lo stagno, nell’illusione di trovarvi la realtà della luna che vi si riflette.
“Innalzare lo sguardo” significa però “innalzare il pensiero”, cominciando col portarlo dall’ordinario livello statico o rappresentativo a quello dinamico o immaginativo. Tra l’esperienza indiretta della realtà del concetto e quella diretta, si colloca infatti l’esperienza viva del pensare (quale forza, movimento o attività).

Risposta a una domanda
Vede, gli empiristi sostengono che il concetto lo si ricava o astrae dalla percezione; ciò vale, però, non per il concetto (in sé), ma per la nostra coscienza del concetto.
E’ in virtù della percezione che riusciamo infatti a guadagnarci una prima (astratta o nominalistica) coscienza del concetto. Ma questa dovremmo poi svilupparla, fino a passare dalla percezione dell’oggetto (che ci dà il concetto) alla percezione del concetto (che ci dà l’oggetto), unificando così (dinamicamente) quegli opposti punti di vista che, se assunti unilateralmente, danno rispettivamente luogo, all’empirismo e al razionalismo. Non dimentichiamo, infatti, che per Hegel (ma anche per Steiner) la realtà è appunto unità o sintesi di essenza e manifestazione. In questo senso, potremmo perfino dire che l’essenza non è che la manifestazione vista dall’interno (dallo spirito), e che la manifestazione non è che l’essenza vista dall’esterno (dal corpo fisico).

Scrive in proposito Steiner: “Questo elemento autodeterminantesi possiamo chiamarlo, con Goethe, una entelechia. Entelechia è dunque la forza che, per virtù propria, chiama se stessa alla vita. Ciò che compare nel fenomeno ha pure vita sensibile, ma questa è determinata dalla forza dell’entelechia” (p. 54).

L’entelechia – lo abbiamo detto – è forma (potenziale), ma non ha forma (attuale). Può perciò prendere qualsiasi forma, e apparire quindi in modo A nell’habitat A, in modo B nell’habitat B, in modo C nell’habitat C, ecc.. Sono questi diversi modi di apparire dell’entelechia a darsi ai nostri sensi (fisici), ed è da questi che deve dunque partire chiunque voglia, pensando, risalire a essa.

Osserva appunto Steiner: “Qui interviene la ragione umana e si forma nell’idea un organismo che è corrispondente non agli influssi del mondo esteriore, ma solo a quel principio. Si elimina così ogni influsso casuale che non ha niente a che fare con l’organico come tale. Ora, questa idea, che nell’organismo corrisponde puramente all’organico, è l’idea dell’organismo primordiale, del tipo di Goethe. Da ciò si vede anche l’alta legittimità di questa idea del tipo. Non è un semplice concetto logico; è ciò che in ogni organismo è il vero elemento organico, senza di cui non sarebbe un organismo” (p. 55).

L’esigenza di passare dal rappresentare all’immaginare si fa qui molto chiara. La rappresentazione, infatti, in quanto statica e vincolata alla percezione sensibile, può solo cogliere una delle molteplici forme assunte dall’entelechia: ovvero, un suo stato (determinato), ma non il suo divenire.
Pensate, ad esempio (per riprendere il titolo di un noto libro del pittore russo Wassily Kandinskij) a Punto, linea, superficie (Adelphi, Milano 1968). Dal punto di vista della logica analitica e del principio d’identità, si tratta di tre realtà diverse (A, B e C) e giustapposte: il punto è infatti il punto (A=A), così come la linea è la linea (B=B) e la superficie è la superficie (C=C).
Secondo questa logica si tratta dunque di realtà che nulla hanno in comune (se non il fatto di essere tutt’e tre geometriche), e che tantomeno potrebbero nascere l’una dall’altra. La cosa cambia, però, ove si integri tale punto di vista con quello della logica immaginativa. Che cosa fa infatti questa logica? Immette, nella considerazione delle cose e dei loro reciproci rapporti, il movimento. E si scopre forse qualcosa se s’immette il movimento nella considerazione del punto, della linea e della superficie? Altrochè! Si scopre, nientemeno, che la linea è generata dal movimento del punto, e che la superficie è generata, a sua volta, dal movimento della linea.
Vogliamo fare un altro esempio?
Provate a immaginare di disegnare mentalmente un triangolo. Potrete disegnarlo rettangolo, ottusangolo o acutangolo, equilatero, isoscele o scaleno, ma disegnerete sempre e comunque un determinato triangolo.
Ora immaginate che qualcuno dica di avere invece disegnato il “triangolo universale”. Gli credereste o no? E nel caso gli credeste, non avreste fatto forse ricorso a un atto di fede?
Ma perché ricorrere alla fede, e non all’immaginazione? Grazie a questa, infatti, potreste direttamente osservare, al di là di quella fisica (rappresentativa), la manifestazione eterica del “triangolo universale” (che, come tale, sta oltre la “soglia”): la sua manifestazione, ossia, a quel livello (detto da Goethe e Steiner “sensibile-sovrasensibile”) deputato appunto a mediare o a fare da trait d’union tra quello della cosiddetta “immanenza” (sensibile) e quello della cosiddetta “trascendenza” (sovrasensibile).
Supponiamo – esemplifica infatti Steiner – di disegnare mentalmente un triangolo, in modo tale da permettere ai suoi lati, incernierati in un vertice, di muoversi con velocità diverse e in ogni direzione; muovendosi ed effettuando un giro intero (come fanno, grosso modo, le lancette dell’orologio), tali lati daranno forma, istante dopo istante, a tutti i triangoli possibili.
Ciò è di certo scomodo, – aggiunge – “poiché si devono compiere dei movimenti nei propri pensieri. Così però si ottiene pure realmente il pensiero universale del triangolo; mentre non lo si raggiunge se ci si ferma a un solo triangolo. Il pensiero universale “triangolo” vi è, quando si tiene il pensiero in continuo movimento, quando è versatile” (Il pensiero cosmico – Basaia, Roma 1985, p. 10).
“Ci si ferma – infatti – a un solo triangolo”, e quindi a una sua rappresentazione, ogni volta che si arresta tale “continuo movimento” (un po’ come si fa oggi con il “ferma-immagine” dei videoregistratori).

Risposta a una domanda
Può capitare, in effetti, che l’intelletto, abituato a trattare con giusto distacco le cose morte, trovandosi di fronte a una cosa viva, poniamo, una pianta o un animale, se ne invaghisca: che non sia cioè in grado di conservare la freddezza e la lucidità che gli sono proprie, e finisca così col dare al suo rapporto con questa un carattere sentimentale, se non perfino sensuale.
Una cosa sono del resto i sentimenti generati (dall’alto in basso) da pensieri spirituali, altra i sentimenti (naturali) generanti (dal basso in alto) i pensieri.
Solo dei pensieri elevati possono infatti aprire il varco a dei sentimenti elevati: ovvero, a quel sentire vivo, vibrante e profondo che nulla ha a che fare con il sentimentalismo o il sensualismo dei cosiddetti “amanti della natura”.
Pensate, al riguardo, all’epoca dell’anima senziente (3564-747 a.C.). Allora il pensare stava all’interno del volere, un po’ come oggi l’intelligenza degli animali sta all’interno dei loro istinti. Poi è venuta l’epoca dell’anima razionale o affettiva (747 a.C.-1413 d.C.). Che cosa è cambiato? Che il pensare si è portato all’interno del sentire, manifestandosi, non più in forma mitica, bensì concettuale e filosofica. Ora, nell’epoca dell’anima cosciente (che inizia, appunto, nel 1413 d.C.), dove sta il pensare? E’ semplice: all’interno di sé stesso.
Dopo il pensare nel volere e il pensare nel sentire, abbiamo dunque il pensare nel pensare (il vivo e puro pensare).
E’ questo pensare, riflettendosi – come abbiamo visto – nello specchio cerebrale, a consentire la nascita della coscienza individuale (dell’autocoscienza), della libertà e della modernità. Ciascuno può cominciare infatti a pensare quello che vuole, poiché il pensare, ormai, non veicola più il sentire e il volere cogenti del mondo spirituale.
Tale processo presenta tuttavia un risvolto che non va assolutamente ignorato.
Che cosa ci dà il vivo pensare? La viva universalità. E che cosa succede quando il pensare si riflette invece nello specchio cerebrale? Succede che l’universalità si fa astratta, e di conseguenza il sentire e il volere se ne allontanano, mettendosi rispettivamente al servizio della particolarità e della singolarità: cioè a dire, dell’egoità.
Chi è sincero, non tarderà infatti ad ammettere che il sentire e il volere naturali ci riportano sempre e soltanto a noi stessi: il primo soprattutto mediante la vanità; il secondo soprattutto mediante l’utilità o l’interesse.
E che cosa si può fare, allora, per superare un tale stato di cose (una tale “condizione umana”)? Si può fare una sola cosa: ricondurre gradualmente il sentire e il volere all’interno del pensare.
Chiariamo – a scanso di equivoci – che ricondurre il sentire e il volere all’interno del pensare non vuol dire ricondurli all’universalità a scapito della particolarità e della singolarità, né tantomeno implica che, per dare a Dio quel ch’è di Dio, non si debba più dare a Cesare quel ch’è di Cesare.
Vuol dire, piuttosto, restituire a Dio quanto, pur essendo di Dio, veniva prima dato, in surplus, a Cesare.
Afferma, ad esempio, Steiner: “Nel volere la libertà viene esercitata; nel sentire viene vissuta; nel pensare viene riconosciuta” (La mia vita – Antroposofica, Milano 1992, p. 135).
Si tratta, in definitiva, di ridistribuire equamente le forze, così che il sentire e il volere l’universale (conquistato dal pensare) donino nuova luce e nuovi impulsi alla moralità, e che il sentire e il volere il particolare o il singolare, liberati da ogni pletora, si vedano finalmente restituiti alla loro sana e umana sobrietà.

Roma, 14 novembre 2000

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Di Lucio Russo
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