Vorrei cominciare, stasera, leggendovi alcuni passi di una conferenza tenuta dal celebre fisico tedesco (Nobel nel 1932) Werner Heisenberg (1901-1976) all’assemblea generale della Goethe-Gesellschaft, il 21 maggio 1967 a Weimar.
“Secondo Goethe – dice Heisenberg – l’osservazione e la conoscenza della natura inizia con l’impressione sensoriale immediata; perciò non con l’osservazione di un singolo fenomeno tramite strumenti per così dire avulsi dalla natura, ma con l’evento naturale direttamente percepibile dai nostri sensi (…) Ma Goethe non si ferma all’osservazione immediata. Sa bene che soltanto con la guida di una connessione, che dapprincipio è solo presunta ma in seguito diviene certa, la sensazione immediata può diventare conoscenza. Cito come esempio un punto della prefazione della Teoria dei colori: “Il semplice guardare una cosa non ci permette infatti di progredire. Ogni guardare si muta in un considerare, ogni considerare in un riflettere, ogni riflettere in un congiungere. Si può quindi dire che noi teorizziamo già in ogni sguardo attento rivolto al mondo. Se però l’astrazione di cui temiamo, deve essere neutralizzata, e se il risultato di esperienza, che ci auguriamo, deve risultare autenticamente vitale e utile, è necessario saper compiere questi passaggi con coscienza, autoconsapevolezza, libertà e, per servirsi di un’espressione ardita, con ironia”. “L’astrazione di cui temiamo.” Qui abbiamo già una indicazione precisa del punto in cui la strada di Goethe si distacca da quella della scienza ufficiale. Goethe sa che tutta la conoscenza ha bisogno di immagini, di relazioni, di strutture interpretative. Senza queste la conoscenza sarebbe impossibile. Ma la strada che conduce a queste strutture conduce inevitabilmente all’astrazione”. La “scienza naturale corrente” impiega infatti l’astrazione (in primo luogo matematica), mentre Goethe, giunto “alla frontiera con l’astrazione, ebbe paura (…) Le frontiere dell’astrazione non dovevano essere violate. Laddove era stato raggiunto il limite dell’osservazione, non si doveva andar oltre e sostituire l’osservazione con il pensiero astratto” (La concezione della natura di Goethe e il mondo della scienza e della tecnologia in Oltre le frontiere della scienza – Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 150-151).
Dunque, riflettiamo: prima si afferma che Goethe “non si ferma all’osservazione immediata”, poiché “sa bene che soltanto con la guida di una connessione (…) la sensazione immediata può diventare conoscenza” (che non si ferma cioè alla percezione, poiché sa bene che questa può diventare conoscenza soltanto con la guida del pensiero); poi si sostiene che Goethe, giunto “alla frontiera con l’astrazione, ebbe paura” e, per non violarla e per non sostituire con il pensiero astratto l’osservazione, non andò oltre.
Ma se si riconosce che Goethe “non si ferma all’osservazione immediata”, come si fa allora a dire che, raggiunto il limite dell’osservazione, non andò oltre (rinunciando così alle “immagini”, alle “relazioni” o alle “strutture interpretative”)?
Fatto si è che non si dovrebbe identificare l’astrarre con il pensare. Non è che Goethe, per non sostituire con il pensiero astratto l’osservazione, abbia infatti rinunciato a pensare, è che non ha pensato più in modo intellettuale, ma immaginativo.
La strada di Goethe si distacca dunque da quella della “scienza ufficiale”, non per il fatto che questa astrae in quanto pensa e che quello non astrae in quanto non pensa, ma per il fatto che Goethe riesce a pensare senza astrarre.
Ma come si può pensare senza astrarre? E’ presto detto: adeguando costantemente la modalità del pensiero alla qualità del fenomeno.
Abbiamo visto, a questo riguardo, che l’ordinario pensiero rappresentativo si adegua alla realtà inorganica, ma non a quella organica.
Come mai – potremmo però chiederci – un pensiero “astratto” si mostra adeguato a una realtà “concreta” (fisica)? Non sarà forse che la realtà che crediamo “concreta” è in realtà astratta?
Ebbene, è così; non è facile spiegare, tuttavia, in che senso la realtà inorganica sia “astratta”.
Pensiamo, ad esempio, a un burattino e a un attore: il primo viene mosso dall’esterno; il secondo dall’interno. Possiamo infatti considerare l’Io dell’attore come una sorta di “burattinaio” che muove il suo personaggio (il suo “burattino”) dall’interno. Abbiamo dunque due burattinai: l’uno, “trascendente”, muove il suo burattino dall’esterno; l’altro, “immanente”, lo muove invece dall’interno.
Ora, consultando un qualsiasi dizionario della lingua italiana, scopriamo che “astrarre” (lat. abstrăhere: comp. di ăbs “da” e trăhere “trarre”) equivale ad “allontanare”, “separare” o “distaccare”. In questo senso, il burattino, ch’è appunto allontanato, separato o distaccato dal soggetto (dal burattinaio) che lo muove, è dunque astratto.
Quanto detto per il burattino, vale però per tutto il mondo inorganico: anch’esso è infatti astratto, poiché è separato (come un cadavere) dalla vita, dall’anima e dallo spirito (dall’Io).
Si deve giudicare dunque “astratta” ogni realtà che ha fuori di sé la propria essenza o, per così dire, la propria “ragion d’essere”.
Ma riprendiamo la nostra lettura.
Scrive Steiner: “Per l’inorganico vi è da osservare come essenziale il fatto che il fenomeno, nella sua varietà, non è identico alla legge che lo spiega, ma addita semplicemente questa come qualcosa di esteriore. La percezione, l’elemento materiale della conoscenza, che ci è data attraverso i sensi esteriori, e il concetto, l’elemento formale, attraverso cui noi riconosciamo necessaria la percezione, si contrappongono come due elementi che in verità si postulano obiettivamente l’un l’altro, ma in modo che il concetto non sta nei singoli membri di una stessa serie di fenomeni, ma nel rapporto di questi tra di loro. Questo rapporto, che riassume la varietà in un tutto unitario, è fondato nelle singole parti del dato, ma nella sua totalità (come unità) non assurge a manifestazione reale, concreta. All’esistenza esteriore – nell’oggetto – pervengono solo i membri di questo rapporto. L’unità, il concetto, si manifesta come tale solo nel nostro intelletto” (pp. 55-56).
Potremmo perfino dire, volendo, che la legge sta al fenomeno inorganico così come l’”imperativo categorico” kantiano sta all’essere umano. Come la prima risiede infatti all’esterno o al di sopra del fenomeno, nella mente dell’uomo, così il secondo risiede all’esterno o al di sopra dell’uomo, nella mente di Dio.
Ripensiamo comunque all’automobile. Che cos’è propriamente un’automobile? Un assemblaggio di parti: di parti che, in quanto appunto assemblate o messe in rapporto tra loro, si presentano come un’unità. Questa unità (il concetto) non dimora però nell’automobile, ma nella testa del soggetto che l’ha ideata e costruita.
“Nella natura organica – prosegue Steiner – le parti di uno stesso essere non stanno tra loro in un tale rapporto esteriore. L’unità si realizza nell’oggetto percepito contemporaneamente alla varietà e come identica a questa. Il rapporto fra i singoli membri di un insieme di fenomeni (organismo) è diventato qualcosa di reale. Non assurge più a manifestazione concreta solo nel nostro intelletto, bensì nell’oggetto stesso, nel quale estrinseca la varietà attingendola in se stesso. Il concetto non ha semplicemente la funzione di una somma, di un riassunto che abbia il suo oggetto fuori di sé; con questo si è completamente unificato. Quel che vediamo non è più diverso da ciò per mezzo di cui pensiamo il veduto; vediamo il concetto stesso come idea (…) L’idea, mediante la quale comprendiamo l’organico, è dunque essenzialmente differente dal concetto, mediante il quale spieghiamo l’inorganico; essa non riassume semplicemente, come una somma, una molteplicità data, bensì estrinseca da sé il suo proprio contenuto” (p. 56).
Questo spiega il perché Goethe abbia asserito, nei suoi Detti in prosa: “Il concetto è somma, l’idea è risultato dell’esperienza; a compiere quella ci vuole l’intelletto, per afferrare questo occorre la ragione” (p. 55).
Della differenza tra intelletto (concetto) e ragione (idea), Steiner scrive: “Concetto è il pensiero singolo quale viene fissato dall’intelletto. Se metto in movimento, in un vivo fluire, una pluralità di siffatti singoli pensieri, sì che essi si interpenetrino e si colleghino, ne nascono delle figurazioni di pensiero accessibili solo alla ragione, irraggiungibili dall’intelletto. Per la ragione, le creature dell’intelletto rinunciano alle loro esistenze separate e continuano a vivere soltanto come parte di un tutto. Chiameremo idee queste configurazioni create dalla ragione”; l’intelletto è dunque analitico, mentre la ragione non solo è sintetica, ma è anche capace “di percepire le idee” (Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, pp. 63-64).
La ragione non potrebbe però percepire le idee se queste non fossero reali.
Abbiamo già fatto il nome, una sera, di John Searle (n.1932), uno dei maggiori filosofi americani contemporanei. Egli distingue, in modo netto, i seguaci (come lui) del “realismo” da quelli dell’”antirealismo” (cfr. Mente, linguaggio, società – Cortina, Milano 2000).
Il suo è però un realismo delle “cose”, e non, come quello di Goethe e di Steiner, un realismo delle “idee”. Penso ricordiate che questo tipo di realismo viene definito, ne La filosofia della libertà, “ingenuo” o “primitivo” proprio perché, non avendo realizzato (criticamente) che le cose sono idee, crede (acriticamente) che le idee siano cose.
Non si tratta comunque di sostituire un convincimento unilaterale con un convincimento opposto, e altrettanto unilaterale; si tratta piuttosto d’integrare il primo con il secondo, non già astrattamente, bensì realizzando che se le idee, dal punto di vista della percezione sensibile, sono cose, le cose, dal punto di vista della percezione spirituale, sono idee.
Risposta a una domanda
E’ vero: il pensiero ordinario consente di conoscere non solo le macchine, ideate e costruite dall’uomo, ma anche – come dice – i cristalli, che non sono stati né ideati né costruiti dall’uomo.
Ma la nostra attitudine a considerare ugualmente “morto”, sia ciò che è stato vivo (come le piante, gli animali e gli esseri umani), sia ciò che non lo è mai stato (come appunto i minerali), dipende appunto dal fatto che l’intelletto si trova perfettamente a suo agio con entrambi.
Dell’idea o dell’entelechia, Steiner dice ancora: “L’entelechia fondata su se stessa comprende un numero di forme configuratrici sensibili, una delle quali deve essere la prima e un’altra l’ultima; e l’una può seguire l’altra sempre e solo in un determinato modo. L’unità ideale estrinseca da sé una serie di organi sensibili in sequenza temporale e in contiguità spaziale e si ritira in modo del tutto determinato dalla restante natura. Genera dalla propria interiorità i suoi vari stati. Perciò questi sono comprensibili solo per chi segua il configurarsi di stati successivi, procedenti da un’unità ideale; e ciò vale a dire che un essere organico è comprensibile solo nel suo divenire, nel suo sviluppo” (p. 58).
Quest’ultima cosa potrebbe essere detta anche così: un essere organico è comprensibile solo nel tempo.
Non perché – si badi – tale essere divenga nel tempo, ma perché il suo divenire e la sua vita sono il suo tempo (il suo corpo eterico). Questo spiega anche il perché un essere inorganico, in quanto divenuto o stato (corpo fisico), può essere invece compreso solo nello spazio.
Scrive appunto Steiner: “Il corpo inorganico è conchiuso, rigido, eccitabile solo dal di fuori, ma internamente immobile. L’organismo è l’irrequietezza stessa, perpetuamente mutevole, trasformantesi da dentro a fuori, in continue metamorfosi. A questo si riferiscono le seguenti espressioni di Goethe: “La ragione è rivolta al divenire, l’intelletto al divenuto; quella non chiede: a che?; questo non chiede: donde? Quella si compiace dello sviluppo; questo vuol tutto consolidare affinché serva” (Detti in prosa)” (p.58).
Ebbene, a proposito di ”a che?”, di “servire” o, in una parola, di ”utilità”, ricordate cosa dice Giulio Barsanti del sistema di Linneo? Che nonostante fosse, per molti aspetti, “artificiale” (tanto da “trasfigurare” addirittura la natura) venne preferito a quello “più naturale” di Joseph Pitton de Tournefort perché, costituendo la sua artificialità “un grande vantaggio per la scienza botanica”, si dimostrava per l’appunto più utile.
Allo stesso proposito, Werner Heisenberg, in un breve saggio in cui pone a confronto la teoria dei colori di Goethe con quella di Newton, riconosce che la teoria di Newton si è dimostrata praticamente più utile, ma al contempo si domanda se sia realmente corretto considerare “più vero” quanto risulta semplicemente “più utile”.
Bisognerebbe stare attenti, tuttavia, a non opporre a una menzogna “utile” una verità “inutile”.
Ci si dovrebbe piuttosto chiedere: a chi è utile la menzogna? E a chi è utile la verità? Così facendo, si potrebbe arrivare infatti a capire che la menzogna è utile a quanti si pongono al servizio della sola parte materiale dell’uomo, spacciandola per tutto l’uomo, mentre la verità è utile a quanti si pongono effettivamente al servizio di tutto l’uomo, e perciò anche della sua parte materiale.
Ancor oggi molti s’illudono di poter contrapporre, alla bruta praticità della moderna cultura tecnico-scientifica, l’astratta (e, tutto sommato, narcisistica) meditatività o contemplatività della cultura classica (umanistica), quando sarebbe invece urgente opporre, alla praticità esclusivamente materiale e strumentale della prima, una praticità più alta e più ricca: ovvero, una praticità (quasi “artistica”) che fosse utile (come quella della scienza dello spirito) non solo al corpo, ma anche all’anima e allo spirito.
Ma torniamo a noi.
Scrive Steiner: “L’organismo ci viene incontro nella natura in due forme principali: come pianta e come animale; in entrambi in modo differente. La pianta si distingue dall’animale per la mancanza di una reale vita interiore. Nell’animale questa sorge come sensazione, come libero movimento, ecc.. La pianta non ha un tale principio animico. Si estrinseca ancora completamente nella sua esteriorità, nella sua figura” (p. 58).
Abbiamo detto e ripetuto che la realtà inorganica ha la propria ragion d’essere fuori di sé, mentre la realtà organica l’ha in sé. Questa è però presente come spirito (come Io individuale) nell’uomo, come anima (come corpo astrale o Io collettivo) nell’animale, e come vita (come corpo eterico) nella pianta.
Ciò fa sì che quest’ultima non possa che donare se stessa al proprio ambiente e, riversando tutto ciò che ha in sé fuori di sé, accordare così al mondo la “gratia plena” delle sue forme, dei suoi colori, dei suoi profumi, dei suoi fiori, dei suoi frutti, e financo delle sue virtù terapeutiche.
Sarebbe importante meditare questa realtà, poiché un esercizio del genere potrebbe portare molto, ma molto lontano.
Basti qui accennare al fatto che la pianta in tanto riversa fuori di sé tutto ciò che ha in sé in quanto, non avendo un corpo astrale, e quindi delle sensazioni e delle brame, è pura, immacolata o casta.
Muovendo dalla terra verso il cielo, e non avendo una propria volontà (un ego) da imporre o far valere, è come se facesse infatti eco alla Vergine, dicendo: “Ecce ancilla Domini; Fiat mihi secundum verbum tuum”.
Roma, 21 novembre 2000