Cominciamo subito a leggere:
“La differenza tra piante e animali, assodata da Goethe con queste concezioni, poteva apparire senza importanza di fronte ai dubbi giustificati che la scienza moderna solleva intorno all’esistenza di un definito confine tra piante e animali. Ma Goethe era già consapevole dell’impossibilità di erigere un simile confine. Eppure egli dà determinate definizioni di pianta e di animale. Ciò è connesso con tutta la sua concezione della natura. Egli non attribuisce in generale nulla di costante, di fisso al fenomeno, perché in esso tutto ondeggia in perpetuo movimento. Ma l’essenza di una cosa, da fissarsi in un concetto, non si ricava dalle forme mutevoli, ma da determinati stadi medi in cui essa si può osservare” (pp. 64-65).
Che cosa vuol dire che “l’essenza di una cosa, da fissarsi in un concetto, non si ricava dalle forme mutevoli, ma da determinati stadi medi in cui essa si può osservare”?
Ci sarà più facile comprenderlo, se penseremo ad esempio al rapporto tra l’anima e le sue facoltà: il pensare, il sentire e il volere.
Sappiamo che quelle del pensare e del volere, pur essendo attività dell’anima, sono rispettivamente condizionate, in alto, dallo spirito (dall’Io) e, in basso, dal corpo: sappiamo trattarsi, cioè, di “forme mutevoli” da cui non si “ricava” l’essenza dell’anima “da fissarsi in un concetto”.
E da che cosa la si può allora ricavare? Dall’attività del sentire, che rappresenta per l’appunto un determinato “stato medio”.
Come però, nell’anima, l’attività del sentire si situa tra quella del pensare e quella del volere, così, nella pianta, l’attività della foglia si situa tra quella della radice e quella del fiore (o del frutto).
E’ per questo che Goethe, nell’ambito fenomenico, coglie proprio nella foglia la più attendibile (verosimile) manifestazione dell’essenza della pianta.
Osserva Steiner: “Mentre il darwinismo deve presupporre un organismo primordiale, si può dire di Goethe ch’egli ha scoperto l’essenza di quell’organismo primordiale”; e spiega poi (in nota): “Nella dottrina moderna della natura s’intende comunemente per organismo primordiale una cellula primordiale (protocitode), cioè un essere semplice che sta sull’infimo scalino dell’evoluzione organica. Si ha qui in vista un essere assolutamente determinato, reale e sensibile. Quando invece si parla di organismo primordiale, nel senso goethiano, non si tratta di qualcosa di visibile, ma di quell’essenza, di quel principio formativo, entelechiale, il quale fa di quella cellula primordiale un organismo. Questo principio si manifesta tanto nell’organismo più semplice, quanto nel più perfezionato, solo in un diverso sviluppo” (p. 65).
Che ci sia un rapporto tra la “cellula primordiale” e la vita è indubbio; resta però da stabilire se si debba spiegare, come fa la “dottrina moderna della natura”, la seconda mediante la prima o, come fanno Goethe e Steiner, la prima mediante la seconda.
Ma perché tale “dottrina” spiega la vita mediante la cellula (primordiale)? E’ ovvio: perché la cellula la vede, mentre la vita non solo non la vede, ma non sa neppure che cosa sia.
Ove si affermi, con Goethe e Steiner, ch’è la vita a spiegare la cellula, si dovrà essere dunque pronti a spiegare che cosa sia la vita, ritrovandosi così alle prese con il problema del come, o del modo in cui, va pensato l’extrasensibile.
Ma quanti sono oggi a porsi un problema del genere? Nella convinzione generale che il ben dell’intelletto (del “lume naturale”) è il pensare, e non un pensare, è più che raro, infatti, che a qualcuno venga in mente che il pensiero intellettuale (rappresentativo) sia idoneo a pensare alcune cose, ma non altre, e che, per pensare le altre, occorra un pensiero diverso e superiore.
E’ più che raro, in altri termini, trovare qualcuno disposto ad ammettere che, nell’ambito animico-spirituale, regna una serie ascendente di gradi di coscienza, così come in quello naturale “domina una serie ascendente di stadi evolutivi”.
Scrive appunto Steiner: “Tanto nel regno vegetale, quanto in quello animale domina una serie ascendente di stadi evolutivi. Gli organismi si dividono in perfetti ed imperfetti. Come ciò è possibile? La forma ideale, il tipo degli organismi ha precisamente la caratteristica di consistere di elementi spaziali e temporali. Perciò apparve anche a Goethe come una forma sensibile-soprasensibile. Contiene forme spaziali e temporali come osservazione ideale (intuitiva). Ora, quando la forma reale (non più intuitiva) sensibile si manifesta essa può corrispondere più o meno completamente a quella ideale; il tipo può giungere al suo completo sviluppo o no” (p. 67).
Dal momento che il “tipo” (contenente allo stato potenziale “forme spaziali e temporali”) si sviluppa in forma A nell’ambiente A, in forma B nell’ambiente B, in forma C nell’ambiente C, e così via, potremmo affermare (come fanno, in campo etico e noetico, i “relativisti”) che tali forme si equivalgono, in quanto rimandano tutte a uno stesso “tipo”.
Se affermiamo, dunque, che vi è una “serie ascendente” (una gerarchia) delle forme, e che una pianta può essere perciò più evoluta di un’altra, è perché teniamo conto del fatto che com’è vero, per un verso, che il “tipo” non s’incarna mai compiutamente, così è vero, per l’altro, che esistono organismi nei quali tale essenza soprasensibile attua poche delle sue potenzialità, altri in cui ne attua di più, e altri ancora in cui ne attua quasi la totalità.
Prosegue infatti Steiner: “Gli organismi inferiori sono tali appunto perché la loro forma fenomenica non corrisponde compiutamente al tipo organico. Quanto più il fenomeno e il tipo organico coincidono in un determinato essere, tanto più questo è perfetto. Questa è la ragione obiettiva di una serie ascendente di sviluppo”; e poco dopo aggiunge: “Le crittogame sono appunto piante in cui la pianta primordiale si manifesta nel modo più unilaterale; esse rappresentano l’idea della pianta in una forma sensibile unilaterale. Possono venir valutate in base all’idea stabilita; ma quest’idea stessa assurge a completa manifestazione solo nelle fanerogame” (p. 67).
Ed eccoci arrivati a quella che Ernst Haeckel (1834-1919) chiama la “legge fondamentale biogenetica”. Scrive appunto: “Io aveva già rilevato nella mia Morfologia generale (alla fine del quinto libro) come uno dei concetti più importanti del trasformismo, lo stretto nesso causale che, secondo la mia convinzione, esiste tra i due rami della storia dello sviluppo organico, e vi aveva data un’espressione precisa in diverse Tesi del nesso causale dell’evoluzione biontica e filetica: “L’ontogenesi è una breve e rapida ricapitolazione della filogenesi, determinata dalle funzioni fisiologiche dell’eredità (riproduzione) e dell’adattamento (nutrizione)”” (I problemi dell’universo – UTET, Torino 1904, pp. 106-107).
“Dai concetti di Goethe – scrive a questo proposito Steiner – otteniamo anche una spiegazione ideale del fatto, trovato da Darwin e Haeckel, che la storia dello sviluppo dell’individuo rappresenta una ripetizione della storia della specie. Poiché ciò che Haeckel presenta non può essere preso per più che un fatto inspiegato. E’ il fatto che ogni individuo percorre in forma abbreviata tutti gli stadi di sviluppo che la paleontologia ci mostra come forme organiche distinte. Haeckel e i suoi seguaci lo spiegano con la legge dell’ereditarietà. Ma anche questa non è che un’espressione abbreviata per il fatto citato. La spiegazione è che quelle forme, come pure ogni individuo, sono le forme fenomeniche di una medesima forma primordiale, che in periodi successivi di tempo sviluppa le forze formative secondo le possibilità in essa giacenti. Ogni individuo superiore è più perfetto appunto perché dai favorevoli influssi del suo ambiente non è stato impedito di svilupparsi in piena libertà secondo la sua intima natura. Se invece l’individuo è costretto, da diversi influssi, a rimanere su di un gradino inferiore, allora si sviluppano solo alcune delle sue forze inferiori, e per esso diventa un tutto ciò che per quell’individuo più perfetto è solo una parte del tutto. A questo modo l’organismo superiore, nel suo sviluppo, appare composto dagli organismi inferiori, o anche gli inferiori appaiono, nel loro, parti di quello superiore” (pp. 68-69).
Come vedete, affinché una facoltà o proprietà possa – come si dice oggi – “emergere” è necessario che si creino una serie di presupposti che finiscono così col rappresentare una sorta di storia della manifestazione di tale facoltà.
Non meraviglia dunque che il “tipo”, per poter far emergere una sua nuova e più alta facoltà, debba ripercorrere, seppure in breve, tutte le fasi che ha dovuto attraversare per permetterle di giungere a maturazione.
L’organismo umano in tanto è dunque superiore a quello animale in quanto è appunto composto, nel suo sviluppo, dagli organismi animali, oppure in quanto gli organismi animali appaiono, nel loro, parti di quello umano.
Ciò però significa che, nell’uomo, è presente e operante un principio (l’Io) che supera non solo quello che governa il regno minerale e il regno vegetale, ma anche quello che governa il regno animale.
“Come il fisico – osserva Steiner – non si contenta di enunciare e descrivere i fatti, ma ne ricerca le leggi, cerca cioè i concetti dei fenomeni, così a colui che vuol penetrare nella natura degli esseri organici non può bastare l’addurre semplicemente i fatti dell’affinità, ereditarietà, lotta per l’esistenza, ecc.; egli vuol conoscere le idee che sono alla base di queste. In Goethe troviamo questa aspirazione” (p. 69).
Che cosa vuol dire qui Steiner? Che l’affinità, l’ereditarietà o la lotta per l’esistenza, rappresentando i mezzi con i quali il “tipo” persegue i suoi fini (se stesso), possono spiegare come il “tipo” li persegua, ma non il perché li persegua.
“Si sostiene – prosegue – che il concetto della metamorfosi, nel senso goethiano, sarebbe una semplice immagine formatasi solo nel nostro intelletto per via di astrazione (…) Si capovolgono le concezioni di Goethe, se si pone come primo e principale un organo sensibile e se ne deriva poi il resto in maniera accessibile ai sensi. Egli non ha mai inteso di dir ciò. Per lui ciò che è primo nel tempo non lo è affatto nell’idea, nel principio. Gli stami e le foglie non sono oggi affini perché i primi furono una volta foglie; bensì perché sono affini idealmente, secondo la loro intima essenza, essi apparvero una volta come vere foglie. La trasformazione sensibile è solo la conseguenza dell’affinità ideale, e non viceversa” (p. 69).
Come vedete, si tratta della stessa difficoltà sollevata dal concetto di “vita”: anche quello di “metamorfosi” è infatti il concetto di un processo (che vive nel tempo), e non di una “cosa” (che giace nello spazio).
Il che sta a significare che il suo vivo e ininterrotto fluire si muta in una statica e “semplice immagine formatasi solo nel nostro intelletto per via di astrazione” solo nel momento in cui ce lo rappresentiamo, così come si muterebbe in una altrettanto statica e “semplice immagine” un ruscello, un torrente o un fiume nel momento stesso in cui lo dipingessimo o lo fotografassimo.
Fatto si è che noi pensiamo il mondo reale grazie a quello ideale, ma non pensiamo reale il mondo ideale; e non lo pensiamo tale – lo abbiamo detto – perché non lo percepiamo.
Potremmo arrivare però a percepirlo ove avessimo il coraggio di cambiare noi stessi, votandoci allo studio e all’esercizio interiore.
Quando si considerano, ad esempio, le cose straordinarie che, in virtù di un costante esercizio fisico, riescono a fare i giocolieri o gli acrobati, viene da pensare alle cose “extra-ordinarie” che, in virtù di un costante esercizio spirituale, tutti noi potremmo fare nel campo della conoscenza: come riuscire, ad esempio, a pensare e conoscere quanto viene ordinariamente ritenuto impensabile o inconoscibile.
Non dimentichiamo, a questo preciso proposito, che la scienza dello spirito è appunto una “pratica” del pensiero, e non un’astratta speculazione, e che tale pratica contempla innanzitutto l’osservazione del pensiero.
“La peculiare natura del pensare – spiega infatti Steiner – consiste nel fatto che il pensante dimentica il pensare mentre lo compie. Non è il pensare che occupa il pensante, ma l’oggetto osservato su cui pensa”. Essendo il pensare “l’elemento inosservato della vita ordinaria del nostro spirito”, la sua osservazione è dunque “la più straordinariamente importante di quante” sia possibile farne (La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p. 35 e 38).
Soltanto chi riesce a osservare o percepire il pensare (grazie all’esercizio della “concentrazione”) è in grado infatti di riconoscerlo come una realtà (eterica).
Il concetto di “metamorfosi”, tornando a Goethe, non è dunque un’astratta, brillante o “prelibata” idea, bensì un concetto in cui è implicato un movimento o un processo che ha, essenzialmente, la medesima natura di quel pensare che, immaginandolo, l’afferra.
Per Goethe, dice Steiner, “ciò che è primo nel tempo non lo è affatto nell’idea, nel principio. Gli stami e le foglie non sono oggi affini perché i primi furono una volta foglie; bensì perché sono affini idealmente, secondo la loro intima essenza, essi apparvero una volta come vere foglie”.
Ciò vuol dire che l’affinità tra gli stami e le foglie non deriva dal fatto che gli stami, prima di diventare tali, sono stati foglie, bensì dal fatto che tanto gli uni che le altre sono forme di manifestazione di una medesima essenza.
Considerate, ad esempio, il rapporto in cui una statua sbozzata sta con quella finita, immaginando però (dal momento che ci stiamo riferendo alla realtà organica) che lo scultore si trovi nel blocco di marmo e lo modelli perciò dall’interno.
Come si vede, la statua abbozzata è “prima nel tempo” rispetto alla statua finita, ma non rispetto allo scultore: vale a dire, al “tipo”, all’“idea” o al “principio”.
Lo scultore interiore, cioè la “statua-concetto”, precede dunque (sul piano dell’essere) la statua sbozzata (sul piano dell’esistere), così come questa precede, a sua volta (sempre sul piano dell’esistere) la statua finita. Ciò che è “ultimo” (omèga) dal punto di vista esistenziale o della percezione sensibile è dunque “primo” (alfa) dal punto di vista essenziale o della percezione spirituale.
“Solo quando il filosofo – osserva giusto Steiner – considererà l’assolutamente ultimo come suo primo, potrà arrivare alla sua meta. E l’assolutamente ultimo cui è pervenuta l’evoluzione del mondo è il pensare” (ibid., p 44).
Considerazioni del genere dovrebbero peraltro valere anche per l’origine della specie umana. Chi è stato infatti, se non appunto “l’uomo-concetto” (l’Io), ad attraversare una serie di stadi per metamorfosarsi poi in quel particolare ”uomo-percetto” che chiamiamo Homo sapiens (ma che, a dire il vero, sarebbe più appropriato chiamare Homo intellĕgens od Homo cerĕbri)?
Questo moderno “uomo-percetto”, o uomo dell’ego, è però l’”uomo-concetto”, o l’uomo dell’Io, “sbozzato”, e non ancora dunque “finito” o, per meglio dire, attuato o incarnato.
La natura lo ha portato infatti a tale stadio evolutivo (quello dell’anima cosciente) perché, muovendo da questo, potesse consapevolmente e volontariamente proseguire e completare la sua evoluzione.
Si può dunque diventare uomini o non diventarlo, poiché la natura ha predisposto le cose in modo che la nostra evoluzione possa raggiungere il suo obiettivo, e non in modo che debba raggiungerlo. Torniamo però a noi.
Scrive Steiner: “Come ogni nuovo pianeta che si scopre deve, secondo le leggi di Keplero, girare intorno alla sua stella fissa, così deve succedere per ogni processo nella natura organica, secondo le idee di Goethe. I processi del cielo stellato si vedevano molto prima di Keplero e Copernico. Questi ne trovarono per primi le leggi. Molto prima di Goethe si osservava il regno naturale organico. Goethe ne scoprì le leggi. Goethe è il Copernico e il Keplero del mondo organico” (p. 70).
L’odierna scienza materialistica è ben lungi, tuttavia, dal considerarlo tale.
Ciò però dipende soprattutto dal fatto che l’apprendimento di tale scienza richiede più intelligenza e zelo applicativo che non un attivo e approfondito impegno di pensiero (coinvolgente, in quanto tale, l’anima).
Intendiamoci, non è che chi frequenta la scuola o l’Università non sia attivo, ma lo è appunto per imparare, per sapere e per ricordare (confidando, magari, in un futuro e proficuo investimento del “capitale intellettuale” così accumulato), ma non di certo per educare e formare se stesso, tanto da arrivare per esempio a dirsi: “Se non maturo nel pensare mai potrò capire la realtà che mi circonda”; “Se non maturo nel sentire mai potrò sperimentare la mia stessa umanità”; “Se non maturo nel volere mai potrò agire in libertà e con amore”.
Oggi, tuttavia, si guarda sempre più all’”informazione” e sempre meno alla “formazione”.
Ma anche l’informazione forma. E come forma? Qual è, ossia, la qualità della formazione data dall’informazione? Nessuno lo sa.
Corriamo dunque il rischio, informando, di dare inavvertitamente forma a qualcosa che potrebbe riservarci in avvenire amare sorprese.
Roma, 5 dicembre 2000