Riprendiamo subito la nostra lettura.
E’ interessante vedere – scrive Steiner – “come Goethe stesso, di fronte agli studiosi empirici della natura, entri in campo per i diritti della ricerca sperimentale, e per la rigorosa separazione di idea e oggetto. Nel 1796 Sömmerring (Samuel Thomas von Sommerring, anatomista, 1755-1830 – nda) gli manda un libro, in cui fa il tentativo di scoprire la sede dell’anima. Goethe, in una lettera diretta a Sömmerring il 28 agosto 1796, dice che questi aveva intessuta troppa metafisica nelle sue vedute, e che un’idea su gli oggetti dell’esperienza non ha nessuna giustificazione quando li trascenda, e non sia fondata nell’essenza degli oggetti stessi. L’idea deve essere, di fronte agli oggetti dell’esperienza, un organo per comprendere come connessione necessaria ciò che altrimenti sarebbe puramente percepito come cieco rapporto di contiguità nello spazio e successione nel tempo. Dal fatto che l’idea non può aggiungere nulla di nuovo all’oggetto, segue che quest’ultimo stesso è, secondo la propria essenza, qualcosa di ideale e che, in genere, la realtà empirica deve avere due lati: uno per cui è speciale, individuale, l’altro per cui è ideale-universale” (p. 71).
Se l’idea non fosse un “organo” deputato a comprendere, al di là della sfera dello spazio e del tempo, l’essenza degli oggetti e la loro “connessione necessaria”, potremmo solo asserire che A sta accanto a B, che B sta accanto a C, che C sta accanto a D, ecc., oppure che A viene prima di B, che B viene prima di C, che C viene prima di D, ecc., e mai potremmo accedere a quella “connessione necessaria” (qualitativa) che ci consente ad esempio di affermare che A è causa di B e che B è effetto di A.
C’è dunque un’abissale differenza tra il “farsi – come si dice – un’idea” sulle cose (e sui loro rapporti) e l’afferrare l’idea nelle cose (e nei loro rapporti): ovvero, tra il “farsi venire”, l’escogitare o l’inventare un’idea e lo scoprirla.
Le idee fanno infatti parte della realtà, in quanto sono l’altra faccia delle cose.
Immaginate di osservare un oggetto, che so, una poltrona. Con gli occhi, non la vedrete mai tutta, ma ne vedrete sempre e soltanto una parte; posto che si trattasse di quella anteriore, per vedere quella posteriore, dovreste muovere voi o la poltrona.
Ebbene, è un po’ quanto dovremmo fare ove volessimo vedere l’altra faccia delle cose, con l’ovvia differenza che dovremmo, in questo caso, compiere un movimento interiore: ossia, passare col nostro sguardo o con la nostra attenzione dall’oggetto materiale (percepito mediante i sensi fisici) a quello ideale (percepito mediante il pensiero).
Teniamo ben presente, però, che tra la cosa e l’idea della cosa (l’idea nella cosa) si frappone la nostra natura personale (psico-fisica) che ci nasconde la realtà, facendoci vedere, come in uno specchio, sempre e soltanto noi stessi.
Come vedete, quello di vincere o superare noi stessi (il nostro narcisismo o egoismo) non è un compito soltanto morale, bensì anche, e in primo luogo, conoscitivo. Chi mai, d’altro canto, potrebbe vincere o superare se stesso sul piano del sentire e del volere, se non si fosse prima vinto o superato su quello del pensare?
La natura – scrive Goethe – “recita uno spettacolo; se lei stessa lo veda, non sappiamo; eppure lo recita per noi, spettatori seduti in un angolo” (Frammento sulla natura in Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol. V, p. 21).
Noi sappiamo però che lo vede, ma che lo vede solamente se lo vedono gli spettatori per cui lo recita. E perché questi non sempre lo vedono? E’ presto detto: perché non sono “puri”: perché non si sono portati, cioè, al di là della loro natura personale.
Dice infatti il Cristo: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”.
Parafrasando, potremmo dunque dire: “Beati i puri di cuore, perché vedranno l’idea”; e la vedranno perché il puro pensiero del cuore non è tanto un fatto “logico” quanto un atto del Logos: ossia un atto dell’anima e dello spirito o, in una parola, d’amore.
Ma torniamo a noi.
Dopo aver ricordato che Goethe, a seguito dei contatti avuti con alcuni filosofi suoi contemporanei (F.W.J. Schelling, 1775-1854; H. Steffens, 1773-1845; G.W.F. Hegel, 1770-1831), mise a frutto le sue riflessioni in una decina di brevi saggi, Steiner scrive: “Questi saggi esprimono il pensiero già sopra accennato, che ogni oggetto ha due lati, quello immediato del suo apparire (forma fenomenica) e l’altro che contiene la sua essenza. Così Goethe raggiunse la sola concezione soddisfacente della natura, che stabilisce l’unico metodo veramente obiettivo. Quando una teoria considera l’idea come qualcosa di estraneo all’oggetto stesso, di semplicemente soggettivo, non può pretendere di essere veramente obiettiva, anche quando in genere si serve dell’idea. Goethe invece può sostenere di non aggiungere nulla agli oggetti che in essi non sia già contenuto” (p. 72).
Una cosa è dunque “scervellarsi” a ipotizzare, supporre, presumere, opinare o congetturare, altra mettere a tacere noi stessi per poter così udire ciò che gli oggetti rivelano.
Dal punto di vista psicodinamico, il “non aggiungere nulla agli oggetti che in essi non sia già contenuto” equivale al non “proiettare” su di essi nulla; e ben sanno gli psicoterapeuti che il cosiddetto “ritiro delle proiezioni” è parte integrante del processo di guarigione.
Proprio per questo – come spero ricorderete – parlai, a suo tempo, de La filosofia della libertà come di un testo di “logodinamica”: come di un testo, cioè, in cui i rapporti tra il corpo, l’anima e lo spirito (tra la percezione, la rappresentazione e il concetto) vengono presentati come un gioco di forze, e quindi in un modo dinamico analogo a quello in cui Freud, ad esempio, presenta quelli tra l’Es, l’io e il Super-io.
Al riguardo, abbiamo parlato prima di “purezza”, ma avremmo potuto anche parlare di “castità”: di quella castità che fa dire a Paolo: “Non io, ma il Cristo in me”, e che potrebbe far dire a Goethe: “Non io, ma l’oggetto o il fenomeno in me”.
Pensate che Arturo Toscanini (se non ricordo male) parlava di “castità” interpretativa, alludendo proprio a quegli esecutori o a quei direttori capaci di mettere tutto il loro talento al servizio dell’autore, e non di se stessi.
Ma che cos’è – per tornare a noi – quel ch’è “già contenuto” negli oggetti? E’ l’universale, “già contenuto”, appunto, nel particolare (o nell’individuale).
Scrive infatti Steiner: “L’essenza del particolare non è affatto esaurita in questa sua particolarità; essa, per venire compresa, spinge verso qualcosa che non è particolare, ma universale. Questo universale-ideale è il vero essere – l’essenza – di qualunque particolare, che ha nella particolarità solo un lato della sua esistenza, mentre l’altro è l’universale, il tipo (…) Così si deve intendere quando si parla del particolare come di una forma dell’universale. Poiché, dunque, il vero essere, il contenuto del particolare, è l’universale-ideale, è impossibile che quest’ultimo sia derivato dal particolare, astratto da esso. Esso, non potendo prendere a prestito da nessuna parte il proprio contenuto, deve darselo da sé. Con ciò l’universale-tipico è quello in cui contenuto e forma sono identici; per conseguenza può essere compreso solamente come un tutto, indipendente dal singolo” (p. 74).
Qui si dice “contenuto” e “forma”, ma noi ci siamo abituati a parlare di “forza” e di “forma”. Nell’”universale-tipico”, vale a dire nel concetto, nell’idea vivente, nell’essenza o nell’entelechia, sono infatti “identici” (un’unità) tanto il contenuto e la forma quanto la forza e la forma.
I filosofi, al riguardo, ci hanno insegnato a distinguere il “reale” (che percepiamo) dall’”ideale” (che pensiamo). Ma per quale ragione giudichiamo “reale” il reale e “ideale” l’ideale? Per una ragione soltanto: perché il primo lo sperimentiamo (percependolo) con la volontà, mentre il secondo lo sperimentiamo (rappresentandolo) con il pensiero. E non c’è indubbiamente confronto tra la viva e corposa esperienza delle cose fatta dalla volontà e quella esangue e astratta fatta invece dal pensiero (ordinario).
Ciò sta però a significare, non che percepiamo il reale perché è “reale”, bensì che il reale è “reale” perché lo percepiamo, sperimentandolo come una forza.
Ove facessimo solo questo, mai potremmo però dare forma a tale forza: mai potremmo cioè determinarla o qualificarla. Potremmo sapere, ad esempio, che accanto a noi c’è un qualcosa di vivo che emana un certo odore, si muove, scalpita e magari nitrisce, ma mai potremmo determinarlo e qualificarlo come “cavallo”. Per farlo, ossia per dare forma a tale forza indeterminata abbiamo bisogno infatti del concetto, e quindi del pensiero. Di norma, tuttavia, non sappiamo nulla del concetto quale forza capace – perdonate il gioco di parole – di dare forma a una forza. Sappiamo infatti solo della rappresentazione: vale a dire, di una forma che ha ormai esaurito la forza.
Un conto è dunque il concetto, altro la coscienza del concetto: ed è proprio la coscienza riflessa, intellettuale o cerebrale del concetto a dar luogo alla rappresentazione.
Che cos’è dunque la rappresentazione? Il frutto della coscienza morta della realtà viva, e quindi il non-essere dell’essere (del concetto o dell’idea).
E qual è allora il compito? Conquistarsi, educando, rafforzando e sviluppando il pensiero, una coscienza viva della realtà viva, e quindi dell’essere dell’essere.
Solo così potremo infatti vedere l’idea nella realtà e la realtà nell’idea, scoprendo dunque che l’ideale è il reale e che il reale è ideale.
Direi di passare, a questo punto, al quarto capitolo, intitolato: Conclusione sulle concezioni morfologiche di Goethe. Si tratta di un breve capitolo che sta in stretto rapporto con ciò di cui ci siamo appena occupati.
Scrive Steiner: “Le opinioni sugli studi scientifici di Goethe sono divise in due campi. I rappresentanti del monismo moderno, con a capo il professor Haeckel, riconoscono in Goethe il profeta del darwinismo, che, d’accordo con loro, concepisce l’organico dominato dalle stesse leggi che sono attive nella natura inorganica. Ciò che a Goethe mancava, sarebbe stato solamente la teoria della selezione, per mezzo della quale Darwin per primo avrebbe fondato la concezione monistica del mondo e innalzato la teoria dell’evoluzione a convinzione scientifica. Di fronte a questo punto di vista ne sta un altro che ritiene l’idea goethiana del tipo non essere altro che un concetto generale, un’idea nel senso della filosofia platonica. Goethe avrebbe invero fatto alcune singole affermazioni che ricordano la teoria dell’evoluzione; a questa egli sarebbe giunto attraverso al panteismo insito nella sua natura; ma non avrebbe sentito nessuna necessità di progredire al suo ultimo fondamento meccanico. Perciò non si potrebbe parlare per lui di teoria dell’evoluzione nel senso moderno della parola” (pp. 77-78).
Come vedete, il monismo dei materialisti e dei meccanicisti, che risolve il dualismo cartesiano riducendo la “res cogitans” alla “res extensa”, o concependo “l’organico – come dice Steiner – dominato dalle stesse leggi che sono attive nella natura inorganica”, è cosa ben diversa dal monismo di Goethe.
Quest’ultimo (come quello di Steiner) è infatti un monismo che potremmo definire “organico”, in quanto – per continuare a dirla con Cartesio – non riduce (arimanicamente) la “res cogitans” alla “res extensa”, né riduce (lucifericamente) la “res extensa” alla “res cogitans”, bensì contempla un principio (un’essenza) superiore e articolato del quale tanto l’una che l’altra non costituiscono che due diverse forme di manifestazione.
Goethe, osserva appunto Steiner, “si rappresentava bensì l’universo in maniera monistica, come unità inscindibile – dalla quale non escludeva affatto l’uomo (cfr. il carteggio tra Goethe e F.H. Jacobi) – ma riconosceva tuttavia, che entro questa unità sono da distinguersi dei gradini che hanno le loro proprie leggi. Fin dalla sua gioventù respingeva le tendenze che rappresentano l’unità come uniformità, e concepiscono il mondo organico, e, in generale, tutto quanto appare come natura superiore entro la natura, come retto da leggi attive nel mondo inorganico (…) Goethe pensa il mondo come un circolo di circoli, dei quali ciascuno ha il suo principio esplicativo. I monisti moderni conoscono solo un circolo, quello delle leggi della natura inorganica” (p. 78).
Pensare il mondo come un “circolo di circoli” equivale però a pensare il Logos come una “logica di logiche”: c’è infatti la logica (statica) della morte, c’è la logica (dinamica) della vita, c’è la logica (qualitativa) dell’anima, e c’è infine il Logos quale loro unico fondamento, o quale appunto “logica delle logiche”.
Chi pensa di approdare al monismo limitandosi a ridurre uno dei termini del dualismo all’altro, non approda dunque all’unità, bensì all’unilateralità, all’uniformità, alla piattezza, o – come direbbero forse gli psicologi – al “monoideismo”.
Si rende qui peraltro trasparente la differenza tra l’ego e l’Io. L’Io quale Io (frutto della coscienza intuitiva) può infatti, poggiando su di sé (sum, ergo cogito), muoversi liberamente tra le varie logiche, adottando, di volta in volta, quella corrispondente alla realtà degli oggetti o dei fenomeni che incontra, mentre l’Io quale ego (frutto dell’ordinaria coscienza rappresentativa) non può far altro, essendosi identificato (“cogito, ergo sum”) con una sola logica, che imporre, alla realtà degli oggetti o dei fenomeni che incontra, la logica della morte che ha inconsciamente fatto “sua”.
Ma veniamo adesso a quel punto di vista che “ritiene l’idea goethiana del tipo non essere altro che un concetto generale, un’idea nel senso della filosofia platonica”.
Scrive a questo proposito Steiner: “Poiché i rappresentanti di questo pongono come postulato della scienza che la natura organica venga spiegata tal quale come quella inorganica, e rigettano a priori una concezione come quella goethiana, ritengono addirittura inutile l’interessarsi più da vicino ai suoi studi” (p. 79).
Come si vede, gli uni, riconoscendo in Goethe un “monista”, lo trasformano in un “meccanicista”, mentre gli altri, non riconoscendolo come un “meccanicista”, lo trasformano in un “dualista”.
Concepire il “tipo” di Goethe allo stesso modo dell’idea di Platone significa infatti concepirlo scisso dalla realtà sensibile, dal fenomeno empirico o dalla percezione: significa cioè concepirlo in modo diverso da Goethe.
E’ giustificato pertanto il sospetto che quest’ultimi non tanto ritengano “inutile l’interessarsi più da vicino” agli studi scientifici di Goethe perché concepiscono in tal modo il “tipo”, quanto piuttosto concepiscano in tal modo il “tipo” perché hanno ritenuto “inutile l’interessarsi più da vicino” ai suoi studi.
Conclude comunque Steiner “Perciò gli alti principi di Goethe non riuscirono a farsi valere del tutto, né qui né lì. E proprio questi principi sono il fatto eminente dei suoi studi, sono ciò che, per chi ne realizzi tutta la profondità, non perde di valore nemmeno quando si debba riconoscere che alcuni dei particolari della ricerca goethiana richiedono una rettificazione. Ne deriva, per colui che cerchi di mettere in evidenza le concezioni di Goethe, l’esigenza di rivolgere lo sguardo, al di là del giudizio critico sui particolari trovati in questo o quel capitolo della scienza naturale, verso il centro della sua concezione della natura” (p. 79).
Steiner riconosce, dunque, quanto negli studi di Goethe richiede di essere modificato o corretto, ma sottolinea trattarsi di particolari, e non del “centro della sua concezione della natura”: particolari dei quali, chiunque fosse competente, potrebbe liberamente curare (come egli stesso ha fatto) la verifica e, ove necessario, la rettifica.
Un conto, tuttavia, è verificare o rettificare, altro è rigettare, prendendo a pretesto i limiti delle concezioni particolari di Goethe, la sua concezione generale della natura.
Spiace, sinceramente, che siano proprio gli “empirici”, vale a dire coloro che, stando maggiormente a contatto con i particolari, raccolgono e forniscono i dati della ricerca, a ignorare o fraintendere la lezione di Goethe (la sua maniera di rapportare tali dati fra loro).
Fatto si è che solo muovendo dal “centro” della sua concezione della natura, e grazie all’aiuto degli empirici, potrebbe vedere finalmente la luce una scienza davvero “umana”.
Ascoltate, per finire, quanto detto ad esempio (e a suo modo) da Heisenberg, una quarantina d’anni fa: “Nella scienza e nell’arte, il mondo da Goethe in poi ha preso una strada contro la quale egli ci aveva messo in guardia perché la considerava pericolosa. L’arte si è allontanata dalla realtà immediata e si è ritirata all’interno dell’animo umano, e la scienza si è incamminata per la via dell’astrazione, ha prodotto l’immensa espansione della tecnologia moderna, ed è arrivata fino alle strutture primarie della biologia, fino alle forme fondamentali che nella scienza moderna corrispondono ai solidi platonici. Allo stesso tempo i pericoli sono diventati incombenti, come Goethe aveva previsto. Pensiamo, ad esempio, all’alienazione, alla spersonalizzazione del lavoro, all’assurdità degli armamenti moderni, alla fuga verso l’irrazionalità, che ha preso forma di movimento politico. Il diavolo è potente. Ma il regno luminoso di cui parlavamo prima a proposito della musica romantica, e che Goethe riusciva a riconoscere in tutta la natura, è diventato visibile anche nella scienza moderna, là dove ci mostra il grandioso disegno unitario del mondo. Oggi possiamo imparare da Goethe ancora qualcosa: non dobbiamo lasciare atrofizzare tutte le nostre facoltà a favore dell’unico organo capace di analizzare razionalmente; dovremmo cercare piuttosto di comprendere la realtà con tutti i sensi che ci sono stati dati, avendo fiducia quindi che questa realtà rifletta l’essenza delle cose, “l’uno, il buono, il vero”. Speriamo che questo modo di vedere abbia in futuro maggior successo di quanto non abbia ai nostri giorni” (La concezione della natura di Goethe e il mondo della scienza e della tecnologia in Oltre le frontiere della scienza – Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 164-165).
Roma, 12 dicembre 2000