Stasera, prima di cominciare il quinto capitolo, La conoscenza goethiana, terrei a dire una cosa alla quale mi ha fatto pensare la lettura del libro di Pavel Florenskij (1882-1937): “non dimenticatemi” (Mondadori, Milano 2000).
Vi sono raccolte le lettere che questo grande matematico, filosofo e sacerdote (detto il “Leonardo da Vinci” o il “Blaise Pascal” russo) inviò alla moglie e ai figli dal Gulag staliniano, tra il 1933 e il 1937, anno della sua fucilazione.
Ricordate che cosa abbiamo detto quando abbiamo parlato del “goetheanismo”? Che non si tratta di un astratto “movimento culturale”, bensì di “un’atmosfera animica, una tensione ideale o un humus spirituale alimentato in sommo grado da un profondo elemento umano”, che ha caratterizzato non solo il lavoro di Goethe ed Herder, ma anche quello, ad esempio, di Schiller, Fichte, Hegel, Novalis e Schelling.
Ebbene, chi pensasse che quella del goetheanismo è un’anima ormai morta ed esclusivamente tedesca (se non addirittura “pangermanista”), e non perciò un’anima sempre viva ed universalmente umana, farebbe bene a leggere queste lettere.
Ascoltate, ad esempio, ciò che scrive Florenskij al figlio maggiore Vasilij, il 23 novembre 1933: ”Studiando la natura, la cosa più importante è avere impressioni immediate, le quali, se vengono esaminate per quanto possibile in modo imparziale e privo di preconcetti, pian piano si compongono da sole in un quadro complessivo; dal quadro complessivo nasce l’intuizione dei tipi di struttura della natura, ed è proprio quest’intuizione che fornisce motivi per conclusioni approfondite (…) Goethe possedeva, in sommo grado, questa capacità di vedere il tipo di ciò che studiava; bisogna imparare da Goethe la conoscenza della natura” (ibid., pp. 74-75).
E ascoltate anche quanto aggiungono, in nota, i due curatori della raccolta (Natalino Valentini e Lubomir Žák), citando un passo delle “memorie” di Florenskij (Ai miei figli): “Mio desiderio è stato sempre conoscere il mondo proprio come qualcosa di ignoto, senza cercare di forzare e violare il suo segreto, ma limitandomi a cercare di spianare nelle sue pieghe e di sbirciare dietro di esso. Il simbolo è appunto l’espressione e il risultato di questo sforzo, in quanto attraverso i simboli il segreto del mondo non viene affossato e tolto di mezzo, bensì si palesa nella sua più autentica essenza, cioè, appunto, come arcano ed enigma (…) Sulla base di queste considerazioni ora, guardando a ritroso, sono in grado di comprendere perché, sin dalla mia infanzia, dal momento stesso, si può dire, in cui ho imparato a leggere, mi sia ritrovato sempre tra le mani “Goethe e Goethe senza fine”, e Goethe direttamente, e non attraverso il filtro della lettura propostane da Du Bois-Reymond. Egli è stato costantemente il mio nutrimento mentale. Avevo ovviamente difficoltà a comprenderlo razionalmente, e tuttavia avvertivo la precisa sensazione che il suo pensiero fosse qualcosa di connaturato con me. Ciò verso cui tendevo era l’Urphänomenon di Goethe” (ibid., p. 82).
Per meglio intendere queste parole, converrà ricordare che, per Goethe, “tutto l’effimero non è che un simbolo”; e che, per Steiner, il “senso” immaginativo è per l’appunto un senso “simbolico”, e quanto si palesa, “attraverso i simboli”, “come arcano ed enigma”, può essere svelato e sciolto dal senso ispirativo e da quello intuitivo.
Come si fa dunque a non pensare a quanto sarebbe stato diverso il destino dell’umanità se si fosse permesso allo spirito “mitteleuropeo” del goetheanismo d’incontrarsi e coniugarsi (soprattutto verso la fine del XIX secolo) con l’anima russa, non solo di Pavel Florenskij, ma anche di Vladímir Solov’ëv (1853-1900)?
Ricorda infatti Steiner (siamo nel 1919): “Quando iniziò la rivoluzione russa apparvero come comete i seguaci di Soloviev. Auspicavano un rinnovamento della sorda, crepuscolare e paralizzata vita spirituale sulla quale era caduta come una notte animica, una morte spirituale, l’uccisione dell’anima con tutti i suoi nessi. Questa gente, Kartachov, Samarin, che come pare erano veri discepoli di Soloviev, volevano una liberazione. Dai primi scintillanti raggi della rivoluzione volevano accendere in Russia un movimento spirituale. Al posto di questo si realizza ora quella che appare in Lenin, questo necroforo di ogni vita spirituale, come una sfrenata distruzione di ogni elemento spirituale, in una condizione nella quale viene negato tutto ciò che si era mostrato all’umanità dell’oriente nella grande figura di Soloviev” (Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici – Antroposofica, Milano 1974, pp. 232-233).
Ma ora affrontiamo il nuovo capitolo.
Scrive Steiner: “Oggi siamo molto lontani dal modo di pensare ch’era proprio di Goethe. E’ vero che in tutti i campi della cultura abbiamo da registrare progressi; ma non si può affermare che siano progressi in profondità. E per il valore di un’epoca solo i progressi in profondità sono decisivi. Invece la nostra si potrebbe caratterizzare dicendo ch’essa dichiara addirittura irraggiungibile all’uomo ogni progresso in profondità” (p. 82).
Quale valore può quindi avere un’epoca in cui l’estensione o l’orizzontalità del pensiero prende il sopravvento sulla sua intensione o verticalità, e i cui progressi, per conseguenza, si danno solo in superficie, e non “in profondità”?
Una cosa è infatti l’estensione, altra l’intensione; e se l’intensione del pensiero potrebbe permetterci (checché ne dica Kant) di conoscere le cose “in sé”, la sua estensione ci consente invece di conoscere le cose “per noi”, e quindi di servircene o utilizzarle ai fini della nostra vita pratica (dei nostri bisogni materiali).
Abbiamo detto, a questo proposito, che il pensiero dovrebbe scoprire le idee nelle cose, e non farsi delle idee sulle cose. Il pensiero che inventa o che escogita non è animato infatti dall’amore, quanto piuttosto dalla vanità o dalla brama (di successo, di potere, di guadagno).
Ciò accade soprattutto nel campo delle scienze umane (laddove ci si dovrebbe occupare dell’anima e dello spirito), mentre in quello delle scienze naturali fa luminosa eccezione solo ciò che si riferisce al mondo inorganico.
In un contesto del genere, ossia in un contesto in cui si parte dal presupposto che la verità non esiste e che, quand’anche esistesse, non potrebbe essere da noi raggiunta, è tuttavia fatale che finisca con l’imporsi l’opinione.
Ma l’opinione, non avendo in sé la forza della verità, come fa a imporsi? E’ semplice: surrogando la forza spirituale della verità con quella giuridica della legge o con quella economica del denaro: in breve, con il potere.
Continua Steiner: “Siamo diventati pusillanimi in tutti i campi; e sopra tutto in quelli del pensare e del volere. In quanto al pensare si fanno infinite osservazioni che si accumulano senza avere il coraggio di ricavarne una concezione scientifica complessiva della realtà, mentre si accusa la filosofia idealistica tedesca di non essere scientifica appunto perché ebbe tale coraggio. Oggi non si vuole pensare, ma soltanto guardare coi sensi. Si è perduta ogni fiducia nel pensiero; non lo si ritiene capace di penetrare nei segreti del mondo e della vita; si rinuncia addirittura ad ogni soluzione dei grandi enigmi dell’esistenza. La sola cosa che si ritiene possibile è ridurre a sistema i dati dell’esperienza” (p. 82).
Ricordiamoci, al riguardo, che il coraggio sta al centro, tra la temerarietà (luciferica) e la viltà (arimanica), e attinge la sua forza di calore alla stessa sorgente dell’amore.
Qui Steiner parla di “pusillanimità”, e dunque di “viltà”, ma quello ch’è più interessante notare è che la riferisce non tanto, come si è usi fare, al comportamento esteriore, quanto al pensare.
Quando abbiamo trattato de La filosofia della libertà, ho parlato, a questo proposito, di una volontà d’impotenza, che dà luogo alla “depressione” (così come una volontà di potenza dà viceversa luogo alla “mania”). Ma esiste forse – vi domanderete – un pensiero “depresso”? Certo che esiste: per sincerarsene, basterebbe considerare, poniamo, il pensiero “fallibile” di Karl Popper, quello “debole” di Gianni Vattimo o, più in generale, quello degli agnostici o dei relativisti.
Intendiamoci, il torto di costoro non sta nel considerare il pensiero attuale in tal modo, bensì nell’aver perduto “ogni fiducia nel pensare”, e nel credere, quindi, che esso non possa in alcun modo riscattarsi da questo suo stato penoso.
Dice Steiner che “oggi non si vuole pensare, ma soltanto guardare coi sensi”: “guardare”, infatti, è cosa diversa dall’“osservare” o dal “vedere”.
Pensate che proprio Florenskij, ovvero un uomo di sicura formazione scientifica (perfino nel Gulag gli vennero affidate delle ricerche), in un’altra lettera al figlio Vasilij, scrive: “E’ perfino sorprendente quanto la gente non sia capace di osservare” (op.cit., p. 97).
Fatto si è che l’osservazione e il pensiero procedono di pari passo: quando è superficiale la prima è superficiale il secondo, così come, di contro, quando è profonda la prima è profondo il secondo.
Teniamo presente, però, che la profondità dell’osservazione non viene affatto assicurata o garantita – come abbiamo visto – dagli “strumenti” di cui ci si serve: da quanto cioè s’interpone, artificialmente, tra noi e gli oggetti o i fenomeni.
Abbiamo visto inoltre, a suo tempo, che l’anima razionale o affettiva (filosofica) è anzitutto attenta al concetto, mentre l’anima cosciente (scientifica) è anzitutto attenta al percetto.
Questo trasferimento dell’attenzione dal contenuto del pensiero a quello della percezione (quale frutto di un processo evolutivo) si è però risolto, con l’andare del tempo, in un nuovo e non meno pernicioso pregiudizio: in quello di credere, cioè, che alla percezione (sensibile) competa l’onere di conoscere, e che al pensiero competa invece quello di ordinare od organizzare quanto appreso dalla percezione, o – come dice Steiner – di “ridurre a sistema i dati dell’esperienza”.
Non ci si rende conto, dunque, che perdere “ogni fiducia nel pensiero” equivale a perdere ogni fiducia nell’uomo.
Scrive Steiner: “La scienza sperimentale dimentica semplicemente una cosa: che, a volte, migliaia e migliaia di uomini sono passati dinanzi a un fatto sensibile e lo hanno guardato senza osservarvi alcunché di notevole; poi è sopraggiunto uno che, nel gettarvi lo sguardo, ha scorto a un tratto una legge importante. Da che cosa deriva ciò, se non dal fatto che questi era in grado di guardare lo stesso fenomeno in altro modo, con altri occhi dai suoi predecessori? Nel guardare, egli aveva una data idea di come si debba mettere un fatto in relazione con altri fatti e di che cosa sia in esso importante o no. Così, pensando, egli si orientava e vedeva più degli altri. Vedeva con gli occhi dello spirito” (pp. 82-83).
In realtà, tutti vedono con gli occhi dello spirito, ma ben pochi lo sanno. Naturalmente, godiamo infatti dell’intuizione (cui dobbiamo i concetti), ma non della “coscienza intuitiva”; godiamo dell’ispirazione (cui dobbiamo il giudicare), ma non della “coscienza ispirativa”; godiamo dell’immaginazione (cui dobbiamo quelle vive immagini che conosciamo, riflesse nell’organo cerebrale, come spente rappresentazioni), ma non della “coscienza immaginativa”.
Siamo pertanto svegli o vigili sul piano della rappresentazione (poiché appunto godiamo della “coscienza rappresentativa”), mentre sogniamo sul piano dell’immaginazione e dormiamo (a due diversi gradi di profondità), su quelli dell’ispirazione e dell’intuizione.
Come si dice, non ci stiamo dunque “inventando niente”: stiamo piuttosto tentando di realizzare o di portare a coscienza quanto facciamo, inconsciamente, dalla mattina alla sera. “L’antroposofia – afferma infatti Steiner – non è altro che lo stimolo a tirar fuori le forze di conoscenza giacenti nelle profondità delle anime” (Vita da morte a nuova nascita – Libreria Editrice Psiche, Torino 1997, p. 87).
Prosegue Steiner: “La scienza sperimentale si aggira perplessa nel vasto regno dei fenomeni; il mondo dei sensi diventa per essa una molteplicità confusa e sconcertante, perché non ha nel pensare l’energia di penetrare al centro. Si parla oggi di limiti della conoscenza perché si ignora dove sia la mèta del pensare. Non si ha un’idea chiara su ciò che si vuol raggiungere, e si dubita di poterlo raggiungere (…) Precisamente lo stesso accade col volere e con l’agire. Non siamo capaci di porre alla nostra vita dei compiti ad assolvere i quali le nostre forze siano idonee. Si sognano ideali indefiniti e confusi e poi si piange se non si raggiunge quello di cui non si ha neppure una vaga idea, e tanto meno un’idea chiara” (p. 83).
Chi semina l’agnosticismo nel campo del pensare, raccoglie dunque l’apatia nel campo del sentire e l’abulìa in quello del volere.
Non lasciamoci ingannare, a questo proposito, dalla frenesia del mondo che oggi ci circonda. Come aveva ben visto Nietzsche, una cosa è infatti l’azione, altra l’agitazione; e quello di oggi è un mondo che tanto più si agita quanto meno agisce, e che sogna “ideali indefiniti e confusi” poiché non ha appunto “neppure una vaga idea” di ciò che vuole raggiungere.
Una delle molte forme assunte dall’agnosticismo è quella del “problematicismo”. Dobbiamo però distinguere il problematicismo “fisiologico” di quanti ricercano la verità servendosi metodicamente del dubbio (e dubitando, quindi, anche del dubbio), dal problematicismo “patologico” di quanti, resi invece schiavi (ossessivamente) dal dubbio, fuggono la verità.
I primi, infatti, vanno incontro alla verità con tutto il loro essere, che è la verità del loro essere, mentre i secondi le vanno incontro con la sola testa: vale a dire, con una parte della verità del loro essere che, nella stessa misura in cui viene assolutizzata (“cefalocentristicamente”), si tramuta in menzogna. Questa teme la verità, e si sforza allora di esorcizzarla mediante i più svariati virtuosismi dialettici.
Scrive Steiner: “Chi riconosce al pensiero la facoltà di percepire oltre ciò che possono scorgere i sensi, deve necessariamente attribuirgli anche degli oggetti che stiano oltre la realtà puramente sensibile. Ora gli oggetti del pensiero sono le idee. In quanto il pensiero s’impossessa dell’idea, esso si fonde con la base primordiale dell’esistenza cosmica; ciò che agisce fuori, penetra nello spirito dell’uomo; esso diventa uno con la realtà obiettiva alla sua più alta potenza. La percezione dell’idea nella realtà è la vera comunione dell’uomo” (p. 84).
Pensate, riguardo a quest’ultima affermazione, che il filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev (1874-1948) ha parlato dell’atto conoscitivo come di un “atto coniugale”: non per vezzo poetico, ma perché consapevole che, in tale atto, si “coniugano” realmente gli opposti.
Ma quali opposti? Lo sappiamo già: il concetto, ossia la forma (del pensiero) che ha carattere o qualità femminile (yin), e il percetto, ossia la forza (della volontà) che ha carattere o qualità maschile (yang).
L’anima umana è dunque il tempio in cui, mediante l’unione di pensare e volere (percepire), si congiungono l’anima e lo spirito dell’uomo con l’anima e lo spirito del mondo: e quindi il tempio in cui si ha – come dice Steiner – “la vera comunione dell’uomo”.
Forse ricorderete che, occupandoci de La filosofia della libertà, parlammo del concetto e del percetto come dei “promessi sposi” e paragonammo il ruolo degli ostacolatori a quello assegnato da Manzoni a Don Rodrigo, specificando che Lucifero ostacola le loro “nozze” (Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz) a partire dalla forma femminile, mentre Arimane le ostacola a partire dalla forza maschile.
Scrive appunto Steiner: “Il pensiero ha, rispetto alle idee, la stessa importanza che ha l’occhio rispetto alla luce e l’orecchio rispetto al suono. E’ organo di percezione. Questa concezione è in grado di riunire due cose che oggi si ritengono del tutto inconciliabili tra loro: il metodo empirico e l’idealismo quale concezione scientifica del mondo. Si crede che l’ammettere il primo porti, come necessaria conseguenza, a ripudiare il secondo. Ma ciò è assolutamente errato (…) Il dato obiettivo non coincide affatto col dato sensibile, come crede la concezione meccanica del mondo. Il sensibile è solo una metà del dato. L’altra metà sono le idee, che sono pure oggetto d’esperienza, benché di un’esperienza superiore, avente per organo il pensiero. Anche le idee sono accessibili a un metodo induttivo” (p. 85).
Abbiamo visto, a suo tempo, che l’immagine percettiva, la sensazione e la rappresentazione sono “soggettive”, mentre il concetto è “oggettivo” tanto quanto il percetto (che ne costituisce l’altra faccia).
L’uno e l’altro sono infatti “mondo”; tra il “mondo” (spirituale) del primo e quello (sensibile) del secondo c’è però il mondo dell’uomo: ed è appunto nel mondo dell’uomo (nella sua anima) che il mondo del concetto e quello del percetto, divisi dall’uomo stesso, possono finalmente ritrovarsi e riunirsi.
Ma questa loro ri-unione è, al tempo stesso, una ri-creazione del mondo e dell’uomo: ri-creazione ch’è redenzione, resurrezione e salvezza.
Emil Bock fa notare, al riguardo, che il nome Adamo (Adamah: “colui che è stato formato con materia terrena”) non designa il primo “uomo”, bensì il primo “uomo terreno”: fa notare, ossia, che l’uomo è stato creato ben prima di Adamo.
“La storia della Terra – spiega infatti – fino ad Adamo è cosmica, da Adamo ad Abramo è mitica, ed è veramente storica solo a partire da Mosé” (Genesi – Arcobaleno, Oriago di Mira (Ve) 2000, p. 24).
La ri-creazione dell’uomo è quindi la ri-creazione di Adamo; non è un caso, dunque, che Paolo parli del Cristo come del “nuovo Adamo” (Rm 5,14).
Roma, 19 dicembre 2000