Le opere scientifiche di Goethe (18)

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Stasera, se tutto andrà bene, leggeremo e commenteremo due capitoli assai brevi: il sesto, intitolato: Dell’ordine in cui sono state disposte le opere scientifiche di Goethe, e il settimo, intitolato: Dall’arte alla scienza.
Cominciamo dunque il sesto.

Scrive Steiner: “Nel curare la pubblicazione delle Opere scientifiche di Goethe mi ha guidato l’idea di vivificarne lo studio dei particolari esponendo le idee grandiose ch’essi hanno per base (…) Non si può negare che molte delle sue trattazioni scientifiche appaiano prive d’importanza se le guardiamo dal punto di vista della scienza, nel frattempo tanto progredita. Ma ciò non ha alcuna importanza. Quello che importa è il significato che va loro attribuito nell’ambito della concezione goethiana stessa. All’altezza spirituale dove il poeta si trova, anche il bisogno scientifico è più forte. Senza bisogno scientifico non v’è scienza. L’importante è dunque chiederci: Quali domande pone Goethe alla natura? Se e come egli vi abbia poi risposto, è secondario” (p. 89).

Un esempio del fatto che il progresso della conoscenza scientifica dei “particolari” non si accompagna necessariamente a quello delle idee che la animano, ce lo danno, loro malgrado, le attuali “neuroscienze”.
Come negare, infatti, che la conoscenza del cervello, non dico dai tempi di Goethe, ma da quelli, mettiamo, di Freud, sia enormemente progredita? Ma da quale punto di vista? Da quello anatomo-fisiologico; e a questo progresso si è forse accompagnato quello della conoscenza, poniamo, del rapporto tra il cervello e il soggetto umano (l’Io), o tra il cervello e il pensare, il sentire e il volere? Niente affatto.
Vedete questo libro? Si intitola: Il cervello e le sue meraviglie (Rizzoli, Milano 1987). Ne sono autori Robert Ornstein (docente di Biologia umana presso la Stanford University) e Richard F. Thompson (docente di Psicologia e biologia umana presso la stessa Università). Ebbene, apriamolo alla pagina dodici, e leggiamo: “La parte più grande dell’encefalo umano è il cervello propriamente detto (soprattutto nel linguaggio comune, con la parola cervello si designa di solito l’intero encefalo). Il cervello è diviso in due metà, o emisferi, ciascuno dei quali controlla il lato opposto del corpo. Gli emisferi sono connessi fra loro da una banda formata da circa trecento milioni di fibre nervose, detta corpo calloso. Ciascun emisfero è coperto da uno strato di cellule nervose pieghettato in modo molto complesso, dello spessore di tre millimetri, chiamato corteccia cerebrale. La corteccia apparve per la prima volta nei nostri progenitori circa duecento milioni di anni fa, ed è ciò che ci dà la nostra peculiare qualità umana. Grazie alla corteccia noi siamo in grado di organizzare, di ricordare, di comunicare, di capire, di apprezzare e di creare”.
Già, ma com’è osservabile che il cervello è diviso in due emisferi e che ciascuno di questi è coperto dalla corteccia cerebrale, è anche osservabile che sia la corteccia a darci “la nostra peculiare qualità umana”? E se fosse al contrario l’essere umano a dare alla corteccia la sua peculiare qualità? E perché dire, poi, ch’è grazie alla corteccia che “siamo in grado di organizzare, di ricordare, di comunicare, di capire, di apprezzare e di creare”, e non che, grazie alla corteccia, siamo in grado, non di fare tutte queste cose, bensì di avere la consapevolezza di farle?
Certo, per poter rispondere a questi interrogativi ci si deve servire, non del microscopio, della PET (positron emitting tomography) o di qualche altro sofisticato marchingegno, ma del pensiero. Ma come servirsene se, a furia di trafficare con l’infinitamente piccolo, si è reso “infinitamente piccolo” anch’esso? O è forse “grandiosa” l’idea che tutto quello che pensa, sente e vuole l’essere umano, lo pensa, sente e vuole il cervello?
Ascoltate, ad esempio, quel che dice Edoardo Boncinelli: una volta ricevuto il messaggio trasmessogli dalla “sensazione corporea”, il nostro cervello può “decidere di agire subito o di soprassedere e riflettere sul da farsi. Se prende la seconda decisione il segnale comincerà a vagare in maniera apparentemente erratica per la corteccia cerebrale, passando per aree corticali che non sono né puramente ricettive né puramente motorie, ma piuttosto associative e che costituiscono la parte più cospicua della corteccia stessa. In questo tragitto, percorso peraltro a grande velocità, il segnale si sfioccherà in molti segnali diversi e subirà molte manipolazioni; in particolare, potrà essere messo in memoria, potrà essere soppresso come irrilevante o potrà condurre a una risposta leggermente dilazionata. Alla fine verrà comunque presa una decisione e si passerà all’azione. Il segnale convergerà allora verso l’area motoria, detta a volte anche area motoria principale, della corteccia da cui partirà il messaggio, questa volta centrifugo, che trasporta la decisione di muovere qualche muscolo, per esempio flettere il braccio interessato” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori 2000, pp. 82-83).
Anche per Boncinelli è dunque il cervello, e non l’uomo (l’Io), a far tutto.
Ebbene, immaginiamo allora un primitivo che si trovi di fronte una radio che sta trasmettendo un discorso. Che cos’è più probabile che creda? Di trovarsi al cospetto di uno sconosciuto e inquietante essere che parla o di un oggetto che sta trasmettendo il parlare di un essere umano? Converrete ch’è più probabile che creda la prima cosa, e che ne sarà vieppiù convinto allorché constaterà, dopo averlo colpito con una pietra, che quell’essere non parla più.
La “logica” che porta il primitivo a credere che sia la radio a parlare non è tuttavia granché diversa da quella che porta gli odierni neuroscienziati a credere che sia il cervello a fare tutto quello che ci raccontano Ornstein, Thompson e Boncinelli.
Ove fosse vero quanto dicono, ci sarebbe peraltro da chiedersi: ma chi ha scritto allora i loro libri? I loro cervelli? No, perché dicendo i “loro” cervelli, presupporremmo, in aggiunta alla realtà di questi, quella dei loro proprietari (degli Io).
Come si vede, alla luce delle “loro” (?) tesi, potremmo rispondere soltanto che tali libri sono stati scritti da tre diversi cervelli, cui altri cervelli decisero, un giorno, di assegnare i succitati nomi e cognomi.
Spero che ciò basti a dimostrare – come abbiamo detto – che “il progresso della conoscenza scientifica dei “particolari” non si accompagna necessariamente a quello delle idee che la animano”. Quale telespettatore non ha del resto rilevato, almeno una volta, la sconcertante sproporzione che sussiste tra l’intelligenza che ha partorito lo “strumento” televisivo e quella che partorisce invece i suoi programmi?
Ma torniamo a noi.

Spiega Steiner che “per quanto attraente ciò sia”, mai gli sarebbe “potuto venire in mente di distribuire” gli scritti di Goethe come ormai di consuetudine: muovendo, cioè, dai “punti di vista generali” agli “sviluppi particolari delle idee fondamentali”. ”Non avrei potuto raggiungere così – scrive – quel che volevo, cioè, – per usare il paragone di Goethe – rendere palese il disegno del giuoco, per mezzo delle pedine mosse arditamente da principio” (dice infatti Goethe: “Avviene con le opinioni che osiamo avanzare, come con le pedine che muoviamo sulla scacchiera; esse possono, sì, andarci perdute, ma saranno nondimeno servite a iniziare una partita vittoriosa”); e aggiunge: “Nulla era meno consono a Goethe che il voler prendere le mosse coscientemente da concetti generali. Egli parte sempre da fatti concreti, li confronta, li ordina. Così facendo gli sorge dinanzi il fondamento ideale dei medesimi” (p. 90).

Nulla era dunque “meno consono a Goethe” che un metodo “deduttivo”. E’ infatti in virtù dell’induzione (dell’”idealismo empirico”) che quanto è implicito nel fenomeno viene gradualmente a esplicitarsi fino a rivelare l’idea, il tipo o l’entelechia.

“Il metodo di cui Goethe si serve, – osserva ancora Steiner – resta sempre quello fondato sull’esperienza pura, persino là dov’egli si eleva all’idea. Perché egli non lascia mai penetrare nella sua indagine alcun ingrediente soggettivo. Si limita a liberare i fenomeni da ogni elemento casuale, per penetrare nei loro fondamenti più profondi. Il suo soggetto non ha altro compito che quello di disporre l’oggetto in modo ch’esso riveli il suo essere più intimo. “Il vero è simile al Divino: non appare immediatamente; noi dobbiamo indovinarlo dalle sue manifestazioni”. Si tratta di porre queste manifestazioni in una connessione tale che il “vero” appaia. Nei fatti che affrontiamo osservando è già contenuto il vero, l’idea; a noi tocca solo di allontanare l’involucro che ce lo nasconde. Nello scostare questo involucro sta il vero metodo scientifico” (p. 91).

Ricordate ciò che diceva Florenskij, nel passo delle sue memorie che abbiamo letto due settimane fa? Sin dall’infanzia – diceva – “ciò verso cui tendevo era l’Urphänomenon di Goethe”. Ma che cos’è l’Urphänomenon? E’ il fenomeno “puro” (“primordiale”): ossia il fenomeno scevro di tutti gli elementi accidentali o casuali che sempre lo accompagnano.
Il “metodo scientifico” sta dunque nello scostare l’involucro che ci nasconde l’idea, ma sarà opportuno osservare che questa ci viene nascosta tanto da un involucro esterno (naturale) quanto da uno interno (psichico).
Per scoprire l’idea è infatti necessario che incontro al fenomeno puro muova il pensiero puro: ossia, un pensiero immune da qualsivoglia ipoteca soggettiva (simpatie, antipatie, preconcetti, pregiudizi, ecc.). “Un ingegno meramente soggettivo – osserva giusto Goethe – ha assai presto dato fondo al suo piccioletto io” (G.P. Eckermann: Colloqui col Goethe – Laterza, Bari 1912, vol. I, p.176).
Sola preoccupazione del ricercatore dovrebbe essere perciò quella di mettere l’idea in condizione di rivelarsi. E’ per questo che Goethe ha tanto insistito sulla necessità di un’osservazione serena, paziente, e fatta, soprattutto, da molteplici punti di vista.
Immaginate, per fare un banale esempio, di fotografare la parte anteriore e quella posteriore di un’automobile. Ebbene, chi non conoscesse le automobili non potrebbe pensare, guardando tali immagini, che si tratti di due oggetti diversi?
C’è anche, al riguardo, una piccola storia Zen. Un giorno, due contadini, mentre lavoravano, videro passare, lungo la strada che divideva l’uno dall’altro i loro campi, un tizio che indossava un cappello con un lato bianco e l’altro nero. Ebbene, si racconta che i due trascorsero il resto della loro vita a discutere e litigare, poiché l’uno si diceva sicuro che quel cappello fosse bianco, e l’altro che fosse nero.
Fatto si è che per cogliere l’essenza di un fenomeno dovremmo compiere, osservandolo, una sorta di “circumambulatio”: una sorta cioè di rotazione che gli consenta di apparirci nelle più diverse prospettive.
Ma come riuscire a compiere un siffatto movimento interiore se la costituzione, il temperamento e il carattere (la nostra “natura”) c’impongono un solo, determinato e personale punto di vista? Non usiamo spesso dire, infatti: “secondo me”, “a mio parere”, “a mio avviso”, “nella mia ottica” o, per l’appunto, “dal mio punto di vista”?
Come vedete, qui si coglie, quasi con mano, la necessità di liberarsi, in nome della conoscenza, di questa ipoteca che ci vincola al nostro punto di vista nella medesima misura in cui ci vincola al nostro spazio (al nostro corpo fisico).
Dice Goethe: “Il vero è simile al Divino: non appare immediatamente; noi dobbiamo indovinarlo dalle sue manifestazioni”.
Il che equivale a dire che il “vero” non appare alla percezione (sensibile): questa, in quanto legata all’hic et nunc, ci dà infatti una “parte” e un “momento” (della manifestazione) del “vero”, ma non il “vero”; ed è appunto perché le immagini percettive di uno stesso fenomeno sono diverse e molteplici che s’impone la necessità di connetterle in modo tale da permettere alla sua essenza di venire alla luce.
Siamo così arrivati alla fine del sesto capitolo; cominciamo dunque il settimo: Dall’arte alla scienza.

Scrive Steiner: “Goethe ebbe molto a soffrire per la falsa opinione dei suoi contemporanei che non riuscivano a comprendere come la creazione artistica e l’indagine scientifica potessero trovarsi unite in uno stesso spirito. Qui si tratta anzi tutto di rispondere alla domanda: Quali motivi spinsero alla scienza il grande poeta? Il suo passare dall’arte alla scienza derivava soltanto da una sua inclinazione soggettiva, da un arbitrio personale? Oppure la sua tendenza artistica era tale ch’essa doveva di necessità condurlo alla scienza?” (p. 93).

Dunque, delle due, l’una: o il suo “passare dall’arte alla scienza” è stato casuale, e siamo allora di fronte a un poeta che, per combinazione, è stato anche un pensatore; o non è stata casuale, e siamo allora di fronte a un “trapasso oggettivo” dall’arte alla scienza, che presuppone, di necessità, non solo un rapporto tra le due, ma anche un momento in cui queste si toccano.

Ricorda comunque Steiner ch’è convinzione generale che “fuori di noi, nell’esistenza oggettiva, sta l’origine delle leggi scientifiche; in noi, nella nostra individualità, quella delle leggi estetiche”; e che queste ultime, perciò, “non hanno il minimo valore conoscitivo; generano illusioni senz’alcun fattore di realtà”; subito aggiungendo, però, che “chi prende la cosa in questo modo non arriverà mai alla chiarezza sul rapporto in cui stanno tra loro l’arte goethiana e la scienza goethiana; e con ciò le fraintenderà entrambe. L’importanza storica universale di Goethe sta appunto nel fatto che l’arte sua scaturisce direttamente dalla fonte primordiale dell’essere e non porta in sé nulla d’illusorio, nulla di soggettivo, ma appare come la rivelatrice di quelle leggi che nelle profondità dell’operare della natura il poeta ha raccolto dallo Spirito universale. A questo livello l’arte diviene interprete dei misteri dell’universo, come lo è, in un altro senso, la scienza. Goethe infatti ha sempre inteso l’arte così. Essa era per lui una delle rivelazioni della legge primordiale del mondo; la scienza era l’altra. Per lui arte e scienza scaturivano da un’unica fonte. Mentre lo scienziato s’immerge nel profondo della realtà per esprimerne in forma d’idee le forze propulsive, l’artista cerca di plasmare, secondo quelle stesse potenze propulsive, la propria materia”” (pp. 94-95).

Ebbene ascoltate quanto scrive, in proposito, Nadežda Mandel’štam, moglie del grande poeta russo Osip Emil’evič Mandel’štam (1891-1938): “Mi sembra che per un poeta le allucinazioni dell’udito siano una specie di malattia professionale. La poesia comincia così. Molti poeti l’hanno detto, dall’autrice del Poema senza eroe allo stesso Mandel’štam: al loro orecchio risuona ossessiva, prima informe, poi sempre più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale. Mi è capitato di vedere Mandel’štam che cercava di liberarsi da uno di questi ritornelli, di scuoterselo di dosso, di sottrarsi al suo potere (…) La Achmatova (Anna Andreevna Achmatova, 1889-1966 – nda) raccontava che, quando fu assalita dalla melodia del Poema, avrebbe fatto qualunque cosa, pur di liberarsene: si mise pure a lavare i piatti, ma senza risultato. A un certo momento, attraverso il tessuto della frase musicale si facevano improvvisamente strada le parole e allora le labbra cominciavano a muoversi. E’ probabile che il lavoro del compositore e quello del poeta abbiano qualcosa in comune e che la comparsa delle parole segni il momento critico che distingue fra loro queste due forme di creazione” (L’epoca e i lupi – Serra e Riva, Milano 1990, pp. 98-99).
Ma non potrebbe essere, allora, che anche il lavoro dello scienziato “abbia qualcosa in comune” con quelli del compositore e del poeta, e che la comparsa dell’idea “segni il momento critico” che distingue fra loro queste tre forme di creazione? E che proprio in virtù della prossimità di Goethe al mondo delle idee, la sua esperienza poetica sia stata molto diversa da quelle di Mandel’štam e della Achmatova?
Ritorniamo comunque alla questione della “oggettività” della scienza e della “soggettività” dell’arte.
Avendo presente che la scienza è in relazione principalmente col pensare, l’arte principalmente col sentire e la religione principalmente col volere, e che il pensare e il volere – secondo quanto abbiamo visto trattando de La filosofia della libertà – sono “transitivi” o, per dirla con Freud, “oggettuali”, mentre il sentire è “intransitivo” o, per dirla ancora con Freud, “narcisistico”, ci si potrebbe in effetti porre questa domanda: possono il sentire e l’arte divenire “transitivi”, “oggettuali od “oggettivi”?
Certo, ma lo possono soltanto attraverso il pensare.
Riflettiamo: cosa ci dà il pensare? Il concetto; e che cos’è il concetto? L’universale (spirituale); e cosa ci danno invece (ordinariamente) il sentire e il volere? Il particolare (psichico) e l’individuale (corporeo). Per rendere universale, e per ciò stesso “oggettivo”, il nostro sentire dovremmo quindi riuscire a dargli come “oggetto” il concetto: dovremmo cioè riuscire a sentire il concetto.
Che cos’è, d’altro canto, un concetto “astratto” se non appunto un concetto non sentito (e perciò stesso non voluto)?
Portare la forza del sentire (e quella del volere) incontro alla forma del pensare o, per dirla sempre con Freud, “investire” (besetzen) o “caricare” la forma del pensare della forza del sentire (e di quella del volere), vuol dire dunque, per un verso, vivificare l’universalità e, per l’altro, universalizzare la particolarità (e l’individualità).
Cosa si fa in genere, invece? Si pensa (e predica), ad esempio, l’amore universale, ma si sente l’amore particolare (per un “gruppo”) e si vuole l’amore individuale (per se stessi), scavando così un solco incolmabile tra la sfera della conoscenza (della “ragion pura”) e quella della moralità (della “ragion pratica”).
Ma torniamo a noi.

Scrive Steiner: “Quel che importa non è ciò che la natura ha creato, ma il principio secondo il quale l’ha creato. Poi tale principio va elaborato nel modo ch’è conforme alla sua propria natura, e non già come si è venuto configurando nelle singole formazioni naturali dipendenti da mille accidentalità casuali. L’artista ha da sviluppare “dal comune, il sublime; dall’informe, il bello”. Goethe e Schiller prendono l’arte in tutta la sua profondità. Il bello è “una manifestazione di leggi naturali segrete che, senza il suo apparire, ci sarebbero rimaste eternamente celate”” (p. 96).

Non è vero, quindi, che “è bello quel che piace”; è vero, piuttosto, che dovrebbe piacerci quel che è bello, e che, a tal fine, dovremmo educare, sviluppare e affinare il nostro gusto.
La bellezza – afferma in proposito Vladimir Solov’ëv – è “una trasfigurazione della materia attraverso l’incarnazione in essa di un principio diverso, trans-materiale”: ovvero, “di un’idea” (La bellezza nella natura in Il significato dell’amore – La Casa di Matriona, Milano 1983 pp. 170-171 e 173).
Dostoevskij ha detto, com’è noto: “La bellezza salverà il mondo”; potrà salvarlo, tuttavia, se sarà splendore del vero, visibilità del bene o (come dicevano i Padri) “Dio fuori di Dio”, e non quindi illusione o seduzione luciferica.

Roma, 8 gennaio 2001

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Di Lucio Russo
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