Abbiamo detto, la volta scorsa, che la nostra abituale esperienza del mondo è limitata, da una parte, dalle immagini percettive (tridimensionali), che otteniamo guardando fuori di noi, e, dall’altra, dalle rappresentazioni (bidimensionali), che otteniamo guardando dentro di noi; e abbiamo anche affermato che tanto al di là delle une quanto al di qua delle altre si occulta quella entelechia o essenza unitaria dell’oggetto o del fenomeno che si presenta in veste di percetto al percepire (volere), e in veste di concetto al pensare.
Potremmo tuttavia domandarci: dal momento che siamo normalmente incoscienti, sia del processo di formazione delle immagini percettive, sia di quello delle rappresentazioni, per quale ragione muoviamo allora dalle seconde e non dalle prime?
E’ presto detto: per non commettere la medesima ingenuità di quanti credono, sulla scia di Freud e Jung, di poter accedere all’attività subcosciente del sentire e a quella incosciente del volere senza passare per l’attività pre-cosciente del pensare.
Poiché i contenuti inconsci tendono – come insegna appunto la psicoanalisi – a essere proiettati (e quindi alienati), è solo portando alla luce quell’attività pre-cosciente del pensare che dà forma alle rappresentazioni (coscienti) che si può essere infatti sicuri di non proiettare (e quindi alienare) sulla vita del sentire e su quella del volere (sulla vita di un “non-io”, quale ad esempio l’Es di Freud o il Sé di Jung) ciò che appartiene alla vita del pensare (alla vita dell’Io).
“La nozione d’inconscio – osserva Massimo Scaligero – deve essere tratta fuori dall’equivoco di una inconsapevole trascendenza. Occorre sapere che cosa può essere legittimamente chiamato inconscio, dal momento che l’attività capace di registrare la sua fenomenologia è il suo opposto, ossia l’attività interiore esplicantesi a condizione di eliminare l’inconscio. Ma il non essere dell’inconscio, in quanto il suo luogo sia preso dalla coscienza, è in effetto il suo essere per la coscienza” (Psicoterapia: fondamenti esoterici – Perseo, Roma 1974, p. 15).
Il che vuol dire che la coscienza ordinaria, per penetrare in modo salutare nel cosiddetto “inconscio”, deve scendere nelle sfere subcoscienti (sognanti) e incoscienti (dormienti) non in modo diretto, bensì indiretto, salendo in quelle pre-coscienti e sopra-coscienti dell’immaginazione, dell’ispirazione e dell’intuizione.
Ma riprendiamo adesso a leggere dal punto in cui ci eravamo interrotti.
Scrive Steiner: “Con ciò viene a cadere anche l’opinione che nega al concetto o all’idea qualsiasi contenuto autonomo. Questa opinione ritiene che l’unità concettuale come tale sia affatto priva d’ogni contenuto, e abbia origine solo dal fatto che si omettano certe determinazioni negli oggetti dell’esperienza, mentre invece l’elemento comune viene messo in rilievo e inserito nel nostro intelletto per compendiare comodamente la molteplice realtà obiettiva, secondo il principio che lo spirito abbracci l’esperienza complessiva per mezzo del minor numero possibile di unità generali; dunque secondo il principio del minimo impiego di forza (…) Tale opinione si fonda unicamente sopra il completo disconoscimento, non solo della sostanza del concetto, ma anche della percezione” (p. 107).
Il suono – afferma ad esempio Edoardo Boncinelli – “è costituito da una vibrazione delle molecole dell’aria che si propaga con una certa velocità, come un’onda di pressione” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 16).
Ma non è così. Il suono non “è costituito” da una vibrazione delle molecole dell’aria, bensì è causa di una vibrazione delle molecole dell’aria; e la natura di tale effetto non dipende tanto da quella del suono, quanto piuttosto dalla natura del mezzo che esso attraversa: nell’aria, il suono produce infatti degli effetti dipendenti dalla natura dell’aria, mentre, poniamo nell’acqua, produrrebbe degli effetti dipendenti dalla natura dell’acqua.
Ciò sta peraltro a dimostrare – come dice Steiner – che disconoscendo il contenuto del concetto si disconosce anche il contenuto della percezione. Non è significativo, del resto, che per indicare quest’ultimo siamo stati costretti a ricorrere al termine “percetto”: cioè a dire, a un termine che viene in genere usato per indicare l’immagine percettiva, e non il contenuto di cui questa non è appunto che “immagine”?
Continua Steiner: “Per mettere in chiaro questo punto occorre risalire alla ragione per cui si contrappone la percezione, come particolare, al concetto come universale. Dobbiamo chiederci: in che cosa consiste veramente la caratteristica del particolare? Può essa determinarsi concettualmente? E’ forse lecito dire che questa unità concettuale debba scomporsi in queste o quelle molteplicità particolari percepibili? No, è la risposta ben decisa. Il concetto stesso non conosce affatto la particolarità” (p. 107).
In questo passo, Steiner contrappone all’universalità (del concetto) la particolarità (del percetto). Teniamo però presente che “particolarità” vale qui come sinonimo di “singolarità”, e non come categoria da interporre – logicamente – tra quella della universalità e quella della individualità (Steiner stesso, d’altronde, parlerà tra breve di “singolarità”).
Ricordate quello che abbiamo detto la volta scorsa? Abbiamo detto che il pensare è deputato a cogliere i “pensieri” nelle “cose” e non le “cose”, o ch’è deputato ad afferrare i “concetti” e non i “percetti”: ch’è deputato, ossia, a cogliere l’universale e non il particolare (il singolare). Cosa che abbiamo esemplificato, osservando che con il giudizio (di percezione) “X è A” s’intende dire (più o meno avvertitamene) che questo percetto X (particolare o singolare) è quel concetto A (universale).
Si tratta di un’esperienza di vita quotidiana sulla quale sarebbe importantissimo riflettere in modo davvero approfondito.
“Qui e ora” (hic et nunc), percepisco qualcosa. So dunque che qualcosa (una X) esiste, ma non so ancora qual è la cosa che esiste: non sono ancora in grado, cioè, di determinarla, qualificarla, identificarla o riconoscerla (come A). Come capire infatti, in assenza del concetto, se si tratta, che so, di un gatto, di un cane o di un cavallo? Se si tratta, cioè, di un esemplare della prima, della seconda o della terza specie?
Fatto si è che affermare, poniamo: “Questo è un cane”, equivale ad affermare: “Questo è un (singolo) esemplare della specie (universale) cane”.
Che il “singolo” o il “questo” (la X) appartenga alla specie “cane” può dunque rivelarcelo solo il pensiero (mediante il concetto). Ma il concetto – come dice Steiner – “non conosce affatto la particolarità”. Il che vuol dire che il pensare conosce il cane come “concetto”, ma non questo cane come “percetto”.
E grazie a che cosa conosciamo allora questo cane? Lo abbiamo detto: grazie al percepire.
Chi conosce le fasi (ontogenetiche e filogenetiche) dell’evoluzione della coscienza umana, così come vengono illustrate dalla scienza dello spirito, sa che si tratta di un processo che, separando sempre più il pensare dal percepire, ha portato la coscienza moderna a sperimentare un pensare privo di percepire (un pensare – come dice Kant – “vuoto”) e un percepire privo di pensare (un percepire – come dice sempre Kant – “cieco”) o, come usiamo dire noi, a sperimentare una forma priva di forza (la “rappresentazione” di Schopenhauer) e una forza priva di forma (la “volontà” sempre di Schopenhauer).
La separazione o divisione del pensare dal percepire (volere) comporta necessariamente quella dell’essere dall’esistere, ed è motivo (per lo più inconsapevole), vuoi della retrocessione del primo a non-essere (dovuta in specie ai nominalisti), vuoi della promozione del secondo a essere (dovuta in specie agli esistenzialisti).
Allorché Steiner parla – come sapete – dell’antica “chiaroveggenza crepuscolare” o “istintiva”, allude perciò a un’esperienza in cui il pensare e il percepire, non essendosi ancora scissi, erano molto diversi da come li sperimentiamo oggi noi.
Per la nostra abituale coscienza costituiscono infatti una dualità o una polarità: quella tra la sfera reale (basata sul percepire) e la sfera ideale (basata sul pensare).
C’è stato però un tempo, antecedente a tale scissione, in cui il reale coincideva con l’ideale, e l’ideale con il reale.
Tornando al nostro giudizio “X è A”, è dunque importante capire che il pensare ci dà il “predicato” (il concetto universale A), ma non meno importante è capire che il percepire ci dà il “soggetto” (il percetto singolare X).
Scrive appunto Steiner: “Ciò che costituisce la singolarità di un oggetto, non si può comprendere, ma solo percepire. In ciò sta la ragione del necessario fallimento di ogni filosofia che voglia derivare (dedurre) dal concetto stesso tutta la realtà sensibile, nella sua molteplicità di singoli particolari” (p. 108).
Ma per quale ragione è stato necessario che il pensare, che ci dà sempre e soltanto l’universalità, si dividesse dal percepire (sensibile), che ci dà sempre e soltanto la singolarità? Perché mai sarebbe nata, altrimenti, la coscienza individuale dell’Io.
Il percepire (sensibile) è infatti un percepire mediante gli organi di senso di quel corpo fisico che appunto ci divide e distingue da tutti gli altri esseri.
Sarà bene ricordare, al riguardo, che la scissione del pensare dal percepire è sopravvenuta nel momento stesso in cui il corpo eterico (che faceva in precedenza da trait d’union tra la realtà fisica e quella animico-spirituale), calandosi sempre più nel corpo fisico, è arrivato a inguainarvisi interamente (soprattutto nella sfera neuro-sensoriale).
E’ importante averlo presente, poiché solo chi comprende com’è nata la moderna autocoscienza individuale (la coscienza corporea dell’Io quale ego), può comprendere in qual modo potremmo, e dovremmo, farla crescere, sviluppare e maturare.
Risposta a una domanda
Come sa, la moderna autocoscienza individuale, vale a dire l’anima cosciente, nasce nel 1413 ed esaurisce la sua prima fase di sviluppo “scientifico-naturale” nel 1879, data d’inizio della nuova epoca o reggenza dell’Arcangelo Michele (detto, da Steiner, il “fiammeggiante principe del pensiero” – Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p. 58). Esaurita questa fase, che potremmo definire “euclidea”, “galileiana” o della “fisica classica”, avrebbe dovuto cominciare quella “scientifico-spirituale”, preparata da Goethe e messa a punto da Steiner.
Il mondo culturale, “fissatosi” alla fase intellettuale o cerebrale dell’anima cosciente ha però opposto, e tuttora oppone, una tenace “resistenza” ai nuovi impulsi evolutivi, senza rendersi conto di provocare così una regressione all’anima razionale o affettiva (se non all’anima senziente).
Si tratta di un fenomeno oltremodo inquietante, poiché una cosa era l’anima razionale o affettiva che (dal 747 a.C. al 1413 d.C.) veicolava le forze progredienti dello spirito, altra è l’anima razionale o affettiva che, una volta passato tale compito all’anima cosciente, veicola forze di tutt’altra natura (morale).
Prosegue comunque Steiner: “Ciò che davvero distingue essenzialmente la percezione dall’idea, è appunto quest’elemento che non può essere messo in concetti ma dev’essere sperimentato. Così concetto e percezione si stanno di fronte come aspetti del mondo tra loro sostanzialmente uguali, eppure diversi” (p. 108).
Questo “elemento” (che abbiamo chiamato X) è l’ente (l’essente): ovvero, l’essenza sperimentata nella sua forza (quale percetto), ma non ancora determinata nella sua forma (quale concetto).
Ma che cosa vuol dire che tale elemento “deve essere sperimentato”? Vuol dire che deve essere incontrato in modo diretto o immediato, e non indiretto, mediato o riflesso come accade (normalmente) con il concetto.
Dal momento che si può avere accesso alla singolarità solo attraverso il percepire (sensibile) e all’universalità solo attraverso il pensare, e dal momento che il conoscere consiste nel riunire il singolare e l’universale, si troveranno dunque in difficoltà tutti coloro che non hanno abbastanza coraggio, spregiudicatezza o amore per superare, chi l’inganno arimanico, sollevandosi al soprasensibile, chi l’illusione luciferica, abbassandosi al sensibile (“Nella filosofia scolastica – arriva a dire, a quest’ultimo proposito, Hegel – erano stati cavati gli occhi all’uomo” – Lezioni sulla storia della filosofia – La Nuova Italia, Firenze 1981, vol.3,II, p.7).
Nella sua manifestazione, osserva appunto Steiner, l’universalità “deve essere prima trovata nel soggetto; perché essa può bensì venire acquisita dal soggetto a contatto con l’oggetto, ma non ricavata dall’oggetto” (p. 108); e aggiunge: “Si suol dire che l’oggetto dell’esperienza è individuale, è visione vivente, mentre il concetto è astratto e, rispetto all’esperienza piena di contenuto, povero, vuoto. Ma in che cosa si cerca qui la ricchezza delle determinazioni? Nel numero di esse che, appunto, data l’infinità dello spazio, può essere infinitamente grande. Ma non per questo il concetto è meno pienamente determinato. Il numero delle determinazioni è qui surrogato dalla qualità. Ma come nel concetto non si trova il numero, la quantità, così alla percezione manca l’elemento qualitativo-dinamico dei caratteri. Il concetto è altrettanto individuale, altrettanto pieno di contenuto quanto la percezione (…) E’ vacuo e ozioso dire che il concetto sia nemico della percezione piena di vita. Ne è l’essenza, il vero principio attivo e operante in essa” (pp. 108-109).
Ricordate che cosa abbiamo detto l’ultima volta, immaginando di disegnare tre triangoli: uno equilatero, uno isoscele e uno scaleno? Abbiamo detto che ci saremmo trovati di fronte a tre immagini percettive (e a tre rappresentazioni) di uno stesso concetto. Lo stesso sarebbe stato, naturalmente, se invece di tre triangoli, avessimo immaginato di disegnarne trenta, trecento o tremila; e sarebbe stato lo stesso proprio perché “nel concetto – come dice Steiner – non si trova il numero, la quantità”, così come “alla percezione manca l’elemento qualitativo-dinamico dei caratteri”.
Come ci siamo infatti espressi, poco fa? ““Qui e ora” (hic et nunc), percepisco qualcosa. So dunque che qualcosa (una X) esiste, ma non so ancora qual è la cosa che esiste”: ovvero, non so ancora qual è la sua qualità.
Scrive ancora Steiner: “Solo nel modo che abbiamo accennato si arriva a una spiegazione soddisfacente di ciò che è veramente conoscenza sperimentale. Non si vedrebbe proprio la necessità di procedere alla conoscenza concettuale, se il concetto non aggiungesse nulla di nuovo alla percezione dei sensi. Il puro sapere sperimentale non farebbe nemmeno un passo al di là dei milioni di singoli particolari che ci stanno davanti nella percezione” (p. 109).
Come sapete, Francis Bacon (Francesco Bacone, 1561-1626) è uno dei più importanti maestri di quella “conoscenza sperimentale” (o “filosofia empirica”) che – scrive Hegel – “considera l’esperienza come unica e verace fonte del conoscere” (ibid., p. 20), ed è pertanto convinta che il concetto – come afferma Steiner – non aggiunga “nulla di nuovo alla percezione dei sensi”.
Permettetemi dunque di concludere questo nostro incontro, leggendovi alcuni passi di quanto scrive sempre Hegel a proposito di tale filosofia: “Bacone è ancor oggi esaltato come colui che avrebbe indicato alla conoscenza, la sua vera fonte, l’esperienza; egli è infatti propriamente l’antesignano e il rappresentante di quel che in Inghilterra si suol denominare filosofia, e su cui gl’Inglesi non sono riusciti ancora a sollevarsi. Infatti essi sembrano costituire in Europa il popolo che, limitato all’intelletto della “realtà”, sia destinato, come nello Stato i bottegai e gli artigiani, a viver sempre immerso nella materia, e ad aver per oggetto la “realtà”, ma non la ragione”; Bacone e “tutti gli eroi dell’esperienza, che vennero dopo di lui, i quali misero in pratica ciò ch’egli voleva, e mediante osservazioni, ricerche ed esperimenti credettero d’ottenere la cosa stessa in tutta la sua purezza, non poterono farlo senza ricorrere a deduzioni e a concetti; e i loro concetti e le loro deduzioni furono tanto peggiori, quanto più essi credevano di non avere a che fare con concetti (…) Abbiamo già ricordato quanto importi il mirare al contenuto come contenuto della realtà del presente: il razionale, infatti, deve avere realtà oggettiva. La conciliazione dello spirito col mondo, la sublimazione della natura e d’ogni realtà, non dev’essere un al di là, un “allora”, ma deve compiersi adesso e qui. Questo momento dell’adesso e del qui è quello che in sostanza per tal via viene all’autocoscienza. Le esperienze, gli esperimenti, le osservazioni però non sanno quel che in verità fanno, cioè che l’unico motivo per cui s’interessano alle cose è appunto l’intima inconsapevole certezza che ha la ragione di trovar se stessa nella realtà; le osservazioni e gli esperimenti, quando sono rettamente istituiti, giungono precisamente al risultato che solo il concetto è l’oggettivo. Agli esperimenti sfugge appunto di fra le mani il singolo sensibile e diventa un universale (…) L’altro errore formale, comune a tutti gli empirici, è il credere d’attenersi alla sola esperienza: essi non hanno coscienza che nell’accogliere queste percezioni fanno della metafisica. L’uomo non s’arresta al singolo, né può arrestarvisi. Egli cerca l’universale, ed esso consta di pensieri, se non di concetti. La più cospicua forma di pensiero è quella della forza: si parla così di una forza elettrica, di una forza magnetica, di una forza di gravità. Ma la forza è un universale e non un percepibile; quindi nell’abbandonarsi a codeste determinazioni gli empirici operano in modo del tutto acritico e senza consapevolezza” (ibid., pp. 17-18 e 27-28).
Il problema, dunque, non è se si debba o non si debba muovere dalla percezione (sensibile), quanto piuttosto se si abbia o non si abbia coscienza dei processi e delle forze che le consentono di assurgere a esperienza conoscitiva o scientifica.
Roma, 30 gennaio 2001