Le opere scientifiche di Goethe (23)

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Cominciamo subito a leggere.

Scrive Steiner: “Il pensiero è chiamato a risolvere l’enigma che la percezione ci ha posto. Ci si fa luce su tale rapporto solo se cerchiamo il perché la realtà percepita ci lasci inappagati e quella pensata, invece, ci appaghi. La realtà percepibile si presenta dinanzi a noi come qualcosa di compiuto. E’ semplicemente qua; noi non abbiamo fatto nulla perché sia così. Perciò ci troviamo di fronte a un essere estraneo, non da noi prodotto, e alla cui produzione non siamo nemmeno stati presenti (…) Non è così per il nostro pensare. Un complesso di pensieri non mi appare senza ch’io collabori al suo prodursi; entra nel campo della mia percezione solo quando io lo sollevo dall’oscuro abisso dell’impercettibilità. Il pensiero non sorge in me, al pari della percezione dei sensi, come un quadro bello e fatto, bensì quando lo afferro in una forma conchiusa, mi rendo conto d’essere stato io stesso che a tal forma l’ho portato” (p. 112 -113).

Ebbene, possiamo trovare un’analoga distinzione tra ciò che, in quanto fatto o compiuto, s’impone all’uomo, e ciò che di contro fa, compie e pone l’uomo, in Giambattista Vico (1668-1744).
Ascoltate, infatti, ciò che scrive Paolo Rossi nella sua introduzione a La scienza nuova: “Nelle pagine del De antiquissima italorum sapientia (un breve testo pubblicato a Napoli nel 1710) Vico aveva formulato la sua dottrina del verum-factum. Il criterio della verità non è (come volevano i cartesiani) né nell’immediata evidenza, né nella chiarezza e distinzione delle idee, ma, invece, nella conversione del vero col fatto. In latino, aveva affermato Vico, le parole verum e factum hanno rapporto di reciprocità, sono termini sinonimi o equivalenti. Quest’uso linguistico è il residuo o la traccia di un’antica verità filosofica alla quale erano pervenuti gli antichissimi italici: il criterio di verità di una cosa sta nel farla. Di conseguenza la conoscenza piena della realtà, la intelligentia, spetta solo a Dio creatore o facitore dell’universo, che conosce il mondo proprio per averlo egli stesso costruito. Il sapere dell’uomo ha invece i caratteri della cogitatio, è una conoscenza finita, limitata e imperfetta. Il mondo appare all’uomo una realtà già costruita, un insieme di fatti; egli non conosce né può conoscere le regole che hanno presieduto alla costruzione e all’ordinamento di quei fatti: non può quindi penetrare oltre la superficie e l’esterna apparenza delle cose, deve limitarsi ad un’”anatomia” della natura. Ma nelle matematiche e nella geometria, là ove l’uomo costruisce artificialmente e convenzionalmente degli enti, e li impiega sulla base di regole – anch’esse artificialmente costruite e convenzionalmente ritenute valide -, è possibile una conoscenza certa, irrefutabile e rigorosa (…) La matematica e la geometria non sono, come aveva inteso Galileo, rivelatrici del linguaggio divino presente nella natura, non dicono nulla sul mondo: sono un prodotto di quella singolare capacità che ha avuto l’uomo di trarre utili frutti dal limite costitutivo della sua mente. Intorno al 1720, sulla base di un approfondimento di questa sua dottrina, Vico giunse a una scoperta d’importanza decisiva (…) All’uomo, si è visto, era preclusa una scienza piena del mondo naturale e materiale; il suo sapere sembrava confinato al mondo della matematica e della geometria, condannato a muoversi fra enti fittizi e fra regole artificialmente e convenzionalmente stabilite. Vico espande ora il criterio del verum-factum alla realtà storica, lo allarga a comprendere quel mondo che è opera e costruzione dell’uomo. Un mondo contesto non di oggetti materiali ed esterni (come il mondo naturale), né di enti fittizi (come il mondo della matematica), ma di motivi, di propositi, di azioni, di terrori, di speranze, di linguaggi, di miti, di leggi, di istituzioni civili. Di fronte a questo mondo l’uomo non è uno spettatore passivo: può conoscere questo mondo dall’interno, dato che egli stesso che conosce è attore e protagonista in tale mondo” (introduzione a G.Vico: La scienza nuova – Rizzoli, Milano 1994, pp. 22-23).
Certo, Vico ignora che l’uomo, in tanto può avere – come sosteneva Galilei – “una scienza piena del mondo naturale e materiale”, o della realtà “già costruita” e “fatta”, in quanto si serve, a tal fine, del proprio corpo fisico (in specie, del proprio sistema neuro-sensoriale): ovvero, di ciò che anche in lui è “naturale e materiale”, o realtà “già costruita” e “fatta”.
Quel che importa rilevare, tuttavia, è che come Vico afferma che l’uomo può conoscere il mondo della storia “dall’interno”, poiché ne è, non “spettatore passivo”, bensì “attore e protagonista”, così Steiner afferma che l’uomo può conoscere, allo stesso modo e per le medesime ragioni, il mondo del pensiero: “un complesso di pensieri – dice infatti – non mi appare senza ch’io collabori al suo prodursi; entra nel campo della mia percezione solo quando io lo sollevo dall’oscuro abisso dell’impercettibilità. Il pensiero non sorge in me, al pari della percezione dei sensi, come un quadro bello e fatto, bensì quando lo afferro in una forma conchiusa, mi rendo conto d’essere stato io stesso che a tal forma l’ho portato”.

E continua: “E questo è quel che devo esigere da ogni cosa ch’entri nel campo della mia percezione, se voglio comprenderla: nulla deve rimanermene oscuro; nulla deve apparirmi come qualcosa di compiuto; io stesso devo poterla seguire fino al punto in cui è divenuta tale. Perciò la forma immediata della realtà, che usiamo chiamare esperienza, ci spinge a una elaborazione scientifica. Quando mettiamo in moto il nostro pensare, risaliamo a quelle condizioni del dato che da prima ci sono rimaste celate; ci solleviamo attivamente dal prodotto alla produzione, fino a che la percezione sensoria non ci sia divenuta trasparente allo stesso modo come il pensiero” (p. 113).

Potremmo anche dire che, mettendo “in moto il nostro pensare”, ragioniamo, e ch’è l’Io stesso, ragionando, a muoversi. Sentiamo, infatti, che il ragionare, quando non sia l’Io a muoverlo, si traduce addirittura in uno “sragionare”.
Ricordate, ad esempio, le espressioni algebriche che facevamo a scuola? Non bastava forse un attimo di distrazione per sbagliare un calcolo? E che cos’è la distrazione? Appunto un segno dell’assenza (oscurante) dell’Io, così come l’attenzione e la concentrazione sono viceversa segni della sua (illuminante) presenza.
Dice Steiner: “Quando mettiamo in moto il nostro pensare, risaliamo a quelle condizioni del dato che da prima ci sono rimaste celate; ci solleviamo attivamente dal prodotto alla produzione, fino a che la percezione sensoria non ci sia divenuta trasparente allo stesso modo come il pensiero”. Il che vuol dire che “quando mettiamo in moto il nostro pensare, ci solleviamo attivamente” dal percetto (dal “prodotto”) al concetto (alla “produzione”), fino a che il primo non ci sia divenuto trasparente allo stesso modo del secondo. Solo la trasparenza del pensiero può rendere infatti trasparente o luminosa la percezione.

Prosegue Steiner: “Un processo del mondo appare da noi totalmente compenetrato solo se è nostra propria attività. Un pensiero appare quale conclusione d’un processo entro il quale noi stiamo. Ora il pensare è l’unico processo nel quale noi possiamo inserirci totalmente, immergerci pienamente. Perciò alla considerazione scientifica la realtà sperimentata deve apparire scaturente dallo sviluppo del pensiero nello stesso modo come un pensiero puro. Investigare l’essenza d’una cosa significa partirsi dal centro del mondo del pensiero e da lì lavorare finché dinanzi all’anima non sorga una formazione di pensiero che ci appaia identica all’oggetto sperimentato” (p. 113).

Sostiene Boncinelli che “le entità fondamentali che caratterizzano e regolano i fenomeni dell’universo fisico, indipendentemente dal fatto che si tratti di oggetti animati o di oggetti inanimati, sono tre: la materia, l’energia e l’informazione” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 11).
Gli oggetti animati e inanimati sono dunque fatti non solo di materia e di energia, ma anche d’informazione. D’accordo, ma dal momento che un’“informazione” altro non è (in sé) che “pensiero”, perché non dire allora che le cose animate e inanimate sono fatte anche di pensiero, e che l’uomo, per conoscerle, deve pertanto portare il pensiero ch’è in lui incontro al pensiero che è nelle cose? Dice appunto Steiner che “investigare l’essenza d’una cosa significa partirsi dal centro del mondo del pensiero”, vale a dire dall’Io, “e da lì lavorare”, cioè pensare, “finché dinanzi all’anima non sorga una formazione di pensiero”, ossia un concetto, “che ci appaia identica all’oggetto sperimentato”, ovvero al percetto. (Senza considerare che, nella prima delle sue Massime, si legge: ”L’antroposofia è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” (Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p. 15).
Come vedete, mediante il concetto d’”informazione” si tende a oscurare e occultare quello del “concetto”. Osserva giustappunto Hegel: “Certamente, in tempi moderni, a nessun concetto è andata così male come al concetto stesso, al concetto in sé e per sé” (Estetica – Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 107).
Nei “tempi moderni”, tuttavia, unitamente a quello del concetto, è “andata male”, sia al concetto del pensare, sia a quello dell’Io: e non poteva essere altrimenti, poiché il concetto sorge attraverso il pensare, e il pensare è un’attività dell’Io (una “nostra propria attività”).
Certo, per portare avanti quest’attività dobbiamo farci largo attraverso una folta schiera o legione di forze illusorie e ingannevoli. “Non ci si guarderà mai abbastanza – avverte infatti Goethe – dal trarre da esperimenti conclusioni affrettate; giacché è appunto al passaggio dall’esperienza al giudizio, dalla conoscenza all’applicazione, che, come ad una stretta, tutti i nemici segreti dell’uomo stanno in agguato; fantasia, impazienza, precipitazione, arroganza, caparbietà, forma mentis, preconcetti, pigrizia, leggerezza, volubilità, o come si vogliano altrimenti chiamare questi nemici con tutto il loro seguito, ci aspettano al varco, e inopinatamente sopraffanno sia l’attivo uomo di mondo, sia lo studioso pacato e apparentemente alieno da passioni” (L’esperimento come mediatore fra oggetto e soggetto in Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol. V, p. 31).
Teniamo comunque presente che, dal punto di vista spirituale, la veracità dello sforzo compiuto vale più dell’eventuale risultato ottenuto; non solo, ma che com’è vero che “non è tutt’oro quel che riluce” così è vero che non è “tutto pensiero” quel che si presenta come tale.
Chi, osservandolo, impara a conoscere il pensare reale, impara anche infatti a distinguerlo dal pensare apparente: ossia da quel pensare (detto, da Scaligero, “dialettico”) che usa trafficare, non con i pensieri (con i concetti), bensì con le parole.
Osserva appunto Steiner: “La maggior parte di ciò che nella vita ordinaria si chiama “pensare” si svolge in parole; si pensa “in parole”. Molto più di quel che non si creda si pensa in parole. E molti, quando chiedono spiegazione di questo o di quello, si accontentano che si dica loro una parola qualsiasi, di cui sia loro noto il suono e che desti in essi qualche ricordo; prendono allora per spiegazione ciò che essi sentono con una tale parola e credono di avere il “pensiero”” (Il pensiero cosmico – Basaia, Roma 1985, p. 3).
Ciò vale, anzitutto, per quanti si occupano della scienza dello spirito. La profondità e la ricchezza di questa scienza (definita, da Steiner, “un’alta scuola di pensiero”) esigono infatti uno studio serio e impegnativo. “Non soltanto per l’esoterista vero e proprio, – sottolinea infatti Steiner – ma anche per chi vuole accogliere pensieri antroposofici nelle sue forze animiche, sarà importante venire a sapere qualcosa sui mutamenti che l’intera entità umana sperimenta sia che l’uomo esegua esercizi come quelli indicati nel mio scritto L’iniziazione, oppure come sono brevemente riassunti nella seconda parte della mia Scienza occulta, sia anche perché semplicemente, ma con il cuore e l’anima, si apprendono pensieri antroposofici. L’antroposofia coltivata esotericamente o exotericamente e con serietà, determina nella realtà certi mutamenti nell’organizzazione totale dell’uomo. Mediante l’antroposofia (lo si può affermare con coraggio) si diventa diversi, si trasforma la propria intera struttura umana” (Lo sviluppo occulto dell’uomo nelle sue quattro parti costitutive – Antroposofica, Milano 1986, p. 7).
Apprendere “con il cuore e l’anima”, e “con serietà”, pensieri antroposofici vuol dire però studiare, e non semplicemente leggere, ascoltare, frequentare gruppi o darsi a una delle tante attività, più o meno artistiche, che si richiamano all’antroposofia.
Lo studio è “studio”: vale a dire, fatica, sforzo, costanza, tenacia, interesse e amore, e non un hobby o un passatempo. Chi studia mai si stanca o annoia, ad esempio, di tornare a riflettere sulle stesse cose. Osserva infatti Steiner: “Non dobbiamo trovar troppo difficile nessun libro. Ciò vorrebbe semplicemente dire esser troppo pigri a pensare. I migliori libri sono quelli che bisogna prendere e riprendere molte volte in mano, che non si comprendono subito, che è necessario studiare frase per frase. Nello studio non importa tanto che cosa, quanto come si studia (Iniziazione e misteri – Rocco, Napoli 1953, pp. 120-121).
Non so se sapete, a questo proposito, che Steiner, a una persona che gli aveva chiesto d’indicargli un buon libro “occulto”, consigliò di studiare la Dottrina della scienza di Fichte (Laterza, Roma-Bari 1993). A me capita invece di consigliare (nel mio piccolo) la Scienza della logica di Hegel (Laterza, Roma-Bari 1974), ma è la stessa cosa: si tratta infatti di due opere che non si prestano a essere “lette”, ma sulle quali è necessario, piuttosto, “rompersi la testa”.
Sempre Steiner, del resto, così ha scritto nella prefazione alla terza edizione della sua Teosofia: “Il modo come si usa leggere nei nostri tempi, non vale per questo libro. In un certo senso, ogni pagina, spesso anche pochi periodi, dovranno essere conquistati con sforzo. A questo si è teso coscientemente. Poiché solo così il libro può diventare per il lettore quel che ha da essere per lui. Chi si limita a scorrerlo, non lo avrà affatto letto” (Teosofia – Antroposofica, Milano 1957, p. 1).
Sarà bene tenerlo a mente, poiché, in genere, coloro che dicono di amare il rigore del pensiero scientifico disdegnano l’occultismo, mentre coloro che dicono di amare l’occultismo disdegnano il rigore del pensiero scientifico, prediligendo magari la lettura delle opere di “divulgazione” o di quei tanti testi intesi ad appagare la curiosità o il desiderio di quelle suggestioni che derivano dal ficcare il naso nel mondo dei cosiddetti “misteri”.
A questo preciso riguardo (e sempre nella prefazione alla terza edizione della sua Teosofia) Steiner scrive: “Il mio stile non è tenuto in modo da far trapelare nei periodi i miei sentimenti soggettivi. Mentre scrivo, attutisco ciò che sale dall’intimo calore e dal profondo del sentimento, in uno stile asciutto, matematico Ma solo questo stile può essere un risvegliatore; poiché il lettore deve suscitare in se stesso il calore e il sentimento; non può lasciare che, in uno stato di coscienza smorzata, essi vengano in lui semplicemente travasati dall’autore” (ibid., p. 5).
Intento che, in una delle prefazioni a La scienza occulta (quella del 1925), così ribadisce: “Del tutto coscientemente ho teso non a fare un’esposizione “popolare”, ma piuttosto un’esposizione che rendesse necessario penetrare nel contenuto con una giusta fatica di pensiero. Ho impresso così ai miei libri un carattere tale che già lo stesso leggere sia l’inizio di una scuola dello spirito, perché il calmo e avveduto impegno di pensiero, reso necessario dalla lettura, rinvigorisce le forze dell’anima e le rende così capaci di avvicinarsi al mondo spirituale” (La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969, p. 10).
E più oltre, nel testo, leggiamo: “Chi aspira a una scienza dello spirito non può che semplicemente esporre quello che crede poter dire. Potranno giudicare se questa aspirazione sia giustificata, solamente coloro che, astenendosi da qualsiasi arbitraria sentenza, sappiano prestare ascolto alle sue comunicazioni circa i “manifesti misteri” (Goethe – nda) del mondo. Sarà peraltro suo compito il mostrare come i risultati delle sue indagini si inquadrino nelle rimanenti acquisizioni del sapere e della vita, quali opposizioni risultino possibili e quali conferme la realtà esteriore immediata della vita offra alle sue osservazioni. Egli però non dovrebbe mai dare alla sua esposizione un carattere tale, per cui l’abilità retorica si sostituisca all’efficacia del contenuto stesso” (ibid., pp. 33-34).

Roma, 13 febbraio 2001

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Di Lucio Russo
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